Damiano Previtali
La scuola mediterranea
DOI: 10.1401/9788815371102/c3
Se fosse così non abbiamo bisogno di un «maestro», e ancor meno di una «maieutica», ma semplicemente di una «funzione docente [...] per la trasmissione della cultura» [23]
. Infatti non è un caso che nella scuola così intesa la docenza venga considerata una «funzione» per la «trasmissione». Un approccio tipicamente burocratico-amministrativo in cui vi sono delle conoscenze e dei valori da trasmettere e pertanto abbiamo bisogno di qualcuno che adempia a questa funzione sociale. Se poi tale approccio stride con la sensibilità, anche lessicale, di qualche lettore, non possiamo fare altro che condividere ma, nello stesso tempo, forzare questa scissione, ancora oggi molto diffusa e radicata, al fine di evidenziarne l’insostenibilità.
Da qui abbiamo pensato di proporre al vaglio un secondo caso che, come abbiamo riportato nei primi due capitoli del testo, sfiderà la relazione fra insegnamento ed educazione dei prossimi anni, riassumendo in sé tutte le contraddizioni e i paradossi che sul tema abbiamo ancora in ambito scolastico: la disconnessione fra cognitive skills e non cognitive skills.
Caso di studio n. 2

La disconnessione fra «cognitive skills» e «non cognitive skills»

In patologia abbiamo la sindrome da disconnessione funzionale quando le aree cerebrali poste in emisferi diversi non comunicano fra di loro. Così avviene nei processi educativi quando le competenze non cognitive e cognitive vengono separate e non trovano un’integrazione. Non stiamo pensando alla necessaria distinzione utilizzata in ricerca fra cognitivo e non cognitivo, fra intelligenza e personalità, che troviamo in letteratura e, in particolare, in psicologia e psicometria. A noi preme l’approccio metodologico e in particolare didattico, ovvero come l’enfasi odierna sulla persona, nella sua totalità e integralità, che ha portato l’attenzione sulla personalità dello studente, possa rientrare nei processi di insegnamento e di apprendimento.
Questo passaggio è paradigmatico in quanto porta in superficie le scuole che intendono l’insegnamento delle non cognitive skills al pari delle cognitive skills, così come hanno inteso finora l’insegnamento e la valutazione delle regole grammaticali al pari dell’insegnamento e la valutazione del comportamento, a differenza delle scuole che considerano invece le non cognitive skills all’interno di una prospettiva metacognitiva. Ovvero si tratta del passaggio dalla conoscenza della regola alla competenza personale che si esprime dentro la comunità scolastica e nella comunità sociale. Nel primo caso le non cognitive skills diventano un programma con dei contenuti, degli obiettivi, dei traguardi, delle documentazioni, delle valutazioni alla stregua appunto delle cognitive skills; nel secondo caso diventano un metodo, un processo di insegnamento-apprendimento innovativo che passa dalla cattedra al banco dello studente e dall’aula alla vita. Il primo approccio è caratterizzato dallo stile scolastico, che si perpetua e riesce a fagocitare qualunque innovazione nella routinarietà, il secondo approccio è caratterizzato dallo stile mediterraneo che, come dicevamo, non vede le competenze per la scuola, bensì per la persona.
Da qui, fondamentale è il metodo, in quanto permette di unire le competenze cognitive e non cognitive all’interno di un unicum: lo studente. Nello stesso tempo, proprio perché vede lo studente coinvolto in prima persona, rafforza dimensioni come la motivazione, l’autonomia, la responsabilità, la coscienziosità. Banalizzando: è difficile rendere autonomo uno studente intimandogli di diventare autonomo, così come è difficile renderlo responsabile alla sola invocazione: «Sii responsabile!». L’autonomia e la responsabilità non appartengono a contenuti da insegnare bensì a un metodo, a una relazione che diviene educativa. Tale metodologia permette alla relazione di classificare il contenuto1, alle competenze non cognitive di qualificare le competenze cognitive e, dunque, di andare oltre per diventare metacognizione.
Proviamo a dirlo proprio con una ricerca dell’Ocse sulla valutazione delle competenze di lettura nella popolazione adulta tra i 16 e i 65 anni di età: PIAAC, Programme for the International Assessment of Adult Competencies. I dati Ocse-PIAAC del 2016 mostrano come in Italia l’analfabetismo funzionale riguarda il 27,9% degli italiani tra i 16 e i 65 anni. Sostanzialmente circa 3 italiani su 10 sono degli analfabeti di ritorno, tenendo conto che il fenomeno riguarda persone che sono andate a scuola e coinvolge ben il 9,6% di ragazzi tra i 16 e i 24 anni e il 15% di giovani tra i 25 e i 34 anni.
Come è possibile?
Per quanto sappiamo o possiamo immaginare, di sicuro tutte queste persone sono uscite da scuola con la strumentalità della lettura ma, nel tempo, non l’hanno più esercitata, ritornando di fatto a essere degli analfabeti funzionali. In sintesi la scuola ha raggiunto i suoi obiettivi trasmettendo la competenza cognitiva del saper leggere, ma non ha saputo accendere il desiderio, la passione, l’interesse della lettura che potremmo annoverare fra le competenze non cognitive. Ovvero quanto dicevamo in apertura: un’indebita disconnessone funzionale fra cognitive skills e non cognitive skills.
A ulteriore dimostrazione, nello stesso 2016, i dati AIE (Associazione italiana editori) ci dicono che il 60% degli italiani (laureati compresi) non ha aperto un libro e non intendiamo un saggio (di una noia mortale, come questo), ma nemmeno un libro sulle affinità amorose dell’ultima star dello spettacolo o un semplice ricettario di cucina.
1 Ripreso dalla definizione di metacomunicazione nel secondo assioma della comunicazione in P. Watzlawick, J.H. Beavin e D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971, p. 47.
Proprio questo secondo «caso» porta in evidenza come il metodo di insegnamento non qualifica solo l’apprendimento a scuola ma diviene parte integrante delle competenze dello studente.
È un metodo educativo che appartiene alla persona e, nel nostro caso, innanzitutto al docente. Infatti, l’educativo prima di investire lo studente coinvolge il docente con i suoi interessi, attitudini, motivazioni, passioni, in altri termini la sua personalità. Ne consegue che l’educazione interroga il docente prima ancora dello studente.
Gli studi sui ragazzi ad alto rischio che hanno finito con il far bene nella vita – che sono resilienti – hanno rilevato che di solito la persona che ha dato una svolta alla loro vita è stata un adulto che si è preso cura di loro, molto spesso un insegnante. Se chiedete a questi ragazzi che cosa ha fatto la differenza, spesso vi risponderanno che è stato l’insegnante che li ha visti per davvero, che li ha veramente compresi, che si è preoccupato sul serio di loro e che ha visto il loro potenziale [24]
.
Un modo di essere a scuola prima di fare scuola, un modo di essere insegnante prima di fare l’insegnante, con dimensioni di ascolto, di cura, di prossimità che non appartengono al mansionario di memoria burocratica e non sono mai entrate nella professionalità ricondotta alla mera «funzione docente».
Tant’è che lo stesso Piano nazionale di ripresa e resilienza ha ritenuto opportuno evidenziare che:
sulle persone si gioca il successo non solo del PNRR, ma di qualsiasi politica pubblica indirizzata ai cittadini [...] Da questo quadro nasce l’esigenza di allestire una nuova strumentazione che fornisca alle amministrazioni la capacità di pianificazione strategica delle risorse umane. Questo processo deve partire da un insieme di descrittori di competenze (incluse le soft skills) [25]
.
A scuola il rutinario scandire delle lezioni e dei contenuti definisce la «funzione docente per la trasmissione della cultura», ma cancella la pulsazione vitale delle relazioni vere, la scoperta dell’umano, sempre unico e irripetibile, che appartiene allo studente e allo stesso docente. In questo caso il docente non solo è sordo alla storia dello studente davanti a sé, ma in realtà ha rimosso anche le sue aspettative da ex studente e dimentica una regola: un buon docente è sempre un po’ studente, sia perché lo studio è parte costitutiva della sua professione sia perché dovrebbe continuare a immaginarsi al banco, come un tempo, e non solo in cattedra.
«Quasi tutti sostengono che tutti i ragazzi possono imparare, ma siamo meno pronti a dire che tutti gli insegnanti possono imparare» [26]
, così «spesso ci si dimentica che un buon professore è soprattutto un instancabile studente» [27]
.
Emerge così una dimensione professionale, che non troveremo mai indagata in nessun concorso: l’attitudine alla professione docente. Pensiamo ad esempio a una dimensione {p. 126}fondamentale nella relazione educativa come l’empatia. Non stiamo immaginando un sentimento, profondamente umano, bensì un approccio metodologico, un modo di impostare la relazione, uno sguardo ampio sullo studente, in grado di accogliere, di ascoltare, di comprendere. «Il rafforzamento dell’offerta formativa presuppone un miglioramento delle competenze del corpo docente in servizio» [28]
. Competenze professionali che permettono di stabilire un clima educativo, di riannodare il filo spezzato tra le generazioni e, per quanto ci preme, di affrontare la personalizzazione dei processi di insegnamento e di apprendimento.

2. Lo sviluppo dei fondamentali

Innanzitutto è necessario un passaggio di politica scolastica. In questi anni, e precisamente a partire dal 2013, con il d.p.r. 80, che titola Sistema nazionale di valutazione, abbiamo costruito un’infrastruttura per il miglioramento, introducendo nella scuola strumenti definiti «strategici» che sono diventati parte sostanziale dell’organizzazione e della progettazione scolastica [29]
. Con questi strumenti si è portata, intenzionalmente, l’attenzione sull’organizzazione della scuola all’interno di un sistema nazionale, con un quadro di riferimento comune, fino ad allora assente. Ora, dopo aver rafforzato l’organizzazione scuola, pur con le necessarie manutenzioni e regolazioni che richiederà nel tempo, dobbiamo portare l’attenzione sulle persone e in particolare sui protagonisti della scuola: studenti e docenti. Dobbiamo farlo con un’idea che prenda corpo attraverso un metodo di lavoro che valorizzi i processi di insegnamento-apprendimento orientati a valorizzare le competenze dello studente. L’orientamento scolastico e l’autorientamento personale, che da tempo abbiamo indebitamente accantonato, oggi sono da riportare all’attenzione proprio perché
{p. 127}portano al centro del processo formativo lo studente con le sue competenze, attitudini, aspirazioni, le scelte di vita.
Note
[23] Il termine funzione oramai è inusuale anche se è stata la definizione regolarmente utilizzata, anche nel CCNL, che ben evidenziava l’idea di un docente funzionale alla trasmissione. Vedi d.p.r. 31 maggio 1974, n. 417 (Norme sullo stato giuridico del personale docente, direttivo e ispettivo della scuola materna, elementare, secondaria e artistica dello Stato). L’articolo 4 definisce la funzione docente: «La funzione docente è intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura».
[24] D. Goleman e P. Senge, A scuola di futuro. Per l’educazione realmente moderna, Milano, BUR Rizzoli, 2019, p. 31.
[25] Piano nazionale di ripresa e resilienza, p. 49.
[26] D. Goleman e P. Senge, A scuola di futuro. Per l’educazione realmente moderna, cit., p. 94.
[27] N. Ordine, L’utilità dell’inutile, cit., p. 116.
[28] Piano nazionale di ripresa e resilienza, p. 187.
[29] Si tratta di Rapporto di autovalutazione, Piano di miglioramento, Piano triennale dell’offerta formativa, Rendicontazione sociale.