Christoph Cornelissen, Gabriele D'Ottavio (a cura di)
La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c11

L’eredità problematica della sociologia weimariana
In questo testo ho ripreso ampi brani di una versione precedente apparsa, con il titoloLa sociologia in tempi di disorientamento: il caso di Weimar,nella rivista «Sicurezza e scienze sociali», 8, 2020, 1, pp. 19-30

Notizie Autori
Alessandro Cavalli è già professore ordinario di Sociologia, Università degli Studi di Pavia.
Abstract
Di contro al carattere fortemente deterministico dei numerosi tentativi di spiegare storicamente le cause che hanno condotto al crollo della Repubblica di Weimar e successivamente al nazionalsocialismo si pone qui, con gli stessi intenti, particolare attenzione nei confronti di elementi interni alla società tedesca stessa, che consentono di gettare uno sguardo differente sulle dinamiche interne al paese. A tal proposito è di estrema utilità ricostruire le riflessioni del mondo sociologico di quegli anni, il quale sebbene mostri una certa eterogeneità di opinioni e una incapacità di fondo nel comprendere i nefasti risvolti del governo di Weimar, mostra alquanto esplicitamente una volontà riformista e un sostrato concettuale riconducibile al pensiero sociologico di Max Weber.

1. Il contesto di nascita e affermazione della sociologia in Germania

È significativo che oggi la fine della Repubblica di Weimar susciti un rinnovato interesse nell’ipotesi che la crisi di allora possa essere utile per capire la crisi attuale. La comparazione è sempre utile, purché non ci si dimentichi mai che la storia non si ripete e che ogni tempo-luogo ha le sue irripetibili specificità.
È facile spiegare perché oggi ha senso riflettere su Weimar. Vi sono evidenti segnali di crisi delle democrazie: dall’America di Trump, al Regno Unito della Brexit, alla Turchia di Erdoğan, all’Ungheria di Orbán e ai suoi alleati del patto di Visegrad, per arrivare all’Italia dei governi giallo-verde e giallo-rosso. Tutti casi che segnalano processi di polarizzazione frammentata che ostacolano la formazione di governi capaci di governare senza intaccare i princìpi democratici. Non c’è Paese, dalla Svezia alla Grecia, passando per la Francia e la Germania, che non veda l’emergere di movimenti che minacciano seriamente i valori e le istituzioni della tradizione democratica.
Nel caso di Weimar sappiamo come è andata a finire. La storiografia ha proposto tante spiegazioni. L’esito è sicuramente il risultato del concatenarsi di una pluralità di cause o fattori/processi, interni ed esterni, nessuno dei quali è probabilmente stato quello decisivo. È stata la loro combinazione a produrre {p. 240}il risultato finale. Le spiegazioni ex post tendono ad essere marcatamente deterministiche: data la combinazione dei fattori, il risultato non poteva che condurre all’esito che si è realizzato. Tuttavia, l’intreccio delle cause e dei fattori che hanno generato i processi sono pur sempre riconducibili ad azioni/decisioni di attori, individuali o collettivi che avrebbero potuto fare una scelta diversa, magari in relazione alle situazioni contingenti o addirittura casuali nelle quali si sono trovati a decidere. Non c’è bisogno di scomodare Machiavelli per ricordarsi il ruolo che la «fortuna» gioca negli eventi delle società umane.
È troppo facile risalire alle «cause» quando si conoscono gli effetti. Per uscire dall’implicito determinismo di molte spiegazioni storiche possiamo, come peraltro suggerito anche da Weber, fare uso della spiegazione controfattuale e dello strumento della simulazione: che cosa sarebbe successo se l’attore A avesse fatto X invece che Y? È la stessa questione che Weber ha posto chiedendosi che cosa sarebbe stato della nostra civiltà se a Maratona avesse vinto l’esercito persiano e non quello ateniese.
La storiografia più recente sostiene che l’esito catastrofico della crisi della repubblica weimariana non era per nulla scontato. Certo, era difficile evitare che la crisi del 1929 non si ripercuotesse anche sull’economia europea, e tedesca, la quale dipendeva in modo particolare dai crediti USA. I fattori esogeni giocavano allora, e ancor più oggi, un ruolo fondamentale. Gli effetti potenzialmente nefasti (come aveva previsto Keynes) delle sanzioni contemplate dal Trattato di Versailles erano stati sensibilmente attenuati dai crediti e dalle commesse che gli Stati Uniti avevano generosamente concesso alla Germania repubblicana, rendendola però così più dipendente del resto d’Europa dalle vicende della Grande Depressione. Restava poi la paura che il regime post-rivoluzionario che si era instaurato nella Russia sovietica avrebbe potuto favorire sviluppi analoghi anche in Germania. E, inoltre, la percezione diffusa dell’ostilità della Francia, sottolineata dalla smilitarizzazione della Renania, non rafforzava certo la credibilità dell’esempio della democrazia francese. {p. 241}
A prescindere dall’annosa e insolubile questione sul primato della politica estera oppure interna, dobbiamo comunque chiederci: quali erano i fattori interni, endogeni, alla società tedesca di allora, quali erano gli attori, le loro decisioni, i loro orientamenti, le loro strategie che hanno contribuito (oppure avrebbero potuto ostacolare), a che il corso della storia assumesse una direzione così infausta? Che peso hanno avuto le norme previste dalla nuova Costituzione repubblicana che replicavano, sia pure attenuandoli, alcuni fondamenti già presenti nel Reich bismarckiano-guglielmino? Che ruolo hanno svolto le formazioni paramilitari che si erano mantenute attive dopo la fine della Grande Guerra? Come mai la nuova repubblica non è mai riuscita a realizzare un completo monopolio della violenza? Che peso hanno avuto le spaccature all’interno del movimento operaio e delle sue formazioni partitiche? E la tradizionale divisione tra la Germania protestante e quella cattolica?
La storiografia sulla vicenda weimariana ha cercato di dare delle risposte più o meno convincenti a queste domande. È forse utile chiedersi se si può ricavare qualche indicazione andando a vedere che cosa facevano e che cosa pensavano i sociologi d’allora. Quale era la loro immagine della società tedesca nella quale vivevano, quali le dinamiche che individuavano, ma anche quali erano gli strumenti teorici e metodologici con i quali operavano, le loro attese e i loro punti di vista. I contemporanei sono in un certo senso dei testimoni privilegiati della società nella quale vivono, anche se, come è ovvio, le loro testimonianze ci servono oggi solo come documenti, come fonti significative da utilizzare con occhio critico. Sappiamo bene che essere immersi in una data realtà da un lato facilita, ma dall’altro ostacola lo sguardo: i testimoni diretti non sono necessariamente dei testimoni attendibili, la distanza dai fatti è spesso, anzi quasi sempre, preferibile alla prossimità.
Allora in Germania c’era già una sociologia abbastanza robusta anche se non ancora pienamente istituzionalizzata nel sistema accademico [1]
. C’è qualcosa nella sociologia praticata in epoca {p. 242}weimariana che ci può offrire o almeno suggerire qualche pista per capire le dinamiche e le turbolenze di quella società?
Non ci sono molti studi sulla storia della sociologia tedesca di quell’epoca [2]
: l’età della fondazione collocata grosso modo nei decenni a cavallo tra i secoli XIX e XX era ormai passata. Nel 1904 Sombart, Weber e Jaffé erano subentrati alla direzione dell’Archiv für Soziale Gesetzgebung und Statistik (noto come «Brauns Archiv») cambiandone il nome in Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, nel 1910 era stata fondata la DGS (Deutsche Gesellschaft für Soziologie) per dare sostegno e visibilità a una scienza che voleva marcare la distinzione con le discipline normative fondate su giudizi di valore. Tra le quattro figure di spicco artefici della fondazione, due erano morte quando la Grande Guerra era ancora in corso o appena terminata (Georg Simmel e Max Weber), Max Weber fece in tempo a partecipare alle discussioni sulla Costituzione di Weimar e gli altri due (Ferdinand Tönnies e Werner Sombart) sopravvissero, attraversarono il breve periodo della repubblica e fecero in tempo a vederne anche la fine.
I sociologi attivi durante Weimar possono essere classificati ex post a seconda della posizione che avrebbero assunto successivamente nei confronti del nazionalsocialismo: alcuni ne divennero più o meno esplicitamente degli apologeti [3]
, altri si {p. 243}rifugiarono nell’esilio interno [4]
, altri ancora furono costretti a lasciare la Germania [5]
.

2. Segnali di crisi annunciata

Da un certo punto di vista la corrente più «interessante» è costituita da coloro che hanno anticipato prospettive che si trovavano più o meno in sintonia con i movimenti anti-modernisti, anti-industriali di fine Ottocento ed anche coi movimenti eversivi che si erano affermati nel primo dopoguerra. Non si trattava solo di movimenti tradizionalisti e conservatori di stampo aristocratico, ma anche di movimenti, come i Wandervogel che rivendicavano l’esigenza di un ritorno alla natura. Risale a questi orientamenti l’idea di una «rivoluzione conservatrice» per designare una tendenza radicata nel pensiero politico/filosofico e nei ceti sociali della piccola proprietà contadina e in genere in quegli strati della società che avevano subito le trasformazioni indotte da una rivoluzione industriale di inaudita e rapida intensità. Nel loro pensiero si ritrovano echi nostalgici di un ordine sociale che è stato sconvolto e di cui si auspica la restaurazione.
Anti-capitalismo, antri-industrialismo, anti-liberalismo, anti-parlamentarismo, anti-razionalismo, il tutto accompagnato poi da un altro anti e cioè dall’antisemitismo sono i tratti distintivi di questa corrente di pensiero. Potremmo chiamare questa una sociologia anti-weberiana, pensata, esplicitamente in qualche
{p. 244}caso, o implicitamente in molti altri, per marcare la distanza da una sociologia che proponeva di tenere separati i giudizi di valore dal lavoro scientifico.
Note
[1] E. Stölting, Akademische Soziologie in der Weimarer Republik, Berlin, Duncker & Humblot, 1986.
[2] I. Gorges, Sozialforschung in der Weimarer Republik 1918-1933, Frankfurt a.M., Hain Verlag, 1986. Si veda anche lo «Jahrbuch für Soziologiegeschichte», pubblicato da Leske & Budrich dal 1992 in poi. Si vedano però anche gli scritti coevi di Karl Mannheim citati in seguito.
[3] O. Rammstedt, Deutsche Soziologie, 1933-1945: Die Normalitat einer Anpassung, Frankfurt a.M., Suhrkamp Taschenbuch Wissenschaft, 1986. Il lavoro di Rammstedt è illuminante per cogliere continuità e discontinuità tra Weimar e il nazionalsocialismo. Sul tema della continuità si veda anche: C. Klingemann, Zur Begründung der Nachkriegssoziologie in Westdeutschland: Kontinuität oder Bruch?, in C. Honneger et al. (edd), Grenzlose Gesellschaft?, Opladen, Leske & Budrich, 1989, pp. 131-138. Dello stesso autore non ho potuto tener conto del recentissimo Soziologie im Deutschland der Weimarer Republik, des Nationalsozialismus und der Nachkriegszeit. Der schwierige Umgang mit einer politisch-ideologisch belasteten Entwicklungsphase, Wiesbaden, Springer, 2020. In Italia manca tuttora uno studio accurato della sociologia durante il periodo fascista. Per il periodo precedente il fascismo, A. Pusceddu, La sociologia positivistica in Italia 1880-1920, Roma, Bulzoni, 1989.
[4] Il personaggio di maggiore spicco fu certamente Ferdinand Tönnies, ma vanno ricordati anche Alfred Weber, Leopold von Wiese, Alfred Vierkandt, oltre a Werner Sombart che però si colloca nella zona incerta di vicinanza e lontananza dal regime.
[5] Coloro che dovettero lasciare la Germania erano quasi tutti di origine ebraica: Norbert Elias, Karl Mannheim, Max Horkheimer, Theodor Adorno, Siegfried Kracauer. Theodor Geiger invece non era di origine ebraica ed emigrò prima in Danimarca e poi in Svezia in quanto esponente della socialdemocrazia e oppositore del regime.