Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c6
In secondo luogo, la distanza temporale tra le due potrebbe far immaginare una genealogia intellettuale (una derivazione della teoria dell’interlegalità dalla culture of justification) che qui non si intende né ipotizzare, né tantomeno dimostrare. Di per sé questa ipotesi ha un minimo di evidenza testuale a sostegno: nel commentare una delle vicende chiave per inquadrare la parte normativa della teoria dell’interlegalità, la saga relativa ai risarcimenti per i crimini di guerra tedeschi, una delle critiche fondamentali rivolte alla Corte internazionale di Giustizia ha ad oggetto l’incapacità della Corte di prendere in considerazione la totalità delle norme rilevanti per il caso in esame e, dunque, l’assenza di un’adeguata culture of justification [26]
. Tuttavia, questo passaggio non può dirsi sufficiente a provare un vero e proprio debito intellettuale, tanto più che non vi sono specifici riferimenti bibliografici ai principali autori di riferimento della cultura della giustificazione. Il riferimento può essere stato usato in modo più ampio e «rilassato» per indicare una carenza di adeguata argomentazione da parte della Corte. Di conseguenza, ciò che si intende sottolineare in questa sede è semplicemente una serie di affinità negli argomenti proposti dalle due teorie, una somiglianza di famiglia, per riprendere una celebre espressione del Novecento filosofico [27]
. Ciò può suggerire una comunanza di valori ed un comune milieu culturale, ma non anche, o almeno non necessariamente, specifici rapporti di
{p. 147}derivazione dell’una dall’altra. Come tali, queste affinità (ma in modo altrettanto significativo anche le divergenze) possono suggerire delle riflessioni sullo stato attuale della riflessione giuridica in parte della tradizione giuridica occidentale, il che sembra un obiettivo di indagine di rilievo.
Poste queste considerazioni di ordine generale, possiamo passare a individuare in concreto le affinità e le divergenze tra le due opzioni teoriche, partendo dalle prime. Ci sono, a giudizio di chi scrive, tre grandi punti di contatto tra le due teorie in esame.
In primo luogo, entrambe mirano ad essere precipuamente giuridiche, in un senso che è al contempo descrittivo e normativo. La culture of justification mira a identificare una serie di oneri di motivazione e correlati diritti ad un’adeguata giustificazione in capo alle autorità di governo (amministrazioni in testa) e ad eliminare la possibilità di atti giuridici non soggetti ai suddetti oneri. Le ragioni identificate devono essere giuridiche: l’applicazione di una certa policy, e delle possibili restrizioni ai diritti individuali che ne conseguono, dev’essere giustificata sulla base di principi giuridici riconosciuti e accettati nell’ordinamento. In parte ciò deriva dalle radici storiche della culture of justification. Nel Sudafrica dell’apartheid si riscontrò in alcuni giuristi il tentativo di identificare nella common law principi generali attraverso i quali si potessero interpretare gli statutes e l’applicazione in via amministrativa degli stessi in modo difforme dalle intenzioni oppressive e segregazioniste del legislatore. Si trattava di elaborare dottrine che consentissero ai giudici di usare il diritto (common law) per resistere al diritto (statute law). Mureinik generalizza ed estende quest’idea al di fuori dell’ambito originario del diritto amministrativo e ne estrapola una teoria applicabile all’intero ordinamento del post-apartheid; in particolar modo, come abbiamo visto, ne deriva una teoria dell’interpretazione costituzionale [28]
. Gli «epigoni» {p. 148}la estenderanno al di fuori dell’ordinamento sudafricano. Il punto, dunque, è elaborare una teoria del diritto che obblighi i pubblici poteri a fornire ai consociati ragioni giuridiche che giustifichino la limitazione dei diritti fondamentali e, più in generale, l’azione dei pubblici poteri. La prossimità alla teoria dell’interlegalità, se teniamo a mente le considerazioni svolte nel paragrafo 2, è evidente. Uno degli aspetti centrali nell’idea di interlegalità, almeno nel suo lato prescrittivo, è l’idea che il giudice debba valutare l’intero materiale normativo sottoposto alla propria attenzione ed «estrarre», o almeno tentare di estrarre, una risposta giuridica, non meramente politica. Tutte le norme astrattamente applicabili dovranno essere prese sul serio e bilanciate. Questo aspetto si rivela chiaramente a contrario nel rigetto, precedentemente illustrato, del pluralismo radicale. In un certo senso, la comune idea che il giudice debba guardare al complesso del materiale normativo oggettivamente rilevante ed estrapolare la risposta giuridica che ritiene più appropriata, accettata da entrambe le teorie, rivela una comune ascendenze «dworkiniana» di entrambe le prospettive.
In secondo luogo, entrambe le teorie concentrano l’attenzione sugli esiti che una certa decisione avrà sull’individuo: è al singolo che si applicano le norme rilevanti nel caso concreto. A questo dovranno essere giustificate in modo sostanziale e giuridicamente appropriato. La prospettiva dell’individuo, del caso concreto, non esaurisce le due teorie: entrambe partono dal caso per trarne indicazioni più generali. Si pensi, ad esempio, all’idea nell’interlegality che i casi aiutino a mostrare le difficoltà dei tentativi di separazione funzionale: si tratta di considerazioni che, per così dire, estraggono informazioni rilevanti a partire dal caso concreto, ma che non si esauriscono in esso. Tuttavia, l’attenzione nei confronti della posizione dell’individuo assume anche un valore intrinseco in entrambe le prospettive teoriche: è la necessità di assicurare una giustificazione adeguata alle imposizioni (soprattutto alle restrizioni dei diritti) che incidono sul singolo a motivarle. La direttiva per il giudice di tenere in considerazione l’intera legalità {p. 149}oggettivamente rilevante per il caso concreto (interlegalità) o l’analoga prescrizione di trovare nel complesso dei principi dell’ordinamento un’adeguata giustificazione per le limitazioni delle libertà fondamentali (culture of justification), cruciali per le parti normative delle due teorie, nascono entrambe dalla stessa esigenza, garantire all’individuo una spiegazione congrua della norma giuridica applicabile, basata su un’argomentazione razionale e non solo su considerazioni d’autorità. Da questo punto di vista, è comune il tentativo di riequilibrare il rapporto tra ratio e voluntas come componenti essenziali del fenomeno giuridico in direzione della prima: la legittimità della norma giuridica non può venire esclusivamente dalla fonte autoritativa, deve essere razionalmente dimostrabile. In questo senso, sembra riconoscibile in ambedue un certo livello di ottimismo nei confronti delle possibilità di un’argomentazione giuridica razionale. Come vedremo nel prosieguo dell’analisi, ad ogni modo, questa specifica affinità necessita di alcuni distinguo.
In ultimo, ma in stretta connessione col secondo punto, entrambe le teorie incentrano l’attenzione sul giudiziario come principale luogo di discussione della ragionevolezza delle decisioni giuridiche. Al giudice vengono rivolte le raccomandazioni relative all’adeguata considerazione dell’intera legalità attinente al caso o dell’adeguatezza delle considerazioni alla base delle restrizioni delle libertà individuali. Diversamente dal cd. political constitutionalism, che individua nel legislativo il luogo istituzionale deputato a discutere la ragionevolezza del bilanciamento tra interessi contrapposti nelle democrazie rappresentative [29]
, sia la culture of justification, sia l’interlegalità sembrano più vicine alla tradizione del legal constitutionalism, forse anche per le comuni assonanze dworkiniane [30]
. Le sedi più adeguate {p. 150}ad assicurare l’equal concern and respect per tutti i cittadini saranno dunque le corti [31]
.
I tre punti appena individuati sottolineano le affinità tra il concetto di cultura della giustificazione e la teoria dell’interlegalità. Tuttavia, fermarsi a questo punto significherebbe fornire un’immagine parziale delle due concezioni in esame. Le differenze, in un certo senso, sono almeno altrettanto illuminanti quanto le somiglianze. Con ogni probabilità è possibile individuare almeno due grandi divergenze.
La prima differenza si riconnette immediatamente al tema appena individuato relativo al ruolo del giudice e al grado di ottimismo nei confronti del ragionamento giudiziale. Se è vero, infatti, che entrambe le teorie chiedono un certo sforzo argomentativo, gli obiettivi e i risultati attesi non sono identici. La culture of justification chiede in primo luogo all’amministrazione o al legislativo, in quanto autorità che emanano norme giuridiche, di spiegare le ragioni e gli obiettivi alla base di una certa attività regolatoria. Il giudice dovrà riepilogare e valutare le giustificazioni ricevute ed eventualmente sottolineare errori, mancanze, lacune. L’esito sarà una valutazione della ragionevolezza del bilanciamento d’interessi avutasi a livello regolatorio, un giudizio a seguito del quale, spesso attraverso il test di proporzionalità, sarà possibile «to compare and evaluate interests and ideas, values and facts, that are radically different in a way that is both rational and fair» [32]
. Il tema dell’effettiva capacità del test di proporzionalità di consentire una valutazione razionale della normativa è argomento di una certa complessità, che non è {p. 151}possibile affrontare in questa sede [33]
. Il punto è che la culture of justification sembra mirare ad assicurare la razionalità e la correttezza, o per lo meno la ragionevolezza, della norma giuridica applicabile al caso concreto attraverso il controllo giudiziale. L’obiettivo, dunque, è un risultato in positivo, la valutazione di ragionevolezza.
L’interlegalità, d’altra parte, sembra porsi un obiettivo più modesto, benché probabilmente più raggiungibile. Se è vero che anche in questo caso si chiede al giudice uno sforzo argomentativo notevole, il risultato atteso è semplicemente quello di evitare l’ingiustizia attraverso un’adeguata ponderazione di tutte le norme giuridiche rilevanti in relazione al caso [34]
. Non c’è una one right answer da individuare, ma la scelta «genuina» tra varie opzioni egualmente possibili dal punto di vista giuridico. Il ragionamento del giudice evita l’ingiustizia se le possibili soluzioni sono prese in considerazione, ma questo deve essere letto come un invito al ragionamento più completo possibile, non ad individuare la risposta corretta. Per citare nuovamente Klabbers su questo punto:
Where various outcomes may be equally compelling, at the very least the judge addressing inter-legality should make sure that no legal interest is left unaddressed. Where several outcomes are equally compelling and persuasive from the perspectives of their own legal orders, one can only hope for a virtuous judge [35]
.
L’interlegalità , dunque, mira a un risultato in negativo, evitare l’ingiustizia.
La seconda differenza, forse la più significativa, riguarda il contesto all’interno del quale le due teorie sono state pensate e, di conseguenza, i problemi che esse cercano di spiegare e correggere. Mentre la cultura della giustificazio
{p. 152}ne nasce all’interno di un singolo ordinamento nazionale, la teoria dell’interlegalità tenta di spiegare le relazioni tra Stati e ordinamenti extra-statuali, variamente specializzati. Di conseguenza, la giustificazione richiesta in relazione al caso concreto nella culture of justification riguarda la ragionevolezza delle limitazioni dei diritti fondamentali da parte della pubblica autorità (dell’amministrazione in particolare). Come si è precedentemente ricordato, l’idea di cultura della giustificazione nasce nel contesto di un ordinamento, quello sudafricano durante la transizione post-apartheid, in cui l’obiettivo principale era, e non poteva che essere, garantire che non vi fossero più restrizioni arbitrarie dei diritti individuali da parte dello Stato. Il ruolo cruciale assegnato al giudice è, dunque, funzionalizzato a identificare e rimuovere le violazioni dei diritti individuali a seguito dell’azione dei pubblici poteri [36]
. L’intera idea di cultura della giustificazione si basa sulla dialettica libertà-autorità, un’idea tipica del diritto pubblico, in particolar modo nel secondo Novecento. Ne segue l’introduzione di oneri di motivazione e di poteri di controllo in capo al giudice. Quel che semmai la differenzia dalle concettualizzazioni classiche del rapporto giuridico amministrativo è che la concezione sviluppata dalla culture of justification non si limita ad invocare la tutela, tipica del liberalismo, dei diritti individuali nei confronti dell’autorità. Non si tratta semplicemente di utilizzare i diritti come argini al potere, rights as trumps [37]
. Come ricordato in precedenza, i diritti sono concepiti come flessibili e limitabili, non assoluti [38]
, ma le limitazioni ai diritti devono essere giustificabili sulla base di una serie di principi giuridici interni all’ordinamento, in particolar modo attraverso il test di proporzionalità. Queste limitazioni devono poter essere discusse pubblicamente in sede giudiziale e, in tal modo, devono poter dare attuazione {p. 153}ai principi di partecipazione e accountability [39]
. Attraverso la deliberazione in giudizio si mira ad una cultura dei diritti democratica oltre che liberale. Seguendo la metafora di Mureinik, la culture of justification è un ponte che tenta di portare ad un ordinamento nazionale che resta democratico persino quando comprime i diritti [40]
.
Note
[26] Cfr. Palombella, Theory, Realities, and Promises of Interlegality, cit., pp. 384-386.
[27] Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1974, §§ 65-67.
[28] Cfr. D. Dyzenhaus, Law as Justification: Etienne Mureinik’s Conception of Legal Culture, in «South African Journal on Human Rights», 14, 1998, n. 1, pp. 13 ss.
[29] Cfr. inter alia J.A.G. Griffith, The Political Constitution, in «Modern Law Review», 42, 1979, n. 1, pp. 1 ss. e R. Bellamy, Political Constitutionalism, Cambridge, Cambridge University Press, 2007.
[30] Dworkin è definito un «legal constitutionalist» nel recente lavoro di A. Latham-Gambi, Political Constitutionalism and Legal Constitutionalism: An Imaginary Opposition?, in «Oxford Journal of Legal Studies», 2020, pp. 737 ss.
[31] Cfr. A. Kavanaugh, Recasting the Political Constitution: From Rivals to Relationships, in «King’s Law Journal», 30, 2019, n. 1, pp. 43 ss., 66: «[…] political constitutionalism can be described loosely as a general pro-Parliament/anti-court outlook on public law issues, whereas legal constitutionalism may be grounded in a more supportive orientation towards judicial power and a sceptical view of elected politicians». Per una comparazione sintetica tra legal e political constitutionalism si veda la recente voce compilata da R. Bellamy, Constitutionalism, in Enciclopedia Britannica, 2019, consultabile a https://www.britannica.com/topic/constitutionalism (ultimo accesso 02.02.2021).
[32] D.M. Beatty, The Ultimate Rule of Law, Oxford, Oxford University Press, 2004, p. 169.
[33] Mi si consenta di rimandare a O. Scarcello, Norme tecniche e argomentazione giuridica: il caso del test di proporzionalità, in «Federalismi», 15, 2018, pp. 1 ss.
[34] Cfr. Palombella, Theory, Realities, and Promises of Interlegality, cit., p. 383.
[35] Ibidem, p. 362.
[36] Cfr. Mureinik, A Bridge to Where, cit., pp. 41-42.
[37] La celebre espressione è di R. Dworkin, Rights as Trumps, in J. Waldron (a cura di), Theories of Rights, Oxford, Oxford University Press, 1984.
[38] Cfr. Mureinik, A Bridge to Where, cit., p. 33.
[39] Cfr. Dyzenhaus, Law as Justification, cit., pp. 32-34.
[40] Mureinik, A Bridge to Where, cit., p. 48.