Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c1

Nel mondo delle legalità al plurale e dell’interconnessione

Notizie Autori
Edoardo Chiti è professore di Diritto amministrativo, Università degli Studi della Tuscia e Scuola Superiore Sant’Anna.
Notizie Autori
Alberto di Martino è professore di Diritto penale, Scuola Superiore Sant’Anna.
Notizie Autori
Gianluigi Palombella è professore di Filosofia del diritto, Scuola Superiore Sant’Anna.
Abstract
I processi di globalizzazione oggi giunti al più alto grado di concretezza mai raggiunto nella storia hanno avuto come conseguenza una rimodulazione dei processi di governance dei vari paesi, sradicati e sempre più privi di legittimazione in quanto frequentemente in conflitto con altre fonti di diritto internazionale. Ciò rappresenta un mutamento qualitativo sostanziale rispetto a quella che un tempo è stata l’essenza del diritto moderno, conchiuso e inevitabilmente legato ad un determinato sistema. Data per certa l’impossibilità di istituire una cornice giuridica omnicomprensiva e ordinata gerarchicamente si assiste oggi all’esigenza di nuove forme pluralistiche e intersezionaliste e, quindi, del passaggio dalla legalità alle legalità in senso plurale. Il capitolo introduce il tema dell’interlegalità evidenziando quelle che sono le sue caratteristiche peculiari, ovvero la pluralità dei formati del diritto, la varietà di processi combinatori, la mancanza di un centro unificante e il fatto di avere nel caso concreto il suo baricentro.

1. La vita nuova del diritto

Nello spazio giuridico globalizzato, la vita del diritto ha assunto forme inedite e segue un andamento contraddittorio e altalenante, ondeggiando tra spinte centrifughe e spinte centripete.
Per molte ragioni, è un effetto della globalizzazione del diritto, conteso tra il controllo domestico e l’internazionalizzazione, tra le logiche trans-territoriali della regolazione funzionale (regionale o sopranazionale), la tutela di beni comuni globali, da un lato, e beni politici «locali», dall’altro, tra rigurgiti di sovranità territoriali e cooperazione multilaterale. Lo scenario globale diventa ad un tempo il luogo della civilizzazione, della tutela degli interessi collettivi dei popoli e dei diritti umani, ma anche lo spettro della governance disincarnata, sradicata, priva di legittimazione e sfornita di ogni credenziale «democratica». Le Corti nazionali appaiono garanti sia del diritto inter- e sovranazionale sia dei peculiari fili del tessuto costituzionale [1]
; e si muovono in direzioni adesive e «virtuose» rispetto alle obbligazioni assunte verso legalità esterne, come in senso drasticamente opposto, rivendicando le priorità proprie dell’ordinamento di cui ritengono d’essere custodi.
Al di sotto di questi fenomeni, che sono l’oggetto privilegiato degli studi giuridici più avanzati, sembra svelarsi la crisi dei confini, o meglio di quella distinzione che ha {p. 10}reso il diritto moderno completo e conchiuso, e pertanto assimilabile a un sistema: quella distinzione tra l’interno e l’esterno, tra norme e fatti, resiste sempre più debolmente al proliferare delle intersezioni, delle sovrapposizioni di legalità, per quanto esse debbano essere descritte, per converso, come plurali, frammentate, conflittuali, concorrenti, eterogenee.
Sia pure attraverso una tale immagine di superficie, l’insieme che ne emerge suscita la netta sensazione di un mutamento qualitativo, che sarebbe miope voler contrastare addomesticandone i connotati come varianti di una trama già nota, propria del diritto che già conosciamo.
La proposta, recentemente formulata, di una nuova Costituzione della Terra [2]
non appartiene più alle utopie filosofiche e visionarie, ma viene costruita attraverso una lettura serrata dei presupposti giuridici che potrebbero renderla possibile. Il bisogno di compensare su scala mondiale la perdita di controllo che gli ordinamenti costituzionali avvertono nel governare processi e interessi che li attraversano senza sosta, si esprime in costruzioni meta-costituzionali, inevitabilmente ispirate ad una più rassicurante reductio ad unum, che l’universalità del diritto è chiamata a produrre [3]
. Le riedizioni contemporanee dell’internazionalismo etico del Novecento [4]
non sempre fanno i conti con le trasformazioni nella teleologia, nelle funzioni, nelle strutture dello stesso diritto internazionale, i cui successivi strati normativi (con{p. 11}venzionale, comunitario, regolatorio) [5]
obbediscono a molte e separate logiche, controllano scopi concorrenti attraverso regimi «chiusi», invadono, di fatto o di diritto, l’autonomia interna degli Stati anziché disciplinarne la mera indipendenza esterna [6]
. La stessa identificazione delle autorità normative di volta in volta rilevanti tende ad essere relativa e variabile, a seconda dell’interpretazione degli obiettivi (o dei principi, o dei valori) che si intendono prevalenti. E tuttavia, l’aspirazione a ricostruire su scala universale la consistenza di un ordine compiuto e coerente, è segno di una sorta di spill-over che non appare rinviabile: se solo si pensa alla progressiva convergenza e la stringente concentrazione di norme giuridiche disciplinanti gli obblighi degli Stati in materia di tutela ambientale, e al crescere della sempre più fruttuosa instaurazione di inediti procedimenti innanzi alle corti [7]
generatasi soprattutto successivamente al Trattato di Parigi (2015), le legalità «esterne» divengono primarie nella rideterminazione, con un processo «a cascata», delle decisioni nazionali [8]
. L’autarchia giuridica dominante sino a gran parte del Novecento sembra svanire sotto il peso di nuovi «impegni» che revocano definitivamente la vecchia definizione degli scopi del diritto sopranazionale in termini di mero controllo della pace e prevenzione della guerra, di {p. 12}relazioni «private» tra interessi statali [9]
: un quadro ormai arricchitosi di obiettivi di tutela e di promozione, di cooperazione e di solidarietà, non più contenibili dagli strumenti concettuali e dottrinali consueti. E il decadere della centralità del consenso appare per un verso la rimozione di un limite assoluto, per un altro la sottrazione delle questioni di comune interesse alla effettiva possibilità di «voce» da parte degli Stati meno influenti [10]
.

2. Il percorso verso l’interlegalità

Ciò nondimeno, le logiche dell’inter-sezionalità e del policentrismo, strumenti di analisi importati dagli studi giuridico-sociologici [11]
, spiegano come la coazione al possesso dell’ultima parola – nel contrasto tra ordinamenti, regimi giuridici, corti – si scontri con la relatività necessaria delle scelte, che ne attesta la contingenza: diventa così improbabile che una cornice unica e complessiva possa raccogliere e costituzionalizzare il mondo, definendo priorità, obiettivi o valori, che operino in base a ordinate gerarchie non più meramente formali dunque, ma sostanziali. E tra gli insegnamenti del positivismo giuridico occidentale, che ruota attorno alle versioni normativiste di Hans Kelsen e Herbert Hart, un ordinamento giuridico è tale se gode di un presupposto qualificante ed essenziale: l’esistenza. {p. 13}
È forse anche per questo che, nella sua costante revisione del legalismo contemporaneo, Paolo Grossi è passato dal dipingere l’affresco dell’ordine giuridico medievale [12]
alla affermazione del superamento della legalità: il tessuto del diritto che abbiamo di fronte è ormai giunto «oltre la legalità» [13]
. Che la teoria e la dottrina debbano confrontarsi con il diritto esistente, senza precluderne la comprensione, è cosa spesso dimenticata. Non si tratta del tramonto dei criteri di principio del rule of law, ma piuttosto, per Grossi, dell’inattualità di una concezione del diritto legicentrica, fondamentalmente monopolizzata dall’unificazione della fonte legittima nel potere pubblico e sovrano della legislazione (statale). È inevitabile pensare a un neo-medievalismo come il modello reicentrico (non legicentrico) del diritto, poggiante sul sapiente articolarsi giurisprudenziale della diversità di fonti, collocate come nel contemporaneo spazio globale su un piano orizzontale, eterarchico, che marginalizza il vecchio baricentro moderno della legalità. E dunque Grossi chiede: «Non sarebbe l’ora di togliere questo ingombro della “legalità” per esperienze cui tale principio non si addice?» [14]
.
La domanda, per la verità, è rivolta all’uso del termine nella formula «legalità al plurale» [15]
che intende rappresentare la disseminazione e la proliferazione di ordini giuridici nell’universo globale. Ma la risposta richiede di considerare questioni cruciali, e di superare qualche sovrapposizione semantica. Nonostante la sua ascendenza dal concetto di legge, l’uso fatto di «legalità» nel contesto richiamato tende, a differenza di quanto gli si rimprovera, ad essere neutro, avvicinando il senso anglosassone del termine legality, e comunque approssimando il senso di «giuridicità».
Un identico effetto sviante può aver assunto per Biagio De Giovanni, che accolse l’intera questione della «legalità»
{p. 14}globale, e delle «legalità al plurale» rappresentandola criticamente come «una furiosa espansione della legge» [16]
. Anche in questo caso, e forse a maggior ragione, la assimilazione della «legalità» a «legge», del tutto giustificata in un altro orizzonte semantico, tradisce qui qualcosa di simile a un equivoco: De Giovanni contrastava, giustamente, l’espansione della regolazione globale, constatandone il distacco dalle fonti politiche che agli assetti normativi conferiscono la ragion d’essere, un distacco dalla «vita» e dai contesti che ne costituiscono e decidono il senso. Dunque, si tratta sì di una espansione, e forse anche «furiosa», ma di un diritto disincarnato, non della «legge», che invece tradizionalmente è stata intesa come la voce e la volontà dello Stato moderno, espressione della «nazione», dei parlamenti, dell’autogoverno del popolo e via seguendo.
Note
[1] Un tale duplice ruolo, per la verità, è stato teorizzato come dédoublement fonctionnel da G.A.J Scelle, Le phénomène juridique de dédoublement fonctionnel, in W. Schätzel e H.-J.Schlochauer (a cura di), Rechtsfragen der internationalen Organisation – Festschrift für Hans Wehberg zu seinem 70. Geburtstag, Frankfurt a.M., Klostermann, 1956, pp. 324 ss.
[2] L. Ferrajoli, Perché una Costituzione della Terra?, Torino, Giappichelli, 2021.
[3] Cfr. P. Allott, The Emerging of a Universal Legal System, in A. Nollkaemper e J.E. Nijman (a cura di), New Perspectives on the Divide Between National and International Law, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 63 ss. Da un diverso punto di vista, che invoca strumenti procedurali e strumenti politici, A. Peters, The refinement of international law: From fragmentation to regime interaction and politicization, in «International Journal of Constitutional Law», 2017, pp. 671 ss.
[4] Esemplarmente, H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, Milano, Giuffrè, 1989; A. Verdross, Jus Dispositivum and Jus Cogens in International Law, in «American Journal of International Law», 1966, pp. 55 ss.
[5] Secondo la descrizione fornita da J.H.H. Weiler, The Geology of International Law – Governance, Democracy and Legitimacy, in «ZaöRV», 2004, pp. 547 ss.
[6] Cfr. G. Arangio-Ruiz, International Law and Interindividual Law, in A. Nollkaemper e J.E. Nijman (a cura di), New Perspectives on the Divide Between National and International Law, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 17 ss.
[7] Sulla litigation: I. Alogna, C. Bakker e J-P. Gauci (a cura di), Climate Change Litigation: Global Perspectives, Leiden, Brill, 2021. Si veda anche G. Palombella, Access to Justice: Dynamic, Foundational, and Generative, in «Ratio Juris», 2021, pp. 121 ss.
[8] Si pensi altresì anche alla categoria, ben nota, ma portata in primo piano nell’ultimo paio d’anni, di quelli che chiameremmo regolatori «epistemici», e che governano attraverso cornici e linee guida di natura «puramente» scientifica interi settori della vita associata, in primis, la salute pubblica, nazionale, regionale, globale (cfr. G. Palombella, Two Threats to the Rule of law: Legal and Epistemic, in «Hague Journal on the Rule of Law», 2019, pp. 383 ss.).
[9] Secondo la Permanent Court of International Justice che si pronunciava nel caso S.S. Lotus, PCIJ. Ser. A. No. 10, at 18, (1927), essendo il diritto internazionale fondato sulla volontà degli Stati, nessuna limitazione a tale volontà può mai essere presunta. Ma le cose possono cambiare, appunto per via della inarrestabile interdipendenza e della centralità che acquisiscono gli interessi comuni tra gli Stati: per es. G. Shaffer, International Law and Global Public Goods in a Legal Pluralist World, in «European Journal of International Law», 2012, pp. 669 ss.
[10] Cfr. N. Krisch, The Decay of Consent: International Law in an Age of Global Public Goods, in «American Journal of International Law», 2014, pp. 1 ss.
[11] Cfr. H. Petersen e H. Zahle (a cura di), Legal Polycentricity. Consequences of Pluralism in Law, Aldershot, Dartmouth, 1995.
[12] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, Laterza, 2007.
[13] Id., Oltre la legalità, Roma-Bari, Laterza, 2020.
[14] Ibidem, p. 35.
[15] G. Palombella, È possibile una legalità globale? Il Rule of law e la governance del mondo, Bologna, Il Mulino, 2012, in particolare capitolo III: Una mappa del globo: Legalità al plurale, pp. 107 ss.; E. Scoditti, Legalità al plurale, in «Quaderni Costituzionali», 2013, pp. 1031 ss.
[16] B. De Giovanni, Alle origini della democrazia di massa. I filosofi e i giuristi, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013 (Appendice: Postilla non conclusiva [sull’attualità]).