Christoph Cornelissen, Gabriele D'Ottavio (a cura di)
La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c11
Anti-capitalismo, antri-industrialismo, anti-liberalismo, anti-parlamentarismo, anti-razionalismo, il tutto accompagnato poi da un altro anti e cioè dall’antisemitismo sono i tratti distintivi di questa corrente di pensiero. Potremmo chiamare questa una sociologia anti-weberiana, pensata, esplicitamente in qualche
{p. 244}caso, o implicitamente in molti altri, per marcare la distanza da una sociologia che proponeva di tenere separati i giudizi di valore dal lavoro scientifico.
Nel 1848 era tramontato il sogno democratico di una parte della borghesia liberale tedesca, negli anni Venti tramonta il sogno di una rivoluzione proletaria, ma anche di una «rivoluzione conservatrice», lasciando dietro di sé un residuo ideologico chiamato in un caso Entfremdung di matrice marxiana e nell’altro Uneigentlichkeit di matrice heideggeriana. Non si può infatti negare una qualche relazione tra i due concetti e l’attrazione esercitata da entrambi su quegli intellettuali di origine borghese che esprimevano un oscuro rifiuto della modernità, dell’industria, del capitalismo, della vita urbana. Non è certo una coincidenza casuale che, proprio prima dell’inizio dell’esperienza weimariana, esca nel 1918 Der Untergang des Abendlandes di Spengler che tanta influenza era destinato ad esercitare sulla vita intellettuale della Germania, e non solo, ed anche sulla cultura sociologica. Si respira un’aria diffusa di decadenza, come se l’avvento della società di massa che omologa e appiattisce avesse eroso o minacciasse di erodere il nucleo autentico sia della personalità individuale sia della comunità organica esaltato dalla cultura romantica. Non è un caso che molti giovani non certo proletari fossero affascinati dai movimenti dei Wandervogel, presenti ovunque in Europa, ma particolarmente attivi nella Germania guglielmina e weimariana per essere infine travolti o, meglio, assorbiti dalla Hitlerjugend.
Sulla scia della contrapposizione tönnesiana tra Gemeinschaft e Gesellschaft un pezzo consistente dell’intellighenzia tedesca, anche ben al di là di coloro che si identificavano come sociologi, viveva immersa nella nostalgia di un mondo pre-industriale e proprio per questo incapace di cogliere appieno le novità che l’industrializzazione stava portando nella società. Sociologi come Othmar Spann o Hans Freyer, per quanto diverse possano essere considerate le rispettive impostazioni teoriche, possono senz’altro essere classificati tra gli anticipatori di quanto sarebbe successo dopo il 1933. La loro impostazione è stata rubricata come «universalistica», ma nel senso che sostengono che «il tutto viene prima delle parti» e quindi si schierano contro {p. 245}qualsiasi forma di individualismo e soprattutto di individualismo metodologico. Il «tutto» si risolve nell’entità mitica del Volk, la storia non è fatta dagli uomini e dalle donne, ma dai popoli, nella cui storia è radicata un’anima collettiva profonda e che nel futuro hanno una loro missione da compiere. In particolare il popolo tedesco è destinato a guidare il resto dell’umanità verso chi sa quali radiosi destini. Se i protagonisti sono i Völker, alcuni popoli hanno una missione da compiere e sono destinati a guidare ed altri ad essere guidati. Non si tratta, è bene sottolinearlo, di pensatori di levatura modesta, le loro idee hanno una notevole impalcatura teorica, sia pure fondata sul terreno molto scivoloso di un esasperato nazionalismo. Peraltro anche alcuni loro allievi, pur collocandosi nel campo conservatore anche dopo la caduta del regime nazista, come Arnold Gehlen o Helmut Schelsky, nonostante la loro aperta adesione al nazismo, hanno avuto riconoscimento anche nella sociologia tedesca del dopoguerra [6]
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Nonostante l’adesione convinta, e in certi casi anche la militanza, nelle file del nazionalsocialismo di personaggi come Hans Freyer, per altri la vicinanza fu meno convinta e talvolta perfino osteggiata dal regime (Spann fu anche internato per un breve periodo a Dachau). Si può comunque parlare di una «deutsche Soziologie» che, sostituendo al concetto di «società» il concetto di «Volk», con tutte le sue implicazioni etnico-razziali, ha anticipato ben prima della presa del potere hitleriano i temi chiave del futuro regime. Altri intellettuali {p. 246}come Werner Sombart che dall’originaria vicinanza al marx-ismo e alla socialdemocrazia si era gradualmente convertito al «socialismo tedesco», furono piuttosto dei fiancheggiatori laterali, talvolta amareggiati dalla piega che aveva preso il regime, senza tuttavia mai diventare dei veri e propri «esuli interni» e ancor meno degli oppositori.
Esempi significativi di esilio interno furono studiosi insigni come Ferdinand Tönnies, Alfred Weber e Leopold von Wiese. Quest’ultimo fu una figura di grande spicco e di grande importanza sia nel quadro della sociologia weimariana e post-weimariana, sia per il contributo che diede alla rinascita della sociologia dopo la fine del regime nazista. Durante gli anni bui del nazismo si dedicò, nel solco della sociologia simmeliana, all’elaborazione di una raffinata teoria relazionale della società, troppo astratta per destare i sospetti delle gerarchie del Reich.
Dopo la guerra e il crollo del regime l’attenzione per la sociologia praticata in Germania in quegli anni si è concentrata soprattutto sulla nutrita schiera di coloro che avevano abbandonato il loro Paese, in grande maggioranza per ragioni razziali: Theodor Geiger in Danimarca, Karl Mannheim e Norbert Elias in Inghilterra, Siegfried Kracauer, Theodor Adorno, Max Horkheimer negli Stati Uniti, per nominare solo i più noti.
La sociologia non scomparve dalla scena, anzi per certi versi si rafforzò durante il regime, almeno come presenza a livello accademico. In alcuni casi contribuì effettivamente (e non senza entusiasmo) alla costruzione dell’impalcatura ideologica del nazismo, in altri casi manifestò una accentuata capacità di adattamento opportunistico al regime, per altri vi fu, come appena accennato, esilio interno ed esilio esterno. Nessun sociologo compare in primo piano nella storia, peraltro sporadica e marcatamente elitaria, della resistenza al regime.

3. Temi di ricerca e strutture istituzionali

Non è però giusto giudicare la sociologia weimariana soltanto in relazione alla posizione che i sociologi assunsero nei con{p. 247}fronti della brusca conclusione dell’esperienza repubblicana. È vero che per alcuni vi fu continuità, per altri, come vedremo rottura, per molti tuttavia il passaggio dalla repubblica al regime nazista segnò l’interruzione (o forse sarebbe meglio dire la sospensione) di una tradizione riformista che aveva radici ancor prima nell’epoca guglielmina. Come scrive Stölting, «… la sociologia in epoca weimariana costituì un osservatorio per persone e tendenze volte a risanare la società, molto vicine a prospettive riformistiche» [7]
. Questo vale in particolare per il Verein für Sozialpolitik la cui origine risale ai cosiddetti «Kathedersozialisten» dell’epoca delle riforme sociali bismarckiane e che fino allo scioglimento nel 1935 promosse una serie notevole di inchieste e talvolta delle vere ricerche empiriche su una gamma assai ampia di temi di politica economica e sociale [8]
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Dalla critica weberiana alla commistione tra lavoro di indagine scientifica e attività di intervento politico nacque nel 1909-1910, come già notato, la Deutsche Gesellschaft für Soziologie votata, nelle intenzioni dei suoi fondatori, a mantenere i giudizi di valori al di fuori del lavoro scientifico. La DGS continuò la sua attività organizzando diversi congressi fino a quando sotto la presidenza di von Wiese interruppe di fatto (se non di diritto) la sua attività non particolarmente gradita alle autorità del regime.
Accanto al Verein e alla DGS, una terza istituzione svolse un ruolo importante nella sociologia di allora: il Forschungsinstitut für Sozialwissenschaften di Colonia, fondato per iniziativa e con il sostegno dell’amministrazione comunale il cui sindaco era allora Konrad Adenauer, una figura destinata nel dopoguerra a svolgere un ruolo decisivo nella ricostruzione della democrazia in Germania. L’interesse di questa istituzione consiste nel fatto che essa riflette puntualmente i diversi orientamenti politici allora dominanti: l’organizzazione era articolata in tre sezioni. La prima, con un’impronta filosofica permeata della {p. 248}cultura della Renania cattolica e diretta fino alla sua morte nel 1928 da Max Scheler, una figura ancor oggi di grande interesse soprattutto, ma non solo, per aver aperto la strada di una sociologia del sapere. Una seconda fortemente indirizzata alla politica sociale e al diritto del lavoro e influenzata dalla socialdemocrazia ed una terza impostata sulla sociologia relazionale di Leopold von Wiese, di stampo piuttosto liberale, anch’essa tuttavia aperta verso una sociologia applicata di orientamento riformista.
A questo punto possiamo chiederci se e in che misura la sociologia di Weimar fu in grado di dar conto delle dinamiche della società del tempo, di avvertire i segnali della crisi che si sarebbe di lì a poco verificata. È difficile rispondere adeguatamente a questa domanda; anche le riflessioni più recenti di storia della sociologia in Germania non sono di grande aiuto [9]
, tuttavia non ci si può sottrarre al compito di tentare di dare una risposta.
In generale è abbastanza deprimente riconoscere che la sociologia non ha capito molto di quanto stava succedendo. La crisi ha preso i più alla sprovvista: si era creato troppo disordine, si poteva capire che sarebbe potuto arrivare qualcuno che mettesse ordine nel caos, anzi, forse era addirittura necessario che irrompesse sulla scena qualcuno capace di mettere ordine, e poi, ristabilito l’ordine, si sarebbe potuto riprendere il corso normale della vita sociale. Così la pensavano in molti e probabilmente anche molti sociologi. Anche Weber tratteggiando la figura del capo carismatico da un lato ne auspicava la comparsa, ma dall’altro rivendicava la centralità della funzione del Parlamento. Weber fu quindi favorevole all’ipotesi di un regime presidenziale in quanto temeva l’effetto devastante dell’instabilità politica sulla democrazia parlamentare in un sistema preda di un’eccessiva frammentazione fra i partiti e le
{p. 249}fazioni al loro interno. Forse, di fronte agli effetti che avrebbe prodotto in seguito il combinato disposto degli articoli 48 e 53 della Costituzione weimariana (rispettivamente sulla dichiarazione dello stato di emergenza e sui poteri del presidente di nominare e revocare il capo del governo) avrebbe rivisto la sua posizione [10]
. Sulla presenza/assenza della figura di Weber nella sociologia weimariana avrò modo di tornare in seguito.
Note
[6] Gehlen viene considerato un classico dell’antropologia filosofica e nella sua opera maggiore Der Mensch, uscita nel 1940, non vi sono tracce delle teorie della razza. Per Schelsky l’adesione al nazismo si colloca in età molto giovanile. Nel dopoguerra diventò una delle figure più significative della sociologia tedesca, contribuendo, tra l’altro, alla fondazione del famoso Zif (Zentrum für interdisziplinäre Forschung) di Bielefeld. Non si può dire che le conversioni dopo il crollo del regime siano state tutte dettate dalla necessità opportunistica di adeguarsi al nuovo clima politico/culturale della Repubblica federale, anche se resta sorprendente come sia stato possibile per degli studiosi attraversare una fase storica così eccezionale restando apparentemente indenni. Sulla figura di Schelsky si veda anche: A. Gallus (ed), Helmut Schelsky. Der politische Anti-Soziologe: eine Neurezeption, Göttingen, Wallstein, 2013.
[7] E. Stölting, Akademische Soziologie in der Weimarer Republik, p. 15.
[8] F. Boese, Geschichte des Vereins für Sozialpolitik 1872-1932, ripubblicato nel 2013 a Berlino, dall’editore Dunker & Humblot.
[9] Oltre al già citato lavoro di E. Stölting, rinvio allo studio di V. Kruse, Geschichte der Soziologie, Konstanz - München, UTV, 2008, 20183 che vede la sociologia di Weimar nella prospettiva della crisi del dopoguerra lasciando intendere che la crisi del 1933 giunse pressoché inattesa anche per i sociologi.
[10] Sull’interpretazione della concezione weberiana della democrazia plebiscitaria si è aperto un grande dibattito in seguito alla pubblicazione di un celebre saggio di W.J. Mommsen, Max Weber und die deutsche Politik 1890-1920, Tübingen, Mohr, 1959 (trad. it. Max Weber e la politica tedesca, Bologna, Il Mulino, 1993). In questo dibattito la posizione più equilibrata mi sembra quella assunta da R.M. Lepsius, Das Modell der charismatischen Herrschaft und seine Anwendbarkeit auf den ‘Führerstaat’ Adolf Hitlers, in R.M. Lepsius, Demokratie in Deutschland, Göttingen, Vandenhock & Ruprecht, 1993 (trad. it. Il modello del potere carismatico e la sua applicabilità allo «stato dittatoriale» di Hitler, in M.R. Lepsius, Il significato delle istituzioni, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 171-202). Su questo punto si veda anche M. Ponso, Una storia particolare. «Sonderweg» tedesco e identità europea, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 296-300.