Giorgia Pavani, Stefania Profeti, Claudia Tubertini
Le città collaborative ed eco-sostenibili
DOI: 10.1401/9788815410221/c1
L’impegno delle città per la promozione e l’attuazione dei diritti umani si esplica sia sul piano organizzativo, sia su quello competenziale o su entrambi, come dimostra l’esempio di Barcellona, una delle prime città europee ad aver fatto propria la prospettiva dei diritti umani nelle politiche locali. Dall’inizio degli anni Novanta quando il Sindaco Maragall creò il Civil Rights Commissioner, divenuto poi Civil Rights Department (CRD) per affrontare il cambiamento della composizione razziale, etnica e religiosa della città a seguito delle nuove migrazioni, l’organizzazione dei servizi e dei dipartimenti si è ispirata ai valori delle Carte sui diritti umani (es. il CRD ha poi istituito l’ufficio per la non discriminazione e l’ufficio per gli affari religiosi) e più recentemente sono stati creati servizi per promuovere i diritti di alcune categorie di soggetti più deboli (donne e comunità LGBT) [30]
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Dal momento della sua sottoscrizione da parte delle autorità locali, la European Charter for the Safeguarding of Human Rights è stata incorporata nelle ordinanze locali.
La stretta collaborazione con il settore della ricerca ha portato la città di Graz ad adottare nel 2001, per la prima volta in Europa, una Human Rights Declaration nella quale si individuano una serie di lacune nella protezione dei diritti verso determinate categorie di soggetti. L’apporto dei tecnici è stato fondamentale per monitorare le politiche locali e misurarne gli effetti [31]
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La European Charter del 2000 ha poi ispirato lo United Cities and Local Governments nell’elaborazione della Global Charter-Agenda for Human Rights in the City nel 2011, la quale individua una serie minima di servizi agli abitanti, quali «equal access to drinking water and sanitation services», e di garanzie: «prohibits cuts in the supply of water for people in precarious situations» (art. XI(2)) e un «right to sustainable urban development» che consente di godere di una serie di risorse energetiche «within an ecologically sustainable city» (art. XII).
Il carattere innovativo della Global Charter-Agenda risiede nell’avere integrato l’elenco dei diritti con una serie di doveri in capo alle istituzioni locali e alcuni principi per responsabilizzare gli abitanti nel consumo di risorse naturali e di partecipazione alla vita della comunità. Il valore aggiunto è inoltre dato dal correlato Suggested Action Plan sviluppato alla fine di ogni articolo. Oltre a consentire ai governi locali di valutare periodicamente il livello di implementazione dei diritti sanciti nella Carta, questo programma di monitoraggio conferma il diverso approccio alla elaborazione di una Dichiarazione internazionale di diritti umani, in una prospettiva di partecipazione dal basso e di una sua attuazione plasmata sulle esigenze della comunità.{p. 24}
Se, da un lato, la sottoscrizione di una Carta internazionale dei diritti reca con sé l’adesione a un movimento culturale che riconosce il linguaggio dei diritti umani come una «lingua franca del pensiero morale globale» [32]
, proprio questa centralità strategica delle città – e la collaborazione con la rispettiva comunità – scongiura il rischio di una imposizione uniformizzante delle Carte e mitiga la vocazione universalistica dei diritti umani nel momento in cui vengono attuali a livello locale.
Le teorie del local activism e del participatory approach si coniugano dunque nel prisma del right to the city, grazie alla sua formula «magmatica e nebulosa, [che] si colloca in una zona di integrazione-scontro tra dimensione sociale e assetto istituzionale» [33]
. Entrambe le carte citate, oltre a riconoscere il right to the city [34]
, enfatizzano la partecipazione di tutti gli attori nelle questioni urbane. In questo contesto promozionale «le espressioni del diritto alla città […] si declinano anzitutto in chiave collaborativa rispetto alla cura istituzionale {p. 25}dell’interesse generale. Si rinviene qui un ganglio di giuntura tra diritti sociali e diritti politici: la partecipazione civica alla cura dei beni comuni diventa elemento ordinante della convivenza democratica locale» [35]
e l’amministrazione condivisa il paradigma teorico nel quale sviluppare vari strumenti di partecipazione (v. cap. 3).

2.2. Sharing city vs Co-city: due distinti approcci all’economia della condivisione [36]

Nella cornice teorica del right to the city stanno proliferando varie pratiche di collaborazione tra pubblica amministrazione, cittadini e altre organizzazioni e formazioni sociali che operano sul territorio. Queste pratiche si basano sulla logica della condivisione di beni e servizi e sulla dottrina dei beni comuni (v. cap. 2, § 1). Frequentemente esse sono agevolate dall’uso delle tecnologie digitali, talvolta sorgono come risposta all’impatto della sharing/collaborative economy sul contesto urbano [37]
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A dispetto di quanto teorizzato in un passato recente, infatti, l’impiego delle tecnologie digitali non ha reso la comunicazione e l’interazione a distanza più semplici ed economiche e non ha attenuato «l’esigenza, tipica di un’economia di tipo industriale, della prossimità fisica di persone e risorse {p. 26}per lo svolgimento dell’attività di produzione e di scambio di beni e servizi». Al contrario: in questi anni si è verificata «una radicale trasformazione dei rapporti economici che vede le città sempre più al centro. La nuova economia digitale – è la conclusione – è un fenomeno principalmente urbano» [38]
, fortemente in crescita, che impatta sulle città con modalità diverse, anche in base alla loro ubicazione e alle loro dimensioni [39]
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Le condizioni urbane rappresentano, infatti, una forma di «architettura nascosta dell’economia della condivisione»; a sua volta, la sharing economy è analizzata come un «agente di trasformazione urbana» e una «sfida di governance urbana» [40]
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Il superamento – o la declinazione, a seconda degli approcci dottrinali – del termine smart city in favore di sharing o collaborative city consente di riunire sotto un ampio cappello una molteplicità di esperienze urbane, favorevoli allo sviluppo dell’economia della condivisione; esse vanno dai tentativi di regolamentazione alla sperimentazione di politiche pubbliche che sfruttano le nuove tecnologie. Questo collegamento tra economia collaborativa e politiche urbane enfatizza la logica della condivisione e stempera la rappresentazione della sharing economy unicamente nelle varianti Business-to-Business (B2B), tra aziende per lo scambio di servizi o informazioni, e Peer-to-Peer (P2P), tra singoli individui, che avvengono senza un coinvolgimento – almeno diretto – di soggetti istituzionali. Le amministrazioni locali possono comunque decidere di intervenire con politiche di supporto e di promozione nei confronti di iniziative di questo tipo.
Le distinzioni analitiche, proposte dalla dottrina, tra sha
ring transazionale
vs sharing trasformazionale [41]
e tra commercial sharing vs communal sharing [42]
, hanno preparato il terreno per alcune proposte classificatorie sulle città. In Italia, l’avanzamento più significativo nella (nuova) tassonomia è attribui- bile a Christian Iaione, il quale enfatizza il passaggio dallo sharing al pooling, e distingue tra sharing city e co-city [43]
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Si tratta di una classificazione a maglie larghe, che lascia filtrare elementi di un modello come dell’altro, e dà conto delle evoluzioni delle città che nascono sotto una classe e si avvicinano poi a un’altra (es. Milano nasce come caso italiano di sharing city – quasi in contrapposizione a Bologna, esempio di cooperazione – e sviluppa poi tutte le caratteristiche della co-city).
Nel modello sharing city i governi locali agiscono come sostenitori e facilitatori dei soggetti (singoli o organizzazioni) che operano nel campo della sharing economy per promuovere pratiche innovative nel tessuto economico urbano. La sharing city trae linfa dall’analisi empirica; si caratterizza per la spontaneità delle proposte innovative delle città che vengono studiate con un approccio bottom-up. Nella variante sharing, le città possono promuovere forme di dialogo con le piattaforme che offrono servizi individuali, tipica espressione della c.d. gig economy, o di mediazione tra queste e i rappresentanti di parti sociali (come dimostrano i casi Airbnb e Uber, le cui attività hanno un impatto significativo sulla pianificazione urbanistica e sulla regolazione dei trasporti locali di molte
{p. 28}grandi città, vista la diffusione del fenomeno noto come urban touristification). In questi casi, le amministrazioni pubbliche locali tendono a evitare l’uso di strumenti coercitivi e agiscono facendo leva sulla cooperazione tra i diversi attori (principalmente privati), stimolando il rispetto dei principi di solidarietà e di trasparenza dell’attività delle piattaforme, senza intervenire direttamente sul piano della regolazione normativa (es. la Carta dei diritti fondamentali del lavoro nel contesto urbano, promossa dal Comune di Bologna, § 3.2).
Note
[30] M. Grigolo, Building the “city of rights”: The human rights policy of Barcelona, 2011, reperibile nella pagina web dell’autore http://www.michele-grigolo.com.
[31] Si vedano i reports e le pubblicazioni segnalate sul sito del European Training and Research Centre for Human Rights and Democracy dell’Università di Graz (https://trainingszentrum-menschenrechte.uni-graz.at/en/).
[32] M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, in M. Ignatieff e A. Gutmann, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton-New Jersey, Princeton University Press, 2001, p. 53.
[33] F. Pizzolato, Città e diritti fondamentali: le ambivalenze della politicità dei diritti, in «Istituzioni del Federalismo», n. 1/2022, p. 178.
[34] Forse grazie alla sua vaghezza il right to the city si è fatto strada in molti strumenti di soft law, a iniziare dalla World Charter for the Right to the City, siglata durante il World Social Forum under the auspices of the UN di Porto Alegre nel 2005, il cui art. 1, c. 2 recita: «The Right to the City is defined as the equitable usufruct of cities within the principles of sustainability, democracy, equity, and social justice. It is the collective right of the inhabitants of cities, in particular of the vulnerable and marginalized groups, that confers upon them legitimacy of action and organization, based on their uses and customs, with the objective to achieve full exercise of the right to free self-determination and an adequate standard of living». Anche la European Charter for the Safeguarding of Human Rights in the City, all’art. I lo prevede: «The city is a collective space belonging to all who live in it. These have the right to conditions which allow their own political, social and ecological development but at the same time accepting a commitment to solidarity»; norma da leggere assieme all’art. V Duty of Solidarity «The local community is united by an obligation to mutual solidarity, which is supported by the local authorities. The latter are engaged in promoting the development and quality of public services». Il right to the city è riconosciuto anche dall’art. I della Global Charter-Agenda for Human Rights in the City.
[35] Pizzolato, Città e diritti fondamentali, cit., 180.
[36] Il tema è stato da me approfondito in G. Pavani, European Sharing and Collaborative Cities: The Italian Way, in «European Public Law», n. 1/2022, pp. 82 ss.
[37] In questa sede adottiamo la definizione stipulativa fornita dalla Commissione europea: «l’espressione “economia collaborativa” si riferisce ai modelli imprenditoriali in cui le attività sono facilitate da piattaforme di collaborazione che creano un mercato aperto per l’uso temporaneo di beni o servizi spesso forniti da privati». Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni. Un’agenda europea per l’economia collaborativa (COM/2016/0356). La stessa Commissione precisa il carattere intercambiabile con l’espressione: «“economia della condivisione” (sharing economy). L’economia collaborativa è un fenomeno in rapida evoluzione e la sua definizione può evolvere di conseguenza».
[38] G. Smorto, Autonomie locali e politiche pubbliche per l’economia digitale, in «Istituzioni del Federalismo», n. 4/2019, p. 892, con riferimento alla tesi espressa, tra gli altri, da W.G. Flanagan, Urban Sociology: Images and Structure, Lanham, Rowman & Littlefield Publisher, 2010, pp. 378 ss.
[39] Vari approcci al fenomeno sono analizzati in N.M. Davidson, M. Finck e J.J. Infranca (a cura di), The Cambridge Handbook of The Law of the Sharing Economy, Cambridge, CUP, 2018.
[40] N.M. Davidson e J.J. Infranca, The Sharing Economy as an Urban Phenomenon, in «Yale Law & Policy Review», n. 2/2016, pp. 215-279.
[41] Proposte dal fondatore di Shareable Neal Gorenflo in un’intervista reperibile su http://collaboriamo.org: nella sharing transazionale prevale lo scambio (economico), «si rinforzano le sperequazioni sociali già esistenti e si basano su relazioni sociali scarse ed effimere», mentre nella sharing trasformazionale prevale la logica della condivisione, con pratiche improntate alla collaborazione e alla cooperazione: «le imprese così costruite hanno l’obiettivo di produrre benefici per la collettività: la stessa impresa, infatti, è una comunità».
[42] Proposte da D. McLaren e J. Agyeman, Sharing Cities. A Case for Truly Smart and Sustainable Cities, Boston, MIT Press, 2015.
[43] C. Iaione, Le politiche pubbliche al tempo della sharing economy: nell’età della condivisione il paradigma del cambiamento è la collaborazione, in E. Polizzi e M. Bassoli (a cura di), Le politiche della condivisione. La sharing economy incontra il pubblico, Milano, Giuffrè, 2016, pp. 35 ss.