Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c6
La seconda differenza, forse la più significativa, riguarda il contesto all’interno del quale le due teorie sono state pensate e, di conseguenza, i problemi che esse cercano di spiegare e correggere. Mentre la cultura della giustificazio
{p. 152}ne nasce all’interno di un singolo ordinamento nazionale, la teoria dell’interlegalità tenta di spiegare le relazioni tra Stati e ordinamenti extra-statuali, variamente specializzati. Di conseguenza, la giustificazione richiesta in relazione al caso concreto nella culture of justification riguarda la ragionevolezza delle limitazioni dei diritti fondamentali da parte della pubblica autorità (dell’amministrazione in particolare). Come si è precedentemente ricordato, l’idea di cultura della giustificazione nasce nel contesto di un ordinamento, quello sudafricano durante la transizione post-apartheid, in cui l’obiettivo principale era, e non poteva che essere, garantire che non vi fossero più restrizioni arbitrarie dei diritti individuali da parte dello Stato. Il ruolo cruciale assegnato al giudice è, dunque, funzionalizzato a identificare e rimuovere le violazioni dei diritti individuali a seguito dell’azione dei pubblici poteri [36]
. L’intera idea di cultura della giustificazione si basa sulla dialettica libertà-autorità, un’idea tipica del diritto pubblico, in particolar modo nel secondo Novecento. Ne segue l’introduzione di oneri di motivazione e di poteri di controllo in capo al giudice. Quel che semmai la differenzia dalle concettualizzazioni classiche del rapporto giuridico amministrativo è che la concezione sviluppata dalla culture of justification non si limita ad invocare la tutela, tipica del liberalismo, dei diritti individuali nei confronti dell’autorità. Non si tratta semplicemente di utilizzare i diritti come argini al potere, rights as trumps [37]
. Come ricordato in precedenza, i diritti sono concepiti come flessibili e limitabili, non assoluti [38]
, ma le limitazioni ai diritti devono essere giustificabili sulla base di una serie di principi giuridici interni all’ordinamento, in particolar modo attraverso il test di proporzionalità. Queste limitazioni devono poter essere discusse pubblicamente in sede giudiziale e, in tal modo, devono poter dare attuazione {p. 153}ai principi di partecipazione e accountability [39]
. Attraverso la deliberazione in giudizio si mira ad una cultura dei diritti democratica oltre che liberale. Seguendo la metafora di Mureinik, la culture of justification è un ponte che tenta di portare ad un ordinamento nazionale che resta democratico persino quando comprime i diritti [40]
.
L’interlegalità, d’altra parte, è concepita come una descrizione e un tentativo di orientamento dei rapporti tra ordinamenti giuridici al di là dello Stato, laddove i tentativi di separazione funzionale falliscono. Ne deriva che l’onere di giustificazione e argomentazione in capo al giudice avrà come oggetto i rapporti reciproci tra norme provenienti da ordinamenti diversi e oggettivamente applicabili al caso di specie. Non c’è un singolo Leviatano al quale l’individuo si rapporti, ma un intreccio di relazioni giuridiche che tentano di regolare il caso. La composite law ha natura difficilmente riconducibile a quella di sistema giuridico. Seguendo la definizione di Bobbio di «ordinamento giuridico» come «insieme strutturato di norme» [41]
, dotato dei requisiti di unità, coerenza, completezza e chiusura, abbiamo un caso paradigmatico dell’immagine di «sistema» giuridico tipica di buona parte del secolo passato. Contro questa immagine si scaglia l’idea di interlegalità, dotata di un carattere marcatamente antisistematico: non v’è alcuna norma fondamentale al di là e al di sopra degli Stati e dei regimi giuridici extra-statuali che ne assicuri l’unità e la chiusura. Le varie norme rilevanti, ciascuna valida all’interno di un singolo sistema, sono tutte parte della legalità attinente al caso, ma non perché parte di un sistema giuridico più ampio [42]
.
In sintesi, l’interlegalità si trova ad affrontare problemi di ridefinizione del concetto stesso di diritto, nel tentativo di slegarlo da quello di sistema, problemi del tutto assenti {p. 154}nella culture of justification. L’una si pone, dunque, problemi di teoria generale del diritto, ma anche di diritto inter, sopra, intra e transnazionale [43]
, che l’altra non affronta. Si potrebbe azzardare che, di conseguenza, la prima sia più innovativa e accurata della seconda, ma è forse meglio dire che si tratta di due prospettive sul diritto pensate in contesti diversi e per affrontare problemi diversi, pur con metodi notevolmente simili.

4. Conclusioni

Possiamo ora cercare di trarre delle considerazioni conclusive a partire dalla comparazione dell’interlegalità e della cultura della giustificazione. Come già indicato in precedenza, l’obiettivo di questa analisi non è consistito nell’individuare un’identità nascosta tra due teorie apparentemente dissimili. Al contrario, evidenziare le differenze è utile tanto quanto sottolineare le analogie. Differenze, in effetti, sussistono, in particolar modo per quanto concerne l’oggetto dell’indagine: come già indicato, le due teorie sono concepite all’interno di contesti diversi e tentano di spiegare fenomeni solo parzialmente sovrapponibili, il rapporto tra l’individuo e i pubblici poteri da una parte, l’interconnessione di legalità diverse al di là dello Stato dall’altro. Tuttavia, è significativo che, nonostante le significative differenze, entrambe le teorie mirino a soluzioni ispirate da un «metodo» comune: la giustificazione sostanziale delle ragioni che portano all’applicazione della norma giuridica all’individuo. Pur con diversi gradi di «ottimismo» in relazione alla effettiva possibilità dell’argomentazione giuridica di giustificare razionalmente l’applicazione delle norme, si tratta di teorie del diritto che condividono un chiaro milieu culturale comune e che mirano ad una concezione del diritto più «mite» e meno «autoritativa». {p. 155}
La desiderabilità di tale concezione non è ovvia. Teorie quali il positivismo presuntivo di Schauer [44]
, ad esempio, sottolineano le ragioni di una definizione del diritto autoritativa, basata sulla necessità di fornire ai consociati un metodo di organizzazione sociale celere, che deleghi la produzione e l’applicazione delle norme, ma anche il bilanciamento delle ragioni sottostanti, a delle autorità appositamente istituite. I bilanciamenti effettuati dovranno essere considerati almeno presuntivamente legittimi e non ridiscussi caso per caso.
Indipendentemente dai meriti e dai difetti dei vari gruppi di teorie, il fatto stesso che concezioni del diritto così diverse esistano e si confrontino è indicativo del fatto che non v’è accordo unanime su quale approccio sia preferibile. Ma il confronto aiuta anche a collocare l’emergere di teorie nuove quali quella dell’interlegalità in un più ampio processo di ridiscussione di alcuni presupposti impliciti nel modo di ragionare dei giuristi, a partire dall’unità e dalla chiusura dal sistema giuridico. Come la culture of justification negli anni Novanta, l’obiettivo è quello di fornire una teoria del diritto adatta ai tempi e alle esigenze specifiche di un contesto nuovo, quello dell’interconnessione tra regimi giuridici diversi. In questo senso più profondo, le due teorie sono, per così dire, gemelle.
Se l’obiettivo di fornire «a new perspective on law» riuscirà o meno non è facile da prevedere, ma l’esistenza stessa del dibattito merita di essere salutata favorevolmente.
Note
[36] Cfr. Mureinik, A Bridge to Where, cit., pp. 41-42.
[37] La celebre espressione è di R. Dworkin, Rights as Trumps, in J. Waldron (a cura di), Theories of Rights, Oxford, Oxford University Press, 1984.
[38] Cfr. Mureinik, A Bridge to Where, cit., p. 33.
[39] Cfr. Dyzenhaus, Law as Justification, cit., pp. 32-34.
[40] Mureinik, A Bridge to Where, cit., p. 48.
[41] N. Bobbio, Teoria generale del diritto, Torino, Giappichelli, 1993, pp. 167-169.
[42] Cfr. Palombella, Theory, Realities, and Promises of Interlegality, cit., pp. 372-378.
[43] La tassonomia è ripresa da K. Culver e M. Giudice, Legality’s Borders: An Essay in General Jurisprudence, Oxford, Oxford University Press, 2010, pp. 149-171.
[44] F. Schauer, Playing by the Rules, Oxford, Clarendon Press, 1991; trad. it. Le regole del gioco, Bologna, Il Mulino, 2000, cap. VII.