Ludovico Albert, Daniele Marini (a cura di)
La valutazione dell'esperienza duale nell'istruzione e formazione professionale
DOI: 10.1401/9788815371225/c1
Noi abbiamo orientatori psicologi in ogni centro i quali hanno proprio l’obiettivo di capire la tipologia di persone, quindi se è in grado o meno non solo di essere inserita in un percorso duale, ma anche di generare eventuale conflittualità, perché magari ha delle caratteristiche particolari, oppure se vi sono delle situazioni un po’ particolari di difficoltà [...] In ingresso viene fatto un orientamento fin dal primo anno e, rispetto al tema del duale, intercettando noi abbastanza anche ragazzi drop-out c’è quindi
{p. 41}una varietà di età dei ragazzi in ingresso, vengono costituite delle classi tendenzialmente dove il ragazzo magari è un po’ più grande, quindi ha maggior facilità a reggere poi il percorso in azienda, perché comunque con un ragazzo troppo piccolo, il quindicenne, è difficile. Quindi vengono costruite con un criterio e viene anche definito già fin dall’inizio, in orientamento, che quella classe avrà un percorso – non il primo anno perché è parallelo – dal secondo anno in avanti con una curvatura duale. Questo è già chiaro in fase di colloquio all’inizio, perché incontriamo ogni ragazzo con la famiglia e li informiamo, non c’è semplicemente un’iscrizione del ragazzo ed è «immesso in una classe». Dal mese di luglio fino ai primi di settembre incontriamo tutti i ragazzi che si iscrivono e le loro famiglie e in quell’occasione c’è il c.d. colloquio di orientamento, che non è un colloquio di selezione (NF1).
Le esperienze di orientamento risultano così diversificate sia per intensità, che per strutturazione e vanno dalla semplice «promozione» della possibilità di fare un percorso duale al IV anno, fino a modalità reiterate nel tempo di un accompagnamento vero e proprio degli/lle studenti/esse. Come per altre attività formative previste dall’esperienza duale (e non solo) sono sì realizzate dagli enti, ma con formulazioni articolate e disomogenee sul piano nazionale. D’altro canto, non esistendo a livello nazionale un sistema di orientamento scolastico e professionale, anche in questo caso ciascuno si attrezza secondo le proprie possibilità e intuizioni.
All’interno della programmazione formativa è prevista anche un’attività di monitoraggio durante l’esperienza dell’inserimento lavorativo, con diversi livelli di formalizzazione e di strumentazione. Più spesso è un’attività curata dal tutor formativo mediante la valutazione individuale dei libretti degli alunni, le visite periodiche e i confronti con le aziende e i tutor aziendali che possono essere svolti in forma individuale, come in forma assembleare. Non mancano poi i report di valutazione richiesti dalle regioni, piuttosto che con questionari di valutazione a fine corso o unità formative.
In altri termini, la valutazione e il monitoraggio continuativo è presente, ma esiste uno spettro molto ampio di modalità con cui questo viene realizzato. Ciò però rende {p. 42}complicata, a sua volta, una valutazione complessiva del sistema degli enti di IeFP a livello nazionale.
Alla programmazione didattica congiunta fra scuola e imprese, dovrebbe conseguire anche un sistema di valutazione degli esiti e dei livelli raggiunti dagli/lle/ studenti/esse progettato e condiviso. La quasi totalità degli interpellati (19 casi su 20) dichiara che, al termine dell’esperienza, viene realizzata una valutazione congiunta fra enti e imprese e il peso assegnato ai giudizi dell’inserimento in azienda varia in un intervallo compreso fra il 15% e il 50%. In realtà, più che «congiunta», si tratta di una messa in comune delle valutazioni al fine di trovare una media.
Non vi è una valutazione congiunta, bensì la valutazione fornita dall’azienda diviene parte integrante ulteriore della valutazione formativa generale dell’allievo (NL1).
Sotto questo profilo il percorso deve essere ancora implementato, secondo i testimoni privilegiati intervistati, poiché non si è ancora raggiunto un vero e proprio sistema di valutazione partecipato. I motivi sono diversi e di natura pratica.
In primo luogo, c’è una causa di fondo, di impostazione generale sulla quale è necessario riflettere: mentre la scuola è interessata e pone l’accento sul «processo» di acquisizione delle competenze e delle abilità, l’impresa si focalizza soprattutto sul «prodotto», su quanto è realizzato. In questo divario insiste la difficoltà di individuare dei criteri comuni di valutazione:
È abbastanza evidente che per un tutor aziendale, se al ragazzo chiedi di produrre un manufatto e lui te lo produce in maniera congrua alle specifiche che gli hai dato, vuol dire che questa cosa la sa fare. L’azienda si accontenta di avere anche solo il manufatto, non sta a capire se ha fatto dei ragionamenti particolari (DL1).
In secondo luogo, esiste uno spostamento del baricentro cognitivo: mentre le attività formative paiono ancora concentrate in particolare sull’acquisizione delle competenze tecnico-professionali, le imprese pongono progressivamente {p. 43}l’accento sulle soft skills. Queste ultime, ancorché di difficile e omogena identificazione, risultano complicate da valutare tradizionalmente (attraverso i voti), benché su questo versante si stiano realizzando esperienze proficue:
Poi se passiamo a voti e numeri bisogna scendere a patti con buon senso; diciamo che il sistema da questo punto di vista non è pronto e noi a volte fatichiamo a tradurre una competenza raggiunta in un voto. Stiamo cercando di fare il possibile adesso per portare a sistema questa modalità; diciamo, però, che questo non è mai stato un ostacolo perché l’azienda ci ha molto aiutato. Nelle verifiche, interrogazioni e prove i ragazzi si sono dimostrati molto più seri e sono riusciti ad affrontarle con molta più serenità (DP2).
Noi abbiamo lavorato, anche nei corsi tradizionali, sulle soft skills, provando innanzitutto a definirle. Esistono molte definizioni; noi ne abbiamo scelte sei, quelle che ci chiedono gli imprenditori quando hanno bisogno di assumere i ragazzi. Abbiamo poi provato a definire come valutarle. Fino a quando non si capisce come e se è valutabile, non è possibile capire se sia possibile sviluppare una soft skill. Dopo due anni di test abbiamo visto che è possibile, e più si sta nel mondo del lavoro, più le soft skills sono misurabili e valutabili (DP1).
I criteri di valutazione, i riferimenti sono soprattutto ad alcune competenze trasversali, tipo l’interazione con il personale, la capacità di comunicazione, di attenzione [...] Poi si cerca di capire la capacità complessiva di un allievo di realizzare un prodotto nel suo settore (SC2).
Come si può osservare, tutti gli enti svolgono attività di valutazione, ma con modalità diversificate. Il tema della valutazione congiunta fra scuola e imprese, alla fine, rappresenta un terreno sfidante in buona misura ancora tutto da esplorare.

4.2. Docenti

L’introduzione della sperimentazione duale ha richiesto, nella sua fase di avvio, un processo di coinvolgimento a diversi livelli del corpo docente. Su 20 casi interpellati, solo in {p. 44}4 realtà non si sono realizzate attività formative particolari, mentre nei restanti 16 possiamo individuare almeno due tipologie di iniziative.
Quella prevalente ha visto coinvolti gli insegnanti in momenti di formazione dedicata a illustrare le novità dell’approccio duale, per condividerne il metodo e gli obiettivi. In prima battuta sugli insegnati che avrebbero fin dall’inizio seguito il nuovo itinerario e, poi, a seguire anche il resto del corpo docente dell’ente.
Con lo stabilizzarsi di questa modalità duale all’interno del nostro ente abbiamo cominciato a coinvolgere anche il resto del corpo docente, lavorando soprattutto sulle competenze distribuite e di appannaggio non più solo del corpo docente e della scuola ma anche dell’azienda. Infatti, abbiamo fatto il collegio docenti all’interno dell’azienda (CM1).
L’aspetto interessante da sottolineare – come dimostra la testimonianza precedente – è che, in più di qualche caso, fin dall’inizio si è stabilita una connessione con le imprese del territorio coinvolgendo e scambiando reciprocamente obiettivi, metodi e linguaggi. Per alcuni enti (almeno un paio di casi), l’attività formativa non è stata autogestita, ma realizzata in collaborazione con altri soggetti o promossa dalle istituzioni locali.
La formazione in questa regione viene erogata attraverso un’ATI di dodici enti. Dentro questa ATI ci sono finanziamenti triennali e ci sono delle parti destinate alla formazione proprio dei docenti, formazione ai formatori. Quindi è stato fatto un piano di formazione per tutti i docenti, non solo del nostro ente, ma del sistema regionale (NF1).
Ci siamo affidati ai CPIA (Centri professionali di istruzione degli adulti) oppure abbiamo cercato a volte anche insegnanti di ruolo in pensione, che però avevano un’esperienza trentennale di formazione (CT1).
Il ricorso a personale esterno all’ente nell’avvio della sperimentazione è un’esperienza assai diffusa. Nella quasi totalità degli interpellati (17 casi) la composizione del cor{p. 45}po docente è un mix fra personale interno e professionisti reperiti sul mercato in grado di apportare le conoscenze necessarie alla formazione dei diversi profili professionali e da funzionare come tramite nel dialogo con le imprese. Solo in tre situazioni la funzione docente è totalmente (o quasi) ricoperta da personale assunto dall’ente.
Anche la modalità di costruzione dei piani didattici e formativi segue una modalità dove, in grande prevalenza, viene prevista un’interlocuzione fra più soggetti: docenti, esperti esterni, imprese che si confrontano al fine di calibrare gli obiettivi formativi, la definizione delle competenze da acquisire. Talvolta utilizzando gli scheletri formativi e le normative istituzionali (Miur o regione) come base di partenza, altre volte rimodulandole sulla scorta delle necessità delle imprese del territorio e così via. Insomma, in una modalità flessibile e modulare, quasi sartoriale. In ogni caso, prendendo sempre le mosse dalle diverse realtà lavorative e su quelle innestando le parti teoriche delle discipline.
In base a quella che è la programmazione didattica dei docenti pratici, gli insegnanti delle altre discipline hanno contribuito affinché l’apprendimento fosse più uniforme e concreto possibile (NL2).
Un ruolo centrale nella sperimentazione duale è giocato dal tutor formativo. Questo profilo funziona da relè organizzativo [16]
, interfacciandosi continuamente fra più realtà: ente di formazione, impresa e famiglie. Si potrebbe sostenere che realizza un’opera di «mediazione culturale» dove si cercano linguaggi e codici condivisi.
La figura del tutor formativo per noi era molto importante: svolge un ruolo di mediazione tra famiglie, ragazzi, docenti. Ne abbiamo affiancato anche un altro (di tutor) perché si è rafforzato proprio questo rapporto con l’impresa. Il criterio è innanzitutto una grande disponibilità al coinvolgimento con le imprese, a capire le loro esigenze, una persona molto dinamica che visita le
{p. 46}aziende costantemente: questo è l’aspetto molto importante per noi e per le imprese [...] I tutor sono delle persone un po’ più adulte, perché pensiamo che anche nel rapporto con il ragazzo c’è bisogno di una persona che abbia un approccio adulto con lui, che sappia anche capire, valorizzare i suoi passi, ma anche magari riprenderlo e correggerlo quando necessario (SM1).
Note
[16] La definizione è tratta da M. Crozier e E. Friedberg, Attore sociale e sistema. Sociologia dell’azione organizzata, Milano, Etas, 1978.