Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c1
Un identico effetto sviante può aver assunto per Biagio De Giovanni, che accolse l’intera questione della «legalità»
{p. 14}globale, e delle «legalità al plurale» rappresentandola criticamente come «una furiosa espansione della legge» [16]
. Anche in questo caso, e forse a maggior ragione, la assimilazione della «legalità» a «legge», del tutto giustificata in un altro orizzonte semantico, tradisce qui qualcosa di simile a un equivoco: De Giovanni contrastava, giustamente, l’espansione della regolazione globale, constatandone il distacco dalle fonti politiche che agli assetti normativi conferiscono la ragion d’essere, un distacco dalla «vita» e dai contesti che ne costituiscono e decidono il senso. Dunque, si tratta sì di una espansione, e forse anche «furiosa», ma di un diritto disincarnato, non della «legge», che invece tradizionalmente è stata intesa come la voce e la volontà dello Stato moderno, espressione della «nazione», dei parlamenti, dell’autogoverno del popolo e via seguendo.
La costruzione del pubblico, di un’idea «globale» del diritto pubblico, deriva da una sorta di strappo, e dal suo reale peccato originale, lo scollamento delle due direttrici originarie che avevano sostenuto formazione e consolidamento del diritto pubblico nella dimensione statale: quella razionale, kantiana, e quella politica, rousseauviana [17]
. La seconda arretra radicalmente, e la prima si impone come condizione di una autonoma, freischwebende Rationalisierung della complessità nella governance del globo.
Mentre è a questo che risale la menzionata «espansione», è per via di questa dissociazione che essa si rappresenta meglio come jusgenerativa, non come il dominio della legge, forma del diritto ancorata invece a un universo politico incapace di conservare le sue prerogative di esclusività e compiutezza.
Ora, una tale espansione non solo riguarda forme di giuridicità, o meglio di normatività, le cui fonti sembrano svincolarsi dalle note gerarchie preesistenti (cosa ormai pa{p. 15}cificamente condivisa), ma nello stesso tempo è incapace di cancellare le vecchie fonti e di sostituirsi «ordinatamente» ad esse.
Se dunque l’uso di espressioni come «legalità» globale e «legalità» al plurale – una volta specificato il contesto – non dovrebbe suscitare equivoci di statocentrismo legislativo, d’altro canto, pensare ad uno scenario giuridico globale puro, capace di sbarazzarsi per sempre della forma stessa della legge e della sua lunga storia politica, sarebbe forzare in qualche modo una realtà che della legge (e del principio di legalità connesso) non si è affatto liberata, come non si è, fortunatamente (a questo punto occorre dirlo), emancipata da un persistente e sensibile attore della giuridicità contemporanea, lo Stato. Ciò che accade è piuttosto il mescolarsi del diritto degli ordini giuridici dello spazio globale con quello statale, un permanente incrociarsi in una co-vigenza spesso come pre-assimilata nei processi della decisione politica statale, che in molte ordinarie circostanze ha preso a muoversi «naturalmente» entro le cornici e secondo standard disegnati all’esterno, che si tratti di organismi regionali come l’Unione europea, o di regolatori globali, come l’Organizzazione mondiale per la sanità, l’Organizzazione mondiale del commercio, l’International Standardization Organisation e molte, molte altre. La persistenza della legge, intesa per quel che essa qualitativamente rappresenta nelle polity contemporanee, è tutt’altro che un’espansione: essa affronta, semmai, una limitazione, cui non è seguita però l’obsolescenza, così come non è all’orizzonte il tempo della scomparsa degli ordinamenti statali né delle loro funzioni di enti a fini generali e a tutela dei beni politici.
Un neo-medievalismo giuridico potrebbe semplificare eccessivamente un quadro in cui ai tratti che lo caratterizzarono si mescolano quelli propri dei sistemi giuridici statali moderni e contemporanei, e a questi si sovrappongono ancora gli sviluppi di una giuridicità regolatoria regionale e globale irriducibile alle due fisionomie precedenti, mentre tutto è attraversato dalla formazione di fili trasversali di giuridicità comune e condivisa, che riflettono e aggiornano il formato millenario dello jus gentium, a sua volta non compreso {p. 16}negli altri modelli. Come si è sottolineato altrove [18]
, questi diversi «formati» di legalità (ossia di organizzazione giuridica) che hanno avuto i natali in epoche e contesti tra loro ben diversi, sembrano riemersi in una vita simultanea, nella quale nessuno di essi assurge a tipo ideale o dominante, e risulta invece impuro e contaminato dagli altri: ciò che ne risulta è la peculiarità combinatoria assolutamente inedita, cui nessuno dei singoli paradigmi validi per i singoli «formati» può pretendere di imporsi come la chiave di volta, la spiegazione e la narrazione complessiva.
Da ciò, la discussione sull’improbabilità di una definizione del giuridico in termini di «legalità» giunge al suo punto di conclusione: legality può solo esporre quest’intreccio di complessità, e designare lo strato continuo della giuridicità, ossia del diritto (droit, non loi) che di fatto risulta dalla composizione e ricomposizione di quei formati.

3. L’inevitabile interlegalità

Una ulteriore osservazione è necessaria, tuttavia: il principio di legalità, nell’accezione che lo lega allo Stato di diritto moderno, resta in quell’ottica il parametro di fondazione e legittimazione dell’autorità pubblica nel dominio dello Stato.
Distante e irriducibile al canone del rule of law [19]
, purtuttavia esso accompagna le residue e non trascurabili prerogative dell’ordinamento statale anche nei confronti di legalità sovranazionali, come ad esempio quella dell’Unione europea, in quanto permane un pilastro della civilizzazione giuridica tout court: al punto da indurre la Corte di giustizia dell’Unione europea a «cedere», in una ormai ben nota e sottile disputa con la Corte costituzionale italiana, e ad affermare che all’obbligo di applicare la norma europea, {p. 17}disapplicando quella nazionale (come determinato dalla propria precedente decisione [20]
), il giudice italiano non è tenuto se «una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile» [21]
, tenuto conto del fatto che il principio di legalità «quale sancito all’articolo 49 della Carta, si impone agli Stati membri quando attuano il diritto dell’Unione, conformemente all’articolo 51, paragrafo 1, della medesima» (§ 52) ed inoltre «appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri» (§ 53) e possiede un’estensione identica a quella prevista dalle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (§ 54).
A ben osservare, nella vicenda, per le sue specifiche caratteristiche e la sua evoluzione, il principio di legalità ha effettivamente rappresentato una valvola di sicurezza nella difesa di concezioni idiosincratiche nazionali (nel caso specifico, la concezione sostanziale e non meramente procedurale della prescrizione dei reati, quest’ultima ben più consueta tra i Paesi dell’Unione): ciò che è stato difeso con successo non è naturalmente o di per sé il disposto circa la natura della prescrizione, ma il principio di legalità (della pena), il principio secondo cui solo alla legge (italiana) è consentito disporre intervenendo sulla sfera di libertà personale, non al giudice, e certo non retroattivamente rispetto all’atto commesso. Più a fondo, la legalità europea si arresta di fronte al prevalere di un principio, che condiviso dagli stati e dall’Unione, opera qui consentendo la resistenza a un precedente diktat del giudice europeo.
Perché dunque abbandonare il principio di legalità? Esso è piuttosto testimone, e agente, tra altri, della permanenza del formato montesquiviano del diritto [22]
, una sorta di vei{p. 18}colo identitario: Le leggi sono «relazioni» che si desumono dalla combinazione di fattori sociali, culturali, geografici, del commercio, dell’economia, di maniere e costumi, nonché dall’influenza e dal ruolo (positivo o negativo) svolto dal governo politico. Relazioni tra forze coesistenti. La loi dipende da, esprime, ridetermina, un tessuto di dipendenza e significati, di cui è imbevuta la natura delle cose [23]
. Una ratio che rimanda alla sovrapponibile convinzione a matrice conservatrice, storica, situata, del diritto nella modalità nota in ambiente angloamericano come «burkeana», nella quale anche alle corti si attribuisce il compito di riflettere l’esperienza comune di una nazione [24]
. L’accento cade sulla salvaguardia delle conquiste protette nella costituzione materiale di un Paese.
Il punto cruciale che fa da contrasto rispetto alle forme «disincarnate» del diritto dei regolatori globali sta proprio nella presupposizione classica e montesquiviana, secondo cui il diritto dipende da ciò che regola, e non viceversa. Questo formato dunque non solo si conserva attraverso il principio di legalità, ma ne fa il suo strumento canonico. La crescita esponenziale di un diritto esterno e sradicato, ma razionalizzante, regolatorio o civilizzatore (jus gentium), l’adesione al canone di libertà esposto nell’evoluzione del (per nulla coincidente) ideale del rule of law [25]
, rappresentano bilanciamenti e compensazioni rispetto ad altri principi, garanzie e tutele che non sono iscritti nel DNA del principio di legalità, la cui forma non garantisce, strutturalmente e in ogni contingenza, se non nella apocrifa versione dell’odierno principio di legalità «costituzionale», la tutela delle minoranze, dei diritti umani, delle libertà, e dunque i limiti e gli obiettivi che il pensiero liberale moderno ha contrapposto alla linea rousseauviano-schmittiana [26]
della sovranità politica.
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Note
[16] B. De Giovanni, Alle origini della democrazia di massa. I filosofi e i giuristi, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013 (Appendice: Postilla non conclusiva [sull’attualità]).
[17] Cfr. Palombella, È possibile una legalità globale?, cit., capitolo V: La Ri-Costituzione del Pubblico, pp. 185-231.
[18] Cfr. G. Palombella, «Formats» of law and their interweaving, in J. Klabbers e G. Palombella (a cura di), The Challenge of Inter-legality, Cambridge, Cambridge University Press, 2019, pp. 23 ss.
[19] Cfr. G. Palombella, The Rule of Law at Home and Abroad, in «Hague Journal on the Rule of Law», 2016, pp. 1 ss.
[20] Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione), Ivo Taricco e a., causa C-105/14.
[21] Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione), M.A.S. e M.B., causa C-42/17.
[22] Cfr. C.L. de Secondat (Montesquieu), Lo spirito delle leggi, 2 voll., trad. di S. Cotta, Torino, UTET, 2005.
[23] Cfr. ibidem, p. 50.
[24] Oliver Wendell Holmes, in Missouri v. Holland, 252 US 416, 433 (1920).
[25] Supra, nota 17.
[26] Alla quale Loughlin preferisce unicamente ricondurre il pubblico: cfr. M. Loughlin, Foundations of Public Law, Oxford, Oxford University Press, 2010.