Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c1
Il punto cruciale che fa da contrasto rispetto alle forme «disincarnate» del diritto dei regolatori globali sta proprio nella presupposizione classica e montesquiviana, secondo cui il diritto dipende da ciò che regola, e non viceversa. Questo formato dunque non solo si conserva attraverso il principio di legalità, ma ne fa il suo strumento canonico. La crescita esponenziale di un diritto esterno e sradicato, ma razionalizzante, regolatorio o civilizzatore (jus gentium), l’adesione al canone di libertà esposto nell’evoluzione del (per nulla coincidente) ideale del rule of law [25]
, rappresentano bilanciamenti e compensazioni rispetto ad altri principi, garanzie e tutele che non sono iscritti nel DNA del principio di legalità, la cui forma non garantisce, strutturalmente e in ogni contingenza, se non nella apocrifa versione dell’odierno principio di legalità «costituzionale», la tutela delle minoranze, dei diritti umani, delle libertà, e dunque i limiti e gli obiettivi che il pensiero liberale moderno ha contrapposto alla linea rousseauviano-schmittiana [26]
della sovranità politica.
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Da qui la geografia delle legalità ricompare in tutta la sua varietà, come nella serie indefinita di incroci, in cui a ciascuna spetta evidentemente un ruolo. Al diritto ancora chiuso nei sistemi statali si affianca e si mescola un diritto aperto ed esposto, sfornito di un «proprio» pubblico, dotato solo di una platea di variabili destinatari, e che governa secondo imperativi di funzionamento interi settori specifici dal commercio all’ambiente, dalle foreste alle reti assicurative e bancarie, dalla salute pubblica alla sicurezza globale, dalla rete Internet all’intelligenza artificiale e alla proprietà intellettuale. Il fatto che le discipline si accavallino è solo una conseguenza inevitabile della interconnessione delle materie, degli oggetti: commercio e diritti umani, sicurezza e salute pubblica, e via seguendo sono solo artificialmente controllabili da logiche separate. Gli Stati hanno un ruolo importante non solo nell’implementare le discipline comuni regionali o globali, ma anche nel provvedere ragioni sostanziali per limitarne le ingerenze ingiustificabili ed arbitrarie. Ed è questo che traduce i termini descrittivi delle legalità in quelli di una inevitabile interlegalità, la cui teorizzazione e l’analisi della fisionomia e delle conseguenze sono state avviate altrove [27]
, ma richiedono sempre nuovi sviluppi e approfondimenti.

4. Il baricentro dell’interlegalità: il caso

Composta da una pluralità di formati del diritto, animata da una ricca e forse imprevedibile varietà di processi combinatori, priva di un centro unificante, la nuova realtà interlegale non è però semplicemente caotica o disordinata. Al contrario, essa trova il proprio baricentro nel caso: il diritto interlegale è un diritto del caso concreto, di una situazione reale, di un segmento della realtà nel quale si manifestano interessi, esigenze e conflitti.
In effetti, le molteplici qualificazioni normative che provengono dai più disparati ordinamenti, pubblici e privati {p. 20}(con tutti i limiti che questa distinzione soffre nel contesto extra-statale), precipitano inevitabilmente sulla disciplina del caso. Sono le caratteristiche di quest’ultimo a definire quali siano le regole convergenti, ad attrarle – per così dire – su di sé ma senza poterne determinare la regola decisoria. In questo senso, il concetto di interlegalità non esprime un criterio finale di decisione, una «regola di contenuto», ma un metodo di gestione del caso che impone di prendere in considerazione tutti i diritti o più in generale tutte le norme che vantano, a diverso titolo, pretese regolatorie della vicenda concreta. Proprio in quanto si tratta di uno snodo nella teoria dell’interlegalità, lo stesso concetto di caso richiede una nuova riflessione, soprattutto in quanto si apparenta con quello di «fatto».
La forza dei fatti sottesi ai problemi giuridici, la «realtà» delle circostanze rilevanti per la loro (ri-)costruzione appaiono nozioni sospette innanzi alla relativizzazione delle credenze, al prospettivismo rilanciato dalle scienze cognitive, alle realistiche consapevolezze, maturate nella riflessione dei giuristi, che inducono a concludere che «la conoscenza del fatto si risolve comunque in una sua interpretazione» [28]
. Si potrà dire, insomma, che riproporre la centralità del caso farebbe ingenuamente tornare in auge, sia pure in questa rinnovata prospettiva, antiche fallacie.
Per la verità, nella logica dell’interlegalità, lo spostamento epistemico più rilevante è proprio quello che consiste nel considerare il diritto non come un insieme racchiuso nei limiti esclusivi di un sistema giuridico (diritto intra-sistemico), ma come l’intreccio costituito dalle diverse fonti che regolano lo stesso oggetto (inter-sistemico). Di conseguenza, nel nuovo baricentro ciò che conta non è tanto il fatto in una sua pretesa consistenza ontologica, quanto piuttosto la capacità del fatto di essere presupposto di varie qualificazioni possibili. Sono tali qualificazioni (giuridiche, normative provenienti da normatività tra loro anche autonome ed eterogenee) che possono portare, nella selezione {p. 21}della sua rilevanza giuridica, ad esiti non solo diversi ma anche contrapposti. Il caso, in fin dei conti è il fatto che diviene oggetto di più qualificazioni giuridiche. È proprio questa «apertura» al (o attrazione del) molteplice che evita gli idola tribus dell’ontologia.
La centralità del caso concreto nella prospettiva dell’interlegalità, insieme alla capacità di quest’ultima di operare come metodo di gestione del caso, sono importanti in molti piani diversi di funzionamento dei sistemi giuridici: nelle controversie giurisdizionali, anzitutto; ma anche nei processi di adozione delle normative primarie da parte delle istituzioni politiche di ciascun ordinamento, così come nell’attuazione amministrativa delle politiche pubbliche. Da questo punto di vista, l’interlegalità offre una prospettiva teorica potenzialmente in grado di incidere sull’intero spettro delle discipline giusprivate e giuspubblicistiche, dal diritto internazionale a quello costituzionale, dal diritto amministrativo a quello penale.
Si consideri, ad esempio, la particolare importanza che ha l’attenzione al caso ed al fatto nel diritto penale: terragno e corporeo e coriacemente legato a storie di vita – a fatti. Il diritto penale, come ripetono i suoi cultori, non è propriamente un campo di materia, ma un modo di disciplina, che si può distendere – accessorio o parassita – accanto a ogni possibile disciplina giuridica, cui può fornire, secondo scelte di valore decise da soggetti legittimati, la sanzione appunto penale [29]
.
La sua distinctiveness, tuttavia, il suo essere o apparire diverso – per il suo genetico collegamento con la sovranità statuale, peraltro sempre più precario ed eroso, per le garanzie che lo assistono in quanto espressivo del potere del diritto sul corpo in carne ed ossa – non soltanto non lo mantiene estraneo ai problemi dell’universo interlegale, ma ne fa un personaggio cruciale, divenuto familiare e necessario sin dalla fondazione concettuale della categoria, fra legalità plurali e persistenze stato-centriche. Il diritto {p. 22}penale costituisce un utile test di plausibilità nell’elaborazione generale dell’interlegalità, e per converso quest’ultima mostra più fortemente il suo potenziale innovativo, quando misurata anche in quest’ambito del diritto, tradizionalmente considerato parochial (e tuttora tale sotto vari aspetti) [30]
. La penetrazione del diritto «esterno» nel tempo si è espressa in varie forme e con vari limiti a seconda degli ordinamenti coinvolti – quello internazionale, consuetudinario o convenzionale, ovvero quello sovranazionale delle Comunità europee prima, dell’Unione poi – ma con l’effetto progressivo di far scivolare via di mano dal legislatore nazionale la libertà di definire importanti «scelte di incriminazione». L’attenzione della comunità scientifica si è focalizzata sui reciproci rapporti fra ordinamento nazionale e ordinamento internazionale o sovranazionale, tematizzando innovazioni ordinamentali (ad esempio, il disapplicare una norma incriminatrice per effetto del principio di primauté; sostenere una nuova visione della portata del principio della lex mitior; ancor più in generale, prospettare una nuova e tuttora discussa visione della legalità penale a fronte della crisi della riserva «parlamentare»); oppure discutendo criticamente idee o meglio atteggiamenti generali di politica criminale (si pensi all’insofferenza verso il linguaggio funzionalistico ed efficientistico che considera il diritto penale come strumento di «lotta contro»: contro razzismo e xenofobia; contro gli interessi finanziari dell’Unione; contro il riciclaggio; contro la criminalità organizzata; e così via). Elemento comune a queste discussioni è comunque lo scopo di definire i meccanismi produttivi del diritto applicabile nell’ordinamento domestico, a seguito della relazione verticale fra questo e il diritto internazionale/sovranazionale, alla luce di principi fondamentali specifici della materia penale: primo fra tutti, la legalità statuale.{p. 23}
In questo scenario, la categoria dell’interlegalità introduce uno spostamento di prospettiva. Non si occupa degli aspetti di relazione «verticale» fra diritto interno ed altri ordinamenti, e delle soluzioni tecniche con le quali sono definiti i rispettivi ambiti applicativi (si pensi ad esempio alla discussione sul rango della legge di esecuzione della Convenzione EDU; od alla discussione sulla paralisi di effetti in malam partem derivanti dalla ritenuta incompatibilità di norme interne con direttive europee). Essa addita quelle situazioni nelle quali, indipendentemente dal tipo di relazione astratta fra gli ordinamenti, rispetto al caso concreto tutti devono essere considerati; la loro concorrenza si colloca allora, piuttosto, su un piano orizzontale privo, come ormai più volte ricordato, di criteri incondizionati, comunque denominati – gerarchia, primauté, riserva di competenza, ecc. – in base ai quali sia possibile definire una volta per tutte quale sia destinato a prevalere. È proprio l’interlegalità a suggerire che in gioco non è il primato tra l’una e l’altra fonte, tra l’uno e l’altro ordinamento, ma la questione stessa nella sua sostanza, e il tema in essa centrale di una regolazione e di una decisione non unilaterali [31]
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Note
[25] Supra, nota 17.
[26] Alla quale Loughlin preferisce unicamente ricondurre il pubblico: cfr. M. Loughlin, Foundations of Public Law, Oxford, Oxford University Press, 2010.
[27] Klabbers e Palombella (a cura di), The Challenge of Inter-legality, cit.
[28] Cfr. ad es. O. Di Giovine, L’interpretazione nel diritto penale. Tra creatività e vincolo alla legge, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 191-212; 213.
[29] Su questo aspetto cfr. ad esempio, nella manualistica, T. Padovani, Diritto penale, Milano, Giuffrè, 201912, pp. 1 ss.
[30] Per vero, almeno in Italia risale a vari decenni fa la consapevolezza della «penetrazione» del diritto internazionale nel diritto penale (questa l’espressione usata in un saggio di Mario Pisani, pionieristico nel contesto italiano): M. Pisani, La «penetrazione» del diritto internazionale nel diritto penale, in «L’Indice Penale», 1979, pp. 5 ss.
[31] La materia penalistica, a ben vedere, se da un certo punto di vista può entrare in crisi di identità che esigono messe a punto sui confini (sia qui sufficiente richiamare M. Donini e L. Foffani [a cura di], La «materia penale» tra diritto nazionale ed europeo, Torino, Giappichelli, 2018), offre esempi particolarmente significativi per l’interlegalità, forse proprio perché, da un lato, la pretesa degli ordinamenti «esterni» assume carattere particolarmente dirompente delle regole sulle fonti; dall’altro lato, perché l’incidenza sui diritti umani da parte del potere istituzionale degli attori sulla scena internazionale – dagli Stati alle stesse Nazioni Unite quando esercitano poteri sanzionatori con ripercussioni sugli individui – esibisce in azione il diritto nella sua dimensione globale: diritto delle organizzazioni internazionali, diritto internazionale dei diritti umani, principi fondamentali degli ordinamenti «civili», regole di ius cogens, diritto nazionale. In vari ed eterogenei campi queste interferenze emergono con frequenza. Un primo esempio è quello dell’immigrazione di massa. Qui accade di constatare varie situazioni di rilevanza interlegale, dal tema delle espulsioni (cfr. A. di Martino e B. Occhiuzzi, Condannato ma protetto contro espulsione. Un’intersezione fra diritto penale e della protezione internazionale, in «Diritto Immigrazione Cittadinanza», 2018, pp. 1 ss.) al conflitto tra le norme internazionali sul dovere di soccorso in mare dei naufraghi migranti e le fattispecie incriminatrici interne. Ancora, in tutt’altro orizzonte esistenziale, viene in considerazione la pluralità delle fonti della compliance aziendale (ad esempio in materia di corruzione), e soprattutto il tema dei rapporti tra le varie pretese di qualificazione avanzate dagli ordinamenti nazionali sulle vicende legate alla condotta transnazionale delle corporations (anche quando sono il semplice terminale di catene di fornitura), soprattutto allorché si verifichino condotte od eventi che chiamano in causa il diritto penale.