Damiano Previtali
La scuola mediterranea
DOI: 10.1401/9788815371102/c1

Capitolo primo Una diversa narrazione

Abstract
Di fronte al secolare dibattito sull’arretratezza del Mezzogiorno, in questo capitolo si propone di ripartire dalla scuola, dalle competenze e dalle persone al fine di promuovere il capitale sociale. L’educazione è alla base e al centro dello sviluppo pertanto bisogna riabilitare il ruolo della scuola all’interno della società quale attore principale. Al fine di reificare questo orientamento, si discutono i “patti educativi di comunità” dove la scuola assume un approccio partecipativo e cooperativo allo sviluppo intessendo così un rapporto a doppio verso con il sociale. In prospettiva, favorire la scuola può essere il punto di partenza per il riscatto di tutto il Mezzogiorno.

1. Argomenti per la scuola del Mezzogiorno

Mai come in questo momento abbiamo bisogno di rileggere la scuola del Mezzogiorno in quanto, come risaputo, il nostro Paese si è posto l’obiettivo di «ridurre i divari territoriali in Italia per quanto concerne il livello delle competenze di base (italiano, matematica e inglese), inferiore alla media Ocse, in particolare, nel Mezzogiorno» [1]
.
Il rischio di un grande piano di investimenti che proceda secondo una logica che si è già dimostrata fallimentare è altissimo. Infatti, se si analizzano i molti insuccessi degli interventi volti ad affrontare la questione meridionale [2]
, si troverà che corrispondono a un «grande» piano, tant’è che in molti guardano oramai con disincanto agli annunci dei massicci investimenti per le grandi trasformazioni. Uno dei problemi sta proprio nell’idea di «grandezza» che, anche quando nasce con buoni intenti, passa con difficoltà dal centro alla periferia e, comunque, non incide sul cambiamento. Infatti da tempo sappiamo che non si cambiano le persone e i contesti sociali con l’annuncio di grandi disegni ministeriali, bensì con il lavoro minuzioso e diffuso sul campo, con il confronto, con le idee [3]
. In ogni paese, comunità, territorio {p. 36}del Meridione abbiamo un’istituzione radicata e accreditata come la scuola, che lavora con le idee per la formazione delle persone. Anche solo per questa semplice evidenza la scuola oggi sta al centro di qualunque discorso sullo sviluppo del Mezzogiorno e (incredibile a dirsi) si trova avvantaggiata rispetto ad altri settori. Pensiamo al settore industriale che ha sempre egemonizzato qualunque discorso: nonostante i contributi della Svimez [4]
, della Cassa per il Mezzogiorno, dei Patti territoriali [5]
, non ha promosso lo sviluppo atteso e, in alcuni casi, ha lasciato solo macerie, lacerando il tessuto sociale, destabilizzando le migliori prospettive di imprenditorialità e alimentando le peggiori narrazioni.
Un compito essenziale del Piano nazionale di ripresa e resilienza è accompagnare una nuova stagione di convergenza tra Sud e Centro-Nord, per affrontare un nodo storico dello sviluppo del Paese. Dopo un periodo di avvicinamento delle aree del Paese dagli anni del secondo dopoguerra fino a metà degli anni Settanta, il processo di convergenza si è arrestato. Sono ormai più di quarant’anni che il divario, in termini di PIL pro capite, è rimasto sostanzialmente inalterato, se non aumentato [6]
.
Infatti, nel secolo scorso e in particolare negli anni del boom economico si è pensato allo sviluppo del Mezzogiorno veicolato dai grandi investimenti industriali che avrebbero trascinato con sé tutto un indotto, fra cui anche il sociale. In realtà (ex post) possiamo dire che questo sviluppo si è fermato in buona parte all’utilizzo dei finanziamenti e non {p. 37}ha promosso una vera imprenditoria. La dinamica che abbiamo visto, se si permette la semplificazione, è facilmente comprensibile: le aree del Paese più efficienti sono quelle che attirano investimenti e competenze professionali qualificate, al contrario le aree depresse, essendo meno efficienti e anche meno sicure rispetto ai possibili risultati degli investimenti, non sono attrattive e perdono continuamente investimenti e competenze professionali che ovviamente si spostano progressivamente nelle aree che danno maggiori garanzie. Con l’andare del tempo un piccolo divario diviene un divario incolmabile. I grandi piani non trovano il tessuto sociale e nemmeno le infrastrutture, con la conseguenza che gli stessi investimenti non producono sviluppo ma ulteriori problemi, in quanto non vanno ad alimentare la parte produttiva della società bensì quella improduttiva e a volte malavitosa. In questo modo la parte efficiente del Paese si giova di una spirale virtuosa che impoverisce, suo malgrado, la parte inefficiente. Naturalmente la prima è convinta che la sua fortuna dipenda solo da sé stessa, mentre la seconda è convinta che la sua sfortuna dipenda solo dagli altri. Infatti tutti noi abbiamo letto analisi o sentito testimonianze dirette sull’operosità del Nord rispetto all’indolenza del Sud, così come sappiamo che il Nord si lamenta dell’eccessiva invadenza dello Stato e il Sud all’opposto della sua assenza, e così potremmo continuare a lungo [7]
.
Dalla persistenza dei divari territoriali derivano scarse opportunità lavorative e la crescita dell’emigrazione, in particolare giovanile e qualificata, verso le aree più ricche del Paese e verso l’estero. Questo genera un ulteriore impoverimento del capitale umano residente al Sud e riduce le possibilità di uno sviluppo autonomo dell’area [8]
.{p. 38}
Questo modello è stato fallimentare. Fra l’altro, oggi, con la globalizzazione assistiamo alla realizzazione di insediamenti industriali e prodotti a basso costo in altri paesi e, pertanto, il Meridione «povero» non è appetibile in quanto non è competitivo. Anche se tuttora il Meridione ha un patrimonio nei cosiddetti «nuovi fattori competitivi unici e non delocalizzabili» che con i problemi (veri) della globalizzazione hanno assunto un valore aggiunto invidiabile, di cui il nostro Paese è ricchissimo con la sua storia, arte, cultura, architettura, paesaggistica. Non stiamo dicendo che i nuovi fattori sono il riferimento unico ed esaustivo, bensì sono una grande ricchezza. Ma sta di fatto che fra il Nord e il Sud si è instaurata una dinamica sociale di controdipendenza, in cui ognuno pensa a sé stesso e al suo interesse, pur sapendo che vi è un legame inscindibile in cui l’uno è dipendente dall’altro e, anche se non ne è consapevole, ha bisogno dell’altro.
Con un po’ di leggerezza, la dinamica fra Nord e Sud ricorda la relazione fra i ricercatori e i topi nella critica al comportamentismo pavloviano. Mentre i ricercatori si complimentano per la riuscita dell’addestramento del topo, lo stesso topo dice ai suoi compagni di gabbia: «Sono riuscito ad addestrare questi che si credono scienziati. Ogni volta che premo la leva mi forniscono il cibo». Tutti e due sono soddisfatti dei rispettivi risultati immediati, anche se immaginiamo che nessuno voglia essere al posto del topo.
Alla costruzione di questa dinamica non hanno contribuito solo i fallimenti dei grandi piani di sviluppo a carattere illuministico ma, a nostro avviso, anche la storia sociale ed economica del Mezzogiorno che si considera sempre con troppa sufficienza. «Quello che spaventa e incanta del Mezzogiorno d’Italia è il carico di storia e di ancestrale sapienza che grava su ogni manifestazione umana» [9]
.
In altri termini, soprattutto al Sud, abbiamo la persistenza di «province finite di significato» [10]
fatte di riti, usan{p. 39}ze, credenze, valori che attraversano indenni ogni processo di modernizzazione [11]
. Uno scontro latente fra razionale e irrazionale, fra globale e locale, fra l’equilibrio dinamico necessario alle trasformazioni e l’equilibrio statico necessario alla storia delle persone, refrattarie ai cambiamenti, soprattutto quando non appartengono a sé e al proprio territorio.
Tutti questi aspetti fanno parte del capitale sociale [12]
e pertanto riguardano l’istituzione scuola che ha il compito di promuoverlo e svilupparlo partendo dalle competenze delle persone.
È giunto il tempo di esplorare più a fondo il rapporto tra educazione e sviluppo, domandandosi quali siano stati i compiti che nella storia dell’Occidente la società ha affidato alla scuola, come questi abbiano influito sulla sua organizzazione e come la scuola sia stata rilevante per determinare le condizioni per lo sviluppo [13]
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{p. 40}
Note
[1] Piano nazionale di ripresa e resilienza, p. 183.
[2] «Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio». Cfr. G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo stato italiano, vol. II, Bari, Laterza, 1911, p. 311.
[3] A tale riguardo fondamentale è il contributo di Fernand Paul Achille Braudel, uno dei massimi storici del Novecento che ha studiato le civiltà e i cambiamenti a lungo termine attraverso le idee, in opposizione alla storia degli avvenimenti. In particolare sulle idee nelle trasformazioni sociali si veda J. Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino, Einaudi, 1982, p. 4: «Tale aldilà inventato non figurava nella Scrittura [...] È chiaro che la nascita di tale credenza è collegata a profonde modificazioni della società in cui si produce. Quali rapporti esistono fra la nuova visione dell’aldilà e le trasformazioni sociali, quali ne sono le funzioni ideologiche?».
[4] La Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) è un ente privato senza fini di lucro istituito il 2 dicembre 1946. La missione dell’Associazione è «industrializzare» il Mezzogiorno, cioè promuovere lo sviluppo con l’applicazione delle logiche industriali a tutti i settori dell’economia, servizi e turismo compresi.
[5] Si tratta dei tre grandi piani di investimento economico nel Meridione: vedi G. De Rita, Tre racconti, in Il lungo Mezzogiorno, Roma-Bari, Laterza, 2020, p. 4.
[6] Piano nazionale di ripresa e resilienza, p. 37.
[7] Per approfondire questa analisi vedi C. Borgomeo, L’equivoco del Sud. Sviluppo e coesione sociale, Roma-Bari, Laterza, 2013: «Al di là di interventi sbagliati, sprechi, incapacità, c’è stato un errore di fondo: condannare il Sud a inseguire il livello di reddito del Nord, a importare modelli estranei alla cultura e alle tradizioni e a sviluppare, di fatto, una dimensione politica di dipendenza».
[8] Piano nazionale di ripresa e resilienza, p. 37.
[9] Citazione di M. de Sante-Croix, ripresa da R. Musatti in La via del sud, Roma, Donzelli, 2013, p. 7.
[10] La definizione «province finite di significato» è di Alfred Schütz ripresa poi da tutta la «etnometodologia» che postula una radicale discontinuità e differenza fra la vita quotidiana delle persone e il mondo del razionale.
[11] Al centro dell’analisi delle teorie sulla modernizzazione vi è la dicotomia tradizionale-moderno. Mentre la società tradizionale è statica, lo sviluppo economico è dinamico e richiede rapidi mutamenti sociali che il più delle volte restano in superficie e non intaccano valori e tradizioni.
[12] Con il termine «capitale sociale» si intende generalmente il bagaglio relazionale e valoriale che un soggetto costruisce nel corso della propria esistenza in una comunità. Putnam definisce il capitale sociale come «l’insieme di quegli elementi dell’organizzazione sociale – come la fiducia, le norme condivise, le reti sociali – che possono migliorare l’efficienza della società nel suo insieme, nella misura in cui facilitano l’azione coordinata degli individui». Vedi R.D. Putnam, Capitale sociale e individualismo. Crisi e crescita della cultura civica in America, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 169.
[13] P. Bianchi, Nello specchio della scuola. Quale sviluppo per l’Italia, Bologna, Il Mulino, 2020, p. 56. Ibidem, p. 91: «[...] approcci convergono nel ritenere l’educazione, data dall’istruzione di base e dal successivo costante training educativo, l’elemento fondante della crescita e la base stessa della partecipazione democratica. Convergono anche nel ritenere che un paese che non investe in educazione e qualità delle strutture educative non solo si condanna a una bassa crescita, ma anche a una crescente disuguaglianza interna che a sua volta inciderà sulla qualità dello sviluppo e della democrazia, incidendo negativamente sulla formazione della persona e della comunità, sulle competenze necessarie allo sviluppo e infine sulla formazione e selezione della classe dirigente».