Damiano Previtali
La scuola mediterranea
DOI: 10.1401/9788815371102/p3

Introduzione Guardare a Sud

Damiano Previtali è di famiglia lombarda, della bergamasca, dal 1472, così scrive nelle prime pagine di questo libro. Ma oggi guarda a Sud. Non so quanto Previtali ne sia consapevole ma vi è una tradizione, quella delle persone del Nord che, a un certo punto, guardano a Sud proprio con quello «sguardo rivelatore» di cui parla lui nelle prime pagine di questo libro. E, leggendo queste prime pagine, mi sono ricordato dei racconti di mio padre che trascorse, da studente universitario, quattro estati in un’azienda agraria modello nella frazione di Pedali, l’odierna Villa d’Agri, in Basilicata, imparando a fare il tecnico per il Sud da un lombardo che l’aveva fondata e che adottò il Mezzogiorno come prospettiva. Quel lombardo era Eugenio Azimonti, nato a Cerro Maggiore nel 1878 che, nel 1905, si inserì in quella schiera di tecnici che operarono nel Mezzogiorno e per il Mezzogiorno e contribuirono allo sviluppo del Sud nel nome del detto mazziniano: «l’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà». E Umberto Zanotti Bianchi, piemontese, vissuto e laureato a Torino, nel 1908 – dopo il grande terremoto di Messina – guardò alla Calabria e poi a tutto il Mezzogiorno come centro della possibile redenzione educativa d’Italia, fondando 100 anni fa, insieme all’ANIMI [1]
, decine di scuole innovative in luoghi di difficoltà inimmaginabile.
Sì, vi è una tradizione, che vuole che quando le risposte ai problemi annosi sono sempre le stesse e non convincono più e quando i repentini mutamenti, anche catastrofici, ci costringono a guardare meglio a tutta la scena, allora può capitare di scegliere di cambiare sguardo e di rivolgersi a un paesaggio più duro, difficile, ferito, per capire cosa vi è, in quel paesaggio, che possa rappresentare apprendimento, {p. 12}nuova scelta di campo e potenzialità di cambiamento non solo per quel paesaggio lì ma per tutto il panorama.
Dunque, Previtali, in queste pagine, guarda a Sud come si deve guardare a Sud – la parte più ferita della Repubblica – quando la crisi educativa nazionale ci spinge a cercare nuove vie per la scuola italiana nel suo insieme, abbandonando le certezze che non aiutano più. E nel farlo propone una sorta di capovolgimento culturale e geografico che riconosca quanto forte sia stata la ghettizzazione ma anche l’impegno della scuola nel Mezzogiorno, tanto da renderla baluardo di democrazia e orgogliosamente militante pur nel mezzo di condizioni di contesto proibitive.
Così, nel guardare verso il Meridione e le sue scuole affaticate eppure vitali e i suoi quartieri dove vige quella che io ho chiamato la «disperanza» [2]
, Previtali propone il Mediterraneo e il Mezzogiorno come centri della prospettiva di cambiamento del nostro sistema d’istruzione pubblico.
Il Mediterraneo, come è noto, è un universo con tratti unitari riconosciuti dagli studi storici prima ancora di Braudel [3]
e ancor di più dopo, un universo con molte e complesse corrispondenze e differenziazioni studiate anche in antropologia e antropologia del Mediterraneo in particolare. E sarà importante interrogarsi ancora intorno all’ipotesi, qui prospettata, di una «mediterraneità» intesa come una possibile categoria culturale applicabile all’universo-scuola sulla base di tratti chiaramente definibili.
Intanto è certo che uno sguardo proteso verso una nuova considerazione, innovativa, del nostro Mezzogiorno in chiave «mediterranea» si sta facendo strada, non solo in campo educativo. Ne è un segno importante il recente Manifesto Recovery Fund della Svimez [4]
che mostra, con un’analisi serrata, il carattere imperdonabilmente miope che {p. 13}ha determinato, lungo i passati decenni, la riapertura di tutti i divari Nord/Sud, la pauperizzazione e la ghettizzazione del Mezzogiorno e la stasi di sviluppo dell’intero Paese e, perciò, la dissipazione della «rendita mediterranea» italiana intesa come insieme di opportunità geopolitiche, logistiche, ambientali, economiche, culturali, sociali, formative.
Oggi si fa avanti un nuovo meridionalismo [5]
, che riecheggia quello, severo eppure propositivo, di Giustino Fortunato e di Gaetano Salvemini. È un meridionalismo «attuatore» che, come nel secondo dopoguerra, rifiuta i toni «piagnoni» o difensivi e propone un credibile riscatto individuando, in particolare, nel PNRR l’ultima grande occasione per prospettare una nuova, assoluta centralità del Mezzogiorno, superando il falso meridionalismo delle rendite di posizione dei diversi notabilati parassitari del Sud per indicare la via di una scossa innovativa che consenta di fruire appieno della «rendita posizionale» del Mediterraneo per rispondere alla lunga crisi italiana con nuovo slancio civile, a partire dal Sud.
Vi è una condizione perché questa prospettiva diventi credibile, una condizione che Previtali mostra di cogliere appieno in queste pagine. La condizione è che vi sia la radicale consapevolezza del bisogno di un vero e proprio capovolgimento del paradigma secondo il quale prima viene lo sviluppo e poi i servizi per le persone, la rinascita del welfare, l’inclusione sociale, la scuola e l’educazione. Perché è vero il contrario: scuola, educazione e formazione vanno intese come parte costituente della coesione sociale e dell’infrastrutturazione civile dei luoghi e vanno garantite «a monte» delle determinazioni economiche, come condizioni per la crescita perché anticipano e fomentano lo sviluppo sostenibile, come da tempo dice Carlo Borgomeo [6]
.
Dunque, nel mezzo dell’aumento delle povertà, delle disuguaglianze e dei fallimenti a scuola (accentuati dalla {p. 14}crisi pandemica ma già massicciamente presenti sulla scena) [7]
, Previtali si unisce ai nuovi sguardi sul nostro Mezzogiorno e compie un riesame dei dati sui divari nei risultati delle nostre scuole non fermandosi più agli indicatori di successo ottenuti fuori dalla realtà del Mezzogiorno come guida per uscire dal fallimento formativo di massa nel Sud. Invece rivolge l’attenzione ai territori dove sono di gran lunga maggiori tutti gli insuccessi, lì dove i nostri bambini e adolescenti {p. 15}hanno meno ore di scuola in scuole peggiori; lì dove intorno alla scuola vi è il massimo grado e la più grande somma di fattori da «esclusione multifattoriale» dovuti ai contesti, che condizionano in negativo tutti gli indicatori di apprendimento; lì dove, tuttavia, vi sono diffuse, resilienti proposte di tenuta educativa nonostante tutto. E prospetta – come via per uscire dalla crisi – una «scuola mediterranea», valida non solo per il Sud, indicandone i caratteri: «aperta, accogliente, inclusiva, con un clima mite e capace di perseguire lo sviluppo armonico e integrale della persona».
L’indicare tale prospettiva spinge Previtali a un esame à nouveau dei dati in nostro possesso, un esame più attento proprio al «peso del contesto» e, così, a riconsiderare i significati dei risultati della scuola. Nel compiere questo riesame fa i conti, nel merito, con i «tre inciampi sulla scuola» e non «della scuola», i quali, dunque, dipendono da fattori di sviluppo o mancato sviluppo economico, sociale e culturale «a monte della scuola», inciampi che ci interrogano profondamente intorno all’utilizzo dei dati, al peso del contesto in relazione al compito atteso dalle scuole, che si rivela spesso «un compito impossibile», al tema di quanto e come si possano misurare davvero le competenze, ecc.
Da qui il testo propone una nuova possibile scena con un riscatto per le scuole entro un paesaggio che finora le ha gravemente penalizzate, costringendole a operare ogni giorno «come oasi dentro ambienti desertificati dall’incuria collettiva».
Ebbene, a me, che sono meridionale, che vivo da trent’anni in uno dei quartieri dell’antica capitale del Sud più a lungo colpita dalla crisi educativa e che ho provato, nel vivo dell’operatività, a creare azioni prototipali tra scuola e fuori scuola in territori difficili, vengono alcuni pensieri sulla nuova scena possibile, che – credo – possano affiancare quelli opportunamente indicati nel testo. E sono pensieri che chiamano a un impegno politico più largo, che comprende la scuola ma che sostenga, anche da fuori della scuola, quelle «oasi», grazie a un insieme di azioni di supporto territoriale e a una vera e propria agenda, luogo per luogo, che definirei di «sviluppo educativo locale».
{p. 16}
Note
[2] M. Rossi-Doria, Battere la disperanza, in «il Mulino», 4, 2018, pp. 620-628.
[3] F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio e la storia, gli uomini e la tradizione, Milano, Bompiani, 1987; Id., Memorie del Mediterraneo. Preistoria e antichità, Milano, Bompiani, 1998.
[5] Si vedano Svimez, ANIMI, Fondazione Con il Sud, Merita, Fondazione Dorso, Fondazione Nitti, ecc.
[6] C. Borgomeo, L’equivoco del Sud. Sviluppo e coesione sociale, Roma-Bari, Laterza, 2013.
[7] Le ultime stime dell’Istat per il 2020, pubblicate nel giugno 2021, ci dicono che la povertà resiste e si amplia: è in crescita sia in termini familiari (dal 6,4% del 2019 al 7,7% del 2020) che individuali (dal 7,7% al 9,4%). Oltre 2 milioni di famiglie e oltre 5 milioni di individui non hanno accesso a un paniere essenziale di beni e servizi. La situazione delle famiglie povere si traduce in un numero di minori poveri allarmante, da molto tempo e con un evidente peggioramento. Il numero dei minori che vivono in povertà assoluta è più che triplicato, passando dal 3,9% del 2005 (primo anno da cui è disponibile questa serie storica) al 13,5% del 2020. Sono 1.273.000 bambini, a fronte di 375.000 nel 2008. Il 13,5% del totale di bambini/e e ragazzi/e non ha, insomma, i beni indispensabili per condurre una vita accettabile. A questi bisogna aggiungere i minori in povertà relativa. Sono 1.924.000 nel 2020 e anche questi minori sono drammaticamente aumentati, quasi raddoppiando dai 1.237.000 nel 2005. Così, i/le bambini/e poveri in modo assoluto e relativo insieme sono oltre un terzo di tutti i bambini/e e ragazzi/e: 3,2 milioni sul totale di 9,4. Per quanto riguarda il fallimento formativo e la povertà educativa misurata nell’IPE, l’indice di povertà educativa, la situazione è davvero preoccupante. Nel misurare questa povertà, si tiene conto di quanto si impara a scuola e di quali opportunità educative ha il territorio dove si vive. Ebbene, vi è un alto tasso di fallimento formativo implicito, per il quale i condizionamenti multidimensionali e la povertà di offerta formativa, insieme con la povertà materiale e culturale delle famiglie, condizionano il futuro molto precocemente. Infatti, secondo l’indagine Ocse-PISA del 2018, circa un quarto degli alunni e delle alunne di 15 anni sono in povertà educativa perché non raggiungono i livelli minimi di competenze in matematica (24%), scienze (26%) e in lettura (23%). I recentissimi dati Invalsi (luglio 2021) accentuano, purtroppo, questo trend. Questi minori, che vivono quasi tutti nelle aree socialmente più fragili e che spesso frequentano scuole ghettizzanti, «non sono in grado di utilizzare formule matematiche e dati per descrivere e comprendere la realtà che li circonda o non riescono a interpretare correttamente il significato di un testo appena letto». Entro tale prospettiva negativa, per quanto riguarda la dispersione scolastica esplicita (il droping out vero e proprio, la caduta fuori dal sistema d’istruzione e formazione), il trend di lenta riduzione del fenomeno ha subito un recente contraccolpo, passando già prima della pandemia dal 13,8% del 2016 al 14,5% del 2018.