Andrea M. Maccarini (a cura di)
L'educazione socio-emotiva
DOI: 10.1401/9788815370327/c4
I due punti precedenti aprono la riflessione sul terzo: la socializzazione normativa, ossia il corredo di regole vigenti all’interno della classe. Su questo punto la fragilità della scuola è evidente: poche regole sia sulla condotta durante le ore di didattica, sia sull’intervallo, la mensa, la ricreazione; qualche episodica minaccia di punizione mai tradotta in prassi. Il modello adottato dalle insegnanti è quello che Lewin, Lippitt e White [1939] hanno definito come stile del laissez faire, ulteriormente corroborato dalla mancanza di regole coerenti all’interno della famiglia o di figure autorevoli dentro la famiglia preposte alla socializzazione normativa. Le famiglie degli alunni di entrambe le classi spesso demandano il compito di cura (e in parte educativo) a personale esterno alla famiglia (babysitter, tate, colf, talora nonni), rendendo ancora più complesso il processo di acquisizione delle regole. La mancanza di regole produce effetti a diversi livelli: in primo luogo interferisce con la didattica, la rende più lenta e faticosa; inoltre crea ambienti di apprendimento meno favorevoli, a cominciare dalla difficoltà di lavorare in gruppo (di cui si parlerà oltre); infine esalta una particolare agency infantile, quella priva di regolazione (i bambini sono scarsamente eteroregolati e questo genera anche una
{p. 148}scarsa capacità di autoregolazione). Inoltre, dal punto di vista strettamente normativo si verifica una pressoché nulla condivisione e spiegazione della regola, una conseguente non applicazione della regola, la non assimilazione della regola e infine l’incapacità dei bambini di traslarla efficacemente in altri contesti.
Le lacune nella socializzazione normativa emergono anche nell’interazione tra pari e con altri adulti esterni al gruppo classe: si spazia da forme di aggressività manifesta o latente alla scarsa educazione e non rispetto del rituale dell’interazione. Sono stati al riguardo osservati comportamenti e interlocuzioni inappropriate (la mancanza del saluto all’ingresso; risposte ineducate ai compagni; frasi offensive; nessun utilizzo delle normali formule di cortesia nelle interazioni sociali).
Tutti questi aspetti interferiscono con le competenze socio-emotive, come illustreremo qui di seguito.

5. Le competenze degli alunni

I bambini delle due classi osservate presentano alcuni tratti comuni e altri che invece sono peculiari del singolo gruppo classe.
Sono elementi comuni:
– bassa creatività;
– bassa resistenza allo stress;
– bassa perseveranza e responsabilità.
Sono elementi differentemente declinati:
– socievolezza;
– cooperazione.
Per quanto riguarda la creatività, questa competenza è stata osservata raramente in entrambe le classi, sia nella didattica che nei momenti ricreativi. La motivazione di ciò va individuata in alcuni fattori già discussi in precedenza: in primo luogo l’orientamento alla performance, inoltre la forte strutturazione del tempo infantile da parte degli adulti, e infine il tipo di relazioni educative (soprattutto con i genitori) che generano l’adultizzazione del bambino.{p. 149}
Come illustrato in precedenza l’orientamento alla performance, di cui sono principalmente responsabili i genitori attraverso richieste di prestazioni d’eccellenza e forte competizione tra pari, induce nei bambini atteggiamenti esclusivamente esecutivi dei compiti loro assegnati. Se l’obiettivo dell’apprendimento non è l’incremento di conoscenze e competenze ma il raggiungimento di un traguardo quantificabile attraverso una votazione, ne derivano scarsi margini di libertà per una propria personale rielaborazione del compito assegnato, limitato intervento della fantasia e una pressoché nulla reinterpretazione riflessiva dei contenuti didattici. I bambini considerano qualitativamente più apprezzabile l’esecuzione formale di un compito rispetto a una loro rielaborazione creativa; non soltanto però non sono in grado di eseguirla ma razionalmente ritengono che essa possa costituire una deviazione rispetto a quanto è atteso da parte loro. E se questo accade rispetto alla didattica, le cose non vanno molto diversamente anche nelle occasioni ludiche: che si tratti della ricreazione dopo la mensa oppure dei brevi intervalli tra una lezione e l’altra, i bambini mostrano di prediligere giochi preconfezionati dagli adulti o a cui sono abituati perché li sperimentano da tempo.
Per quanto riguarda la strutturazione del tempo infantile, essa rimanda sia all’organizzazione da parte degli adulti sia alla saturazione di quello stesso tempo da parte degli adulti, i bambini con l’agenda piena non hanno spazi e momenti in cui annoiarsi. La noia può costituire l’antidoto più efficace contro la strutturazione del tempo da parte di altri proprio in quanto induce la ricerca, l’invenzione, la sperimentazione autonoma senza che vi sia intervento direttivo da parte degli adulti. I bambini osservati invece, in base alle loro narrazioni e a quanto riferito dalle insegnanti, hanno giornate scandite da orari e impegni decisi da altri: il tempo della scuola viene seguito dal tempo per lo sport, per le lezioni musicali, per varie altre attività formative che le famiglie reputano al contempo indispensabili per la costruzione di un adulto in miniatura e per la saturazione del tempo dei propri figli di cui raramente possono occuparsi.{p. 150}
E infine il terzo elemento, già in parte emerso ossia quello dell’adultizzazione del bambino: la prospettiva che si vede declinata qui è in sostanza quella del well becoming, che enfatizza la rilevanza della dimensione proiettiva (ciò che il bambino diventerà) a discapito del qui e ora, come se l’infanzia fosse esclusivamente una fase necessaria, strumentale e propedeutica all’adultità. Naturalmente, non si nega qui che l’infanzia debba condurre alla maturazione verso le età successive, ma si osserva che in questa declinazione culturale-educativa è come se essa andasse già per certi versi vissuta come una sorta di «adultità anticipatoria».
Tutti questi elementi portano a concludere in direzione di limitati ambiti e momenti in cui la creatività possa manifestarsi e prendere forma, ma anche di uno scarso «allenamento» alla creatività, nel timore di una sanzione o almeno di una mancata ricompensa. La dimensione del controllo è prevalente rispetto a quella creativa.
Un clima altamente performativo come quello descritto porta inevitabilmente con sé elevati livelli di stress. Sebbene i bambini siano continuamente esposti a tale condizione, le osservazioni condotte su entrambe le classi hanno evidenziato una loro bassa resistenza alle situazioni ansiogene. È dunque essenziale qualificare che cosa si intenda con «situazione di stress». In base a quanto osservato nelle aule è situazione di stress non soltanto la competizione per i voti ma anche qualsiasi variazione rispetto a routine consolidate e qualsiasi attività a cui sia correlata una valutazione. Ciò significa, per il primo aspetto, che i bambini hanno una capacità adattiva e reattiva molto bassa, prevale piuttosto in loro il controllo che trova la sua massima espressione in situazioni già note e già sperimentate. Per il secondo aspetto si evidenzia nuovamente quell’ansia da prestazione che è indotta dalle aspettative genitoriali, dall’esasperata competizione tra pari e da un forte accento sull’individualismo. Quest’ultimo elemento ha implicazioni importanti in quanto di ostacolo alla socievolezza, alla cooperazione e alla costruzione di relazioni emotivamente significative tra pari.
Tutte le situazioni di stress, da cui potrebbe derivare un insuccesso, reale o potenziale, generano una reazione {p. 151}ansiogena nei bambini, la quale può prendere la forma sia di un ritrarsi dalla competizione, sia di una perdita di controllo e conseguente sovraeccitazione. In tutti i casi i bambini manifestano il timore di non saper gestire tale situazione, che si traduce in comportamenti diversi: ansia paralizzante che conduce al non fare anche ciò di cui si ha conoscenza e competenza; ansia da prestazione che conduce a svolgere il compito o affrontare la situazione ma farlo in modo inappropriato, confuso e senza sfruttare le proprie risorse a disposizione; ansia da liberazione per cui la situazione viene affrontata ma la priorità è disfarsene il prima possibile, non importa come, con quali mezzi e con quali esiti, pur di alleggerire la situazione di stress.
In concreto tali situazioni sono state osservate sia in occasione dei momenti di valutazione (per quanto pochi e raramente con voti), sia nello svolgimento di attività d’aula: la programmazione di una verifica, essere chiamati alla lavagna per risolvere un problema, realizzare un testo ciascuno al proprio posto ma con un numero di parole massimo da utilizzare, dover eseguire un’attività a tempo, svolgere un compito in un modo diverso dal solito.
Da tali situazioni derivano un bisogno continuo di rassicurazione da parte delle insegnanti, una ricerca, e conseguente gratificazione, di lodi per il proprio operato, una ricerca assidua di conferme ma sempre ed esclusivamente da parte degli adulti. Le situazioni di stress non vengono infatti mai gestite e affrontate in modo condiviso tra pari: non vi è confronto, né condivisione delle paure, nei tentativi di individuare in modo collaborativo strategie di contrasto e superamento della situazione ansiogena.
Connessa a quanto detto sin qui, e perfettamente coerente, è la riflessione sulle competenze perseveranza e responsabilità: queste specifiche competenze, che vengono associate in quanto intimamente connesse nelle pratiche osservate, occupano anche esse un posto residuale all’interno delle due classi. Si precisa che in entrambe le classi si assegnano pochi compiti a casa, sia perché rispetto a tale attività vi sono le rimostranze delle famiglie, sia perché le insegnanti ritengono che i bambini siano adeguatamente {p. 152}stimolati e impegnati durante le ore a scuola. È tuttavia evidente che il lavoro svolto in aula con la supervisione dell’insegnante e la presenza del gruppo classe sia cosa del tutto diversa rispetto alla capacità autonoma di organizzare, gestire e mettere a profitto il proprio tempo in relazione a un insieme di attività, compiti, esercizi da svolgere. I due aspetti dovrebbero rafforzarsi a vicenda ove presenti. L’osservazione d’aula si è limitata quindi a constatare come venissero gestite dai bambini le situazioni nelle quali veniva loro assegnato un compito specifico, indipendentemente dall’ambito disciplinare. Coerentemente con quanto esposto fin qui rispetto ad altre competenze, i bambini hanno mostrato poca costanza sia nell’esecuzione materiale, sia rispetto all’obiettivo finale dell’apprendimento. L’approccio più diffuso è quello per il quale o si conosce la soluzione e il modo di svolgere l’esercizio, oppure si rinuncia e lo si abbandona. Non soltanto quindi c’è poca autonomia nella gestione ed esecuzione dei compiti assegnati, ma anche poca determinazione di fronte alle difficoltà, molti limiti nel mantenimento della concentrazione, un continuo bisogno di rassicurazione da parte degli adulti. I bambini sono quindi perlopiù esecutori di indicazioni che promanano dagli adulti ma non possiedono le competenze necessarie per lavorare in modo autonomo, per valutare il proprio lavoro, per portarlo a compimento. E anche nei casi in cui ciò accade per i bambini è prioritario ottenere il riconoscimento e il consenso da parte dell’insegnante, ben prima della propria soddisfazione per aver completato un’attività e averlo fatto in modo adeguato. Anche il fatto di non sapersi autovalutare, ed essere quindi critici verso il proprio operato, è sintomo di scarsa autonomia e scarsa responsabilità.
Fin qui i tratti comuni alle due classi osservate. Passiamo ora a indagare le differenze tra la classe Gelsomino 1 e 2.
Rispetto alla socievolezza la classe Gelsomino 1 presenta una buona capacità di relazione e interazione da parte dei bambini sia tra loro, sia rispetto ad adulti esterni al gruppo classe. Con i pari c’è un buon livello di interazione anche se si manifesta prevalentemente all’interno di microgruppi o coppie fisse; rispetto agli adulti che possono intervenire
{p. 153}in aula e non sono gli insegnanti, i bambini sono indubbiamente educati ma distaccati, hanno scarse capacità empatiche e non sono nemmeno dotati di quella curiosità verso ciò che non è già noto e familiare tipica dell’età. Questo comportamento non va confuso con la timidezza, perché non si tratta affatto di bambini timidi, anzi spesso mostrano di essere spavaldi e arroganti, con atteggiamenti di sfida verso gli adulti. Semplicemente non possiedono la capacità di entrare in relazione significativa con gli altri, specialmente se questi altri costituiscono una variazione rispetto alla routine e al panorama conosciuto di adulti con cui interagiscono in modo quotidiano. Non possono nemmeno essere definiti selettivi in quanto questo atteggiamento si riscontra in modo universale verso tutto ciò che è «non conosciuto» in ragione delle osservazioni compiute, sia come numerosità, sia come frequenza. Non è stato possibile ricondurre questo atteggiamento a un’iniziale distanza ed estraneità ma poi attenuato dalla conoscenza reciproca; l’atteggiamento si è dimostrato persistente e strutturale.
Note