Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c1
Le disposizioni della legge n. 242 subirono una serie di correzioni e mutilazioni che ridussero di gran lunga la sua
{p. 21} portata innovativa: anzitutto il senato provvide ad introdurre le norme transitorie che dilazionavano l’attuazione di alcuni articoli; poi intervenne il consiglio superiore dell’industria e commercio, approvando un regolamento che limitava ulteriormente la sfera di applicazione della legge; il 1° luglio 1903 venne infine emessa una circolare ministeriale che, accogliendo le richieste degli industriali, ammetteva numerose deroghe al regime dei divieti e al congedo di maternità [47]
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La tendenza a restringere la portata (già modesta) della legge venne assecondata, pure con qualche incertezza, dalla giurisprudenza della Cassazione di Roma. In primo luogo merita di essere segnalata la propensione di questa corte a limitare la responsabilità penale derivante dalla violazione dei limiti posti dalla legge per l’assunzione ed utilizzazione delle donne e dei fanciulli [48]
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Lo stesso atteggiamento di favore verso gli industriali (e i datori di lavoro, più in generale) la corte mostrò nella definizione del campo di applicazione della legge n. 242 del 1902. Benché, come ho ricordato, l’art. 1 reg. 29 luglio 1903 definisse «opificio o laboratorio» ogni luogo ove lavorassero più di cinque operai di qualsiasi sesso ed età, la corte riteneva applicabile la legge solo quando l’opificio o laboratorio avesse natura «industriale»: natura che doveva dedursi non dal numero degli addetti ‒ come richiesto dal regolamento ‒ ma dall’importanza dell’opificio o laboratorio, ovvero dei mezzi impiegati o dell’attività in esso svolta [49]
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Ancora in tema di campo di applicazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, per segnalare l’obiettivo sostegno che la magistratura forniva agli interessi industriali, debbono essere ricordate le oscillazioni della giurisprudenza nel distinguere fra attività intellettuali e attività manuali (alle quali ultime, esclusivamente, si riferiva la legge protettiva). Il caso più interessante ‒ anche per le rilevanti conseguenze pratiche ‒ sui cui intervenne il supremo collegio era quello delle telefoniste [50]
, cui toccò di essere definite come lavoratrici «prevalentemente intellettuali»: a dispetto della obiettiva qualità delle mansioni, e della consistenza dei salari, certo più vicini a quelli operai che a quelli impiegatizi [51]
.{p. 22}

3. Criteri ispiratori della legge protettiva.

La legge del 1902 ‒ esempio significativo della legislazione sociale dell’età giolittiana ‒ unificava in una disciplina di tipo igienico-sanitario, o di «protezione dal lavoro» (inteso ancora come eccesso di sfruttamento), la tutela delle donne e dei fanciulli. Nell’intenzione del legislatore (per come la si può ricostruire dalle dichiarazioni dei parlamentari del tempo), la tutela che la legge accordava alle donne lavoratrici aveva, però, una sua funzione specifica, essendo la protezione delle donne dal lavoro essenzialmente diretta a salvaguardare la loro capacità di procreazione [52]
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«Il fine è di evitare che le donne minorenni si infiacchiscano e diano al paese generazioni deboli e infelici», dato che «la donna debole procrea uomini deboli [...]. Non vi sono diritti acquisiti di fronte all’utile generale, alla salute pubblica, alla suprema legge di rinvigorire la pianta-uomo: perché fare questa concessione che, togliendo il necessario riposo a tante giovinette, conduce a metterle fra le irregolari della funzione di quegli organi che sono necessari alla maternità?» [53]
. Ma si aggiungeva subito ‒ a scanso di equivoci e per evitare preoccupazioni sulle reali intenzioni del governo ‒ «le disposizioni del nuovo disegno di legge rispondono alla necessità di tutelare la salute delle donne occupate nell’industria [...] ma tengono anche il dovuto conto delle condizioni dell’industria, al fine di non incepparne lo svolgimento con restrizioni eccessive». E, lo abbiamo già detto, le industrie avevano ancora più interesse all’uso della manodopera femminile che non alla riduzione della percentuale di donne occupate (specie operaie maritate), quale sarebbe stata incentivata da rigorose restrizioni legislative (di utilizzazione e di orario) o da aggravi economici (eventuale assegno di maternità).
Per quanto il periodo dello sfruttamento intensivo del lavoro femminile e minorile stesse lentamente avviandosi alla conclusione [54]
, la scarsa capacità protettiva della legge era espressione di una politica legislativa che non usava ancora la «tutela della donna-madre» come strumento per disincentivare l’occupazione extra-domestica delle donne. Tuttavia,{p. 23} nella definizione che il governo dava del significato della legge, si riflettevano idee allora diffuse: che le donne fossero naturalmente inferiori; che la maternità fosse la loro unica funzione sociale. Idee che erano alla base dell’atteggiamento di generale sfavore con cui la borghesia italiana guardava al lavoro femminile extra-domestico [55]
: preoccupandosi certo molto più di tenere in casa le donne borghesi, che non di cacciare le proletarie dalle fabbriche, ma oggettivamente contribuendo ad alimentare gli antagonismi e le fratture che, in tema di lavoro femminile, dividevano la classe operaia.
«La stampa socialista e le organizzazioni operaie accolsero con un senso di delusione e di amarezza l’approvazione della legge», scrive Oriella Antozzi [56]
, ma aggiunge: «la campagna per la legge sul lavoro delle donne ebbe comunque una funzione di rilievo nello sviluppo del movimento operaio e del PSI». Che cosa abbia rappresentato nel mondo politico di quegli anni la campagna socialista (legata al nome della Kuliscioff) per la legge sul lavoro delle donne, e come si sia svolta, e fra quali contrasti, lo ha detto con grande chiarezza Franca Pieroni Bortolotti [57]
, alle cui pagine può quindi farsi rinvio.
Basterà qui richiamare l’attenzione su quegli aspetti della campagna, che si rivelano utili per il confronto fra due modelli ‒ diversi, ma non lontani tra loro ‒ di politica del diritto: quello giolittiano, espresso dalla legge Carcano, e quello socialista. Fra i socialisti, l’iniziativa per la legge sul lavoro femminile era maturata lentamente. L’inizio ufficiale della campagna fu segnato dal congresso socialista di Bologna del 1897. Le ragioni della lentezza, con cui il partito si era deciso ad inserire l’argomento nella propria piattaforma politica, erano molteplici. Anzitutto si doveva tenere conto della persistenza, nei sindacati, di un atteggiamento ostile all’occupazione delle donne in fabbrica: nelle categorie maschili, per ragioni di concorrenza; nelle categorie a prevalente manodopera femminile, perché le operaie, sulle cui spalle gravavano lavoro domestico e lavoro in fabbrica, ritenevano ancora desiderabile non essere costrette a lavorare fuori casa. Più ancora, induceva alla cautela la considerazione che{p. 24} promuovere un miglioramento nelle condizioni di vita delle lavoratrici poteva significare promuovere la riduzione dell’occupazione femminile nelle fabbriche: e i socialisti italiani combattevano le posizioni dei conservatori e dei cattolici, favorevoli all’esclusione delle donne dalle fabbriche, riconoscendo all’inserimento nella produzione il valore di un insostituibile strumento di emancipazione [58]
. I socialisti, tuttavia, non condividevano l’intransigenza paritaria delle femministe (si ricordi la polemica fra Anna Kuliscioff e Anna Maria Mozzoni sulle colonne dell’«Avanti» [59]
) e del partito operaio italiano (ostile alla legislazione sociale, considerata un mezzo per escludere le donne dalle attività civili e dal lavoro qualificato); i socialisti collocavano invece il proprio intervento sulla «questione femminile» in una posizione intermedia tra emancipazione e valorizzazione dei ruoli tradizionali [60]
.
Una volta superate le primitive incertezze sull’efficacia di una legislazione che non fosse il frutto delle pressioni del movimento operaio organizzato; una volta convertitosi il partito all’obiettivo della legislazione sociale, nasceva, dalla posizione assunta sulla questione femminile, la necessità di elaborare una proposta di legge sul lavoro delle donne, capace di «inalveare entro i limiti delle riforme l’antica istanza dell’emancipazione, in modo che si chiudesse l’inquietante discorso sul rapporto tra lavoro domestico e lavoro industriale» [61]
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Nella proposta di legge [62]
, centro di interesse diveniva la lavoratrice-madre [63]
: il legame istituito tra fabbrica e famiglia, con la richiesta del salario (nella misura del 50%) per le lavoratrici in congedo di maternità, doveva servire a risolvere le perplessità suscitate dalla lotta per la legislazione sociale. Altri elementi, caratterizzanti la proposta di legge socialista, sottolineavano l’emergere della figura della «madre» come protagonista della nuova legislazione sul lavoro delle donne, e chiarivano il senso del tentativo di ricomporre, nella legge, il rapporto lavoro-famiglia. Mi riferisco, soprattutto, all’estensione della legge protettiva, che avrebbe dovuto coprire, oltre alle officine industriali, «ogni lavoro salariato industriale, commerciale o agricolo»; mi riferisco all’orario settimanale di quarantotto ore (con orario normale di otto{p. 25} ore giornaliere), disposto al fine di ottenere che la donna fosse libera il sabato alle 15, e potesse così «accudire il sabato alle settimanali faccende domestiche», assicurandosi un effettivo riposo domenicale. Non veniva richiesta invece la sanzione della parità salariale a parità di lavoro; sanzione giudicata intempestiva e inopportuna, poiché avrebbe sortito l’effetto di abbassare i salari maschili.
Al di là della questione del lavoro notturno, che ancora dominava ‒ come reale centro di interesse ‒ la legge del 1902, si può dire che, da quel poco che la legge Carcano recepiva della proposta socialista, e dalla mediazione tra proposta socialista e interessi industriali (complessivamente non favorevoli, in quel momento, ad una disciplina rigorosamente limitativa del lavoro femminile), usciva individuata una linea di politica legislativa sul lavoro delle donne che, con qualche correzione, doveva durare nel tempo.
Questa linea può essere riassunta in tre punti.
1) Il lavoro delle donne e dei fanciulli veniva accomunato in una legge protettiva di tipo sanitario (consistente, cioè, in una serie di divieti, di restrizioni, di controlli sulla persona), emanata in nome dell’interesse della nazione alla tutela della salute. In altri termini, la regolamentazione legislativa della materia era sostenuta non dalla opportunità di colpire lo sfruttamento delle donne e dei minori, ma dalla necessità di salvaguardare la «razza» (intesa ancora come stirpe nazionale) dai danni fisici e morali prodotti dal lavoro industriale. Il carattere sanitario della legge trovava conferma: a) nell’assenza di disposizioni (fatta eccezione per il controllo sul compimento delle scuole elementari inferiori) relative all’istruzione e alla formazione professionale di questa manodopera di età minore e/o non qualificata; b) nelle norme relative al libretto di lavoro [64]
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2) La protezione specifica delle donne era limitata al momento della maternità, e nella protezione assumeva carattere esclusivo la garanzia del congedo (per puerperio), non quella del salario. La coincidenza tra momento e strumento della tutela accentuava, nella legge, il collegamento tra lavoro e famiglia. La previsione del congedo (non retribuito) esprimeva non un embrionale riconoscimento del va
{p. 26}lore sociale della maternità, ma un giudizio sulla preminenza del ruolo familiare della donna. Ho detto sopra che la legge Carcano, per la sua scarsa capacità protettiva, non utilizzava la tutela dell’operaia-madre come strumento per disincentivare l’occupazione femminile nell’industria; tuttavia la preminenza assegnata al ruolo familiare della donna avrebbe giustificato preventivamente (in termini di ritorno alla famiglia) l’espulsione delle donne dalla produzione, quando, successivamente, le modificazioni dell’organizzazione industriale avrebbero cominciato a spingere le donne verso l’occupazione marginale: come bene avevano intuito gli operaisti, che rifiutavano una legislazione specifica sulle donne [65]
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Note
[47] Fra i primi commenti alla legge del 1902: G. Farraggiana, Il lavoro delle donne e dei fanciulli: commento alla legge 19 giugno 1902, con richiami di giurisprudenza, Empoli, 1904; E. Noseda, Il lavoro delle donne e dei fanciulli: nuova legge regolamento 19 giugno 1902, 18 febbraio 1903. Testo, atti parlamentari e commento, Milano, 1903; G. Forcellini, Di alcuni casi di applicazione della legge e del regolamento sul lavoro delle donne e dei fanciulli (in udienza e fuori): appunti, Imola, 1908.
[48] La giurisprudenza delle corti di cassazione si era largamente occupata del problema della responsabilità penale derivante dalle trasgressioni alla legge. Sulla questione di maggior interesse (l’unità o pluralità delle contravvenzioni) si confrontavano due orientamenti. Per il primo, conforme alla lettera dell’art. 13 L. n. 242 (che stabiliva l’ammenda di lire 5 per ognuno degli operai per i quali risultasse violata la legge), l’industriale era responsabile di tante contravvenzioni quante erano le persone indebitamente impiegate (così Cass. Roma, 21 ottobre 1905, in «Foro italiano», 1905, II, c. 528; Cass. Roma, 7 marzo 1902, ivi, Repertorio, 1902, voce «Lavoro dei fanciulli», n. 11; Cass. Roma, 2 dicembre 1897, ivi, 1898, II, c. 168: le due ultime sentenze cit. si riferivano alla legge del 1886, rispetto alla quale il problema della responsabilità penale per violazione si poneva negli stessi termini; in dottrina, conf., F. Noseda, Il lavoro delle donne e dei fanciulli, cit., p. 165). Secondo l’orientamento contrario ‒ più recente ‒ (Cass. Roma, 2 maggio 1904, in «Foro italiano», 1904, II, c. 378; Cass. Roma, 24 agosto 1909, ivi, 1910, II, c. 5), qualunque fosse il numero degli operai irregolarmente occupati nel lavoro, colui che li avesse impiegati commetteva un’unica contravvenzione. C’è da notare che, ancora ad avviso della Cass. Roma (17 novembre 1920, ivi, Repertorio, 1921, voce «Lavoro donne e fanciulli», nn. 2-3) il responsabile poteva essere considerato il direttore, anziché il padrone, qualora provvedesse all’assunzione degli operai. Ma, si precisava (Cass. Roma, 25 febbraio 1913, ivi, 1913, II, c. 177), cadeva in contravvenzione l’industriale che ammettesse al lavoro fanciulli non aventi l’età richiesta dalla legge, anche se «indotto in errore dagli stessi fanciulli».
[49] Posto che, come aveva affermato la Cass. Roma (23 gennaio 1908, in «Foro italiano», 1908, II, c. 156), l’obbligo di denunciare l’impiego dei fanciulli negli opifici e laboratori in cui si faceva uso di macchine sussisteva anche quando le macchine fossero mosse da motore animale (nella specie: il cavallo) anziché meccanico, la discussione era aperta sulla natura di opifici o laboratori dei luoghi di lavoro nei quali non fossero usati i motori, ma fossero presenti (e occupati) più di 5 operai. Un caso ricorrente nella giurisprudenza è quello della lavanderia alla quale, dopo l’iniziale esclusione dal campo di applicazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli (Cass. Roma, 2 maggio 1908, ivi, 1908, II, c. 351), venne finalmente riconosciuto il carattere di laboratorio: ma solo a patto che risultasse dimostrata la «natura industriale» (Cass. Regno, 30 gennaio 1931, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1931, p. 487; Cass. Regno, 16 marzo 1931, in «Foro italiano», 1931, II, c. 179). Più rigorosa la giurisprudenza sul computo degli operai addetti all’opificio o laboratorio: secondo la Cass. Roma, 4 maggio 1911, in «Foro italiano», 1911, II, c. 374 (annotata da M. Cevolotto, L’interpretazione delle parole «opificio industriale» e «laboratorio» nell’art. 1 legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, in «Rivista di diritto processuale penale», 1911, p. 449), doveva considerarsi opificio ogni luogo ove fossero occupati più di 5 operai, anche se quelli oltre detto numero fossero stati assunti in via straordinaria. La stessa Cass. Roma, 22 febbraio 1912, in «Foro italiano», Repertorio, 1912, voce «Lavoro donne e fanciulli», n. 2 (annotata da A. Lavagna, Una questione nuova sull’applicazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, in «Progresso criminale», 1912, p. 302), aveva affermato che, per il computo del numero degli operai, doveva tenersi conto anche del proprietario e delle persone della sua famiglia. Molto più tardi la Cass. (ormai del regno) mutò sostanzialmente opinione: nella sentenza 16 marzo 1931, in «Foro italiano», 1931, III, c. 179, la Cass. affermò infatti che i familiari alle dipendenze di un capo famiglia (e capo dell’azienda) potevano attendere al lavoro notturno, e in genere ai lavori che sarebbero stati vietati per sesso e per età. Ancora in ordine al campo di applicazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, può essere segnalata una testimonianza della lunga tradizione che caratterizza la specializzazione dell’industria tessile pratese: Pret. Prato, 19 marzo 1914, ivi, Repertorio, 1914, voce «Lavoro donne e fanciulli», nn. 5-6, secondo cui le fabbriche di «lana meccanica che si ricava dalla carbonizzazione dei cenci» non dovevano farsi rientrare tra le industrie insalubri e pericolose (quali erano invece considerati i «magazzini di cernita» dal regolamento 14giugno 1909).
[50] La questione aveva notevole rilevanza. In primo luogo perché, per applicare la legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, occorreva definire i servizi telefonici come «opifici industriali»: e vi era chi distingueva tra i servizi telefonici esercitati dai privati, ai quali si sarebbe dovuto riconoscere il carattere industriale, e servizi esercitati dallo stato, che tale carattere non avrebbero avuto (così G. Meloni, Sul carattere industriale dei servizi telefonici, in «Giustizia penale», fasc. 23 gennaio 1915, p. 93). In secondo luogo, perché il problema dell’applicazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, oltre che riguardare (eventualmente) lo stato-datore di lavoro, coinvolgeva un numero elevato di lavoratrici. Si pensi che, già nel 1901, le telefoniste e telegrafiste erano 3.000: il dato, fornito dal censimento del 1901, è riportato da S. Puccini, Condizione della donna e questione femminile, cit., p. 24.
[51] Così Cass. Roma, 28 novembre 1914, in «Foro italiano», 1915, II, c. 159. La stessa Cass. Roma si era però pronunciata più volte in senso contrario: Cass. Roma, 4 novembre 1905, ivi, 1906, II, c. 87; Cass. Roma, 7 dicembre 1914, ivi, 1915, II, c. 161. Dell’opinione che le telefoniste svolgessero lavoro manuale e che, pertanto, dovesse essere loro applicata la legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli era anche Ratto, Le telegrafiste e telefoniste dipendenti dallo stato o concessionari possono invocare il riposo settimanale, in «Legge», 1906, p. 154.
[52] Cfr. S. Puccini, Condizione della donna e questione femminile, cit., pp. 16-17. L’a. mette bene in evidenza come le denunce della stessa stampa di sinistra (specialmente i numerosi interventi pubblicati in quegli anni da «Critica sociale») si riferissero più alla degradazione fisica delle lavoratrici, che alle negative conseguenze del lavoro industriale sulla sanità della stirpe. «Si mettevano in risalto i rischi delle malformazioni congenite nei feti, la sterilità e l’alto tasso di abortività che per molte donne erano frutto ed eredità dolorosa della vita d’opificio» (op. cit., p. 17).
[53] Questi ed altri passi, tratti dagli atti parlamentari, sono riportati da M. Natoli, Dall’incapacità giuridica al nuovo diritto di famiglia, in Aa. Vv., La donna e il diritto, Roma, 1976, pp. 20 seg.
[54] La percentuale delle donne rispetto al totale dei salariati doveva drasticamente ridursi nel giro di pochi anni: dal censimento del 1911 risulterà pari al 23% (contro il 54% del 1903); ma negli anni che ci interessano l’occupazione femminile era ancora molto elevata: cfr. i dati forniti da S. Merli, Proletariato di fabbrica, I, cit., pp. 86 seg.
[55] V. le pagine dedicate da S. Puccini, op. cit., pp. 35 seg., al libro di G. Gambarotta, Inchiesta sulla donna, Torino, 1899, recensito da M. Pilo, su «Critica sociale», nel 1899. Il libro di Gambarotta fornisce una serie di testimonianze di illustri esponenti della cultura italiana (da Loria, a Niceforo, a Ojetti, a Pantaloni) sulla questione dei diritti politici e del lavoro produttivo delle donne: ne risulta il quadro sconfortante di un diffuso, radicato e irragionevole pregiudizio antifemminile degli intellettuali «progressisti». Sul libro di Gambarotta v. anche P. Meldini, Sposa e madre esemplare. Ideologia e politica della donna e della famiglia durante il fascismo, Firenze, 1975, pp. 27 seg.
[56] I socialisti e la legislazione sul lavoro, cit., p. 313.
[57] Nelle opere cit. retro, nota 45, e in Osservazioni sulla storia del femminismo nell’età moderna, in «Movimento operaio e socialista», ottobre- dicembre 1976, pp. 319 seg.
[58] La tesi venne sviluppata, con dovizia di argomenti, da A. Kuliscioff nella conferenza Il monopolio dell’uomo, in «Critica sociale», 1890 (ripubblicata ora in A. Kuliscioff, Immagini, scritti, testimonianze, a cura di F. Damiani e F. Rodriguez, prefazione di F. Pieroni Bortolotti, Milano, 1978, Appendice).
[59] Nell’articolo In nome della libertà della donna. Laissez faire, laissez passer!, in «Avanti», anno II, n. 447, Roma, 19 marzo 1898 (ora ripubblicato in A. Kuliscioff, Immagini, scritti, testimonianze, cit., pp. 89 seg.), la Kuliscioff replicava alle critiche che A. M. Mozzoni aveva portato all’iniziativa socialista per la legislazione protettiva; critiche motivate dalla preoccupazione che la legge sulle lavoratrici potesse provocare l’immediato licenziamento delle donne occupate nell’industria, per confinarle di nuovo al focolare domestico ed alla schiavitù familiare e sociale. Così concludeva la Kuliscioff: «i socialisti invocano l’intervento dello stato per la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, perché è la riforma più urgente, non solo per coloro che più direttamente protegge, ma per tutta la classe lavoratrice. Non si tratta soltanto di una questione di pietà o di igiene sociale, ma dell’arma indispensabile al proletariato di ambedue i sessi nella lotta di classe che esso è costretto a sostenere [...]. Finché duri un così spietato sfruttamento della forza-lavoro delle donne e dei fanciulli, il proletariato italiano non potrà liberarsi della profonda miseria che lo affligge, né cessare di essere un proletariato di cenciosi».
[60] F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., pp. 58 seg. Afferma l’a. che gli errori commessi dalla Kuliscioff furono essenzialmente quello di ritenere «inutile, dopo la fondazione del partito di classe, un movimento democratico delle donne per la loro liberazione, che andasse oltre appunto il confine di classe; e di affidare alla legge sulle lavoratrici madri la funzione di raccordo ideale per l’emancipazione delle operaie [...]. Ma non si trattò di un limite personale: gran parte del socialismo, sul piano europeo, tra il 1889 e il 1914, accogliendo il principio di per sé validissimo della legislazione sociale, accolse anche quello, assai meno valido, di “tutelare” [...] la maternità, piuttosto intralciando che potenziando, come era pur sua intenzione, il lavoro e la lotta delle donne» (F. Pieroni Bortolotti, prefazione ad A. Kuliscioff, Immagini, scritti, testimonianze, cit., p. 6).
[61] F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., p. 65.
[62] All’elaborazione della proposta socialista avevano dato il loro contributo le camere del lavoro federate; si può ricordare che la mozione conclusiva del III congresso delle camere del lavoro (Milano, luglio 1900) aveva registrato i punti di dissenso esistenti fra le proposte contenute nella relazione di Ersilia Majno Bronzini e le proposte della camera del lavoro di Monza (fra le prime a sostenere l’iniziativa di A. Kuliscioff), accogliendo le seconde, indubbiamente più arretrate. Gli atti del congresso sono riportati da S. Merli, Proletariato di fabbrica, cit., vol. II, Documenti, pp. 786 seg. Sulla figura e sul ruolo di Ersilia Majno, presidente dell’unione femminile nazionale, v. F. Pieroni Bortolotti, op. ult. cit., pp. 25, 82, 120.
[63] La questione del valore sociale della maternità, scarsamente approfondita dai socialisti, sarà affrontata più tardi dai comunisti italiani, con un’impostazione che riecheggiava da vicino il pensiero di Lenin (I compiti del movimento operaio femminile della repubblica dei soviet. Discorso pronunciato alla IV conferenza degli operai senza partito di Mosca, in «Pravda», n° 213, 25 settembre 1919). Se ne occupò specialmente la «Tribuna delle donne», rubrica settimanale, diretta da Camilla Ravera, che 1’«Ordine nuovo» dedicava ai problemi della condizione femminile.
[64] Le disposizioni sul libretto di lavoro (introdotte nella legge 19 giugno 1902, n. 242, poi ricomprese, insieme alla legge 7 luglio 1907, n. 416, nel T.U. sul lavoro delle donne e dei fanciulli, 10 novembre 1907, n. 818), da applicarsi alle donne minorenni e ai fanciulli fino a 15 anni, assegnavano al documento (accompagnato da un certificato medico rilasciato gratuitamente dall’ufficiale sanitario del comune, e completo dei dati anagrafici) la funzione di attestare che le donne e i fanciulli fossero sani e adatti al lavoro cui erano destinati, che avessero frequentato il corso elementare inferiore. I datori di lavoro tenuti all’applicazione della legge n. 242/1902 non potevano assumere donne minorenni e fanciulli al di sotto dei 15 anni sprovvisti di libretto di lavoro; ove impiegassero donne di qualsiasi età e fanciulli (minori di 15 anni) dovevano inoltre farne ogni anno regolare denuncia. Quando ancora era in discussione la prima legge sul lavoro dei fanciulli (retro, par. I), si era pronunciato a favore dell’istituzione del libretto di lavoro S. Bonomi, Osservazioni sul progetto di legge riguardante il lavoro dei fanciulli, in «Annali universali di medicina», 1879, pp. 8 seg., sostenendo che l’obbligo della denunzia aveva «un non so che di fiscale da ripugnar troppo alle abitudini dei capi-fabbrica, che la eseguiranno di mala voglia e quindi colle maggiori possibili irregolarità». Sulla contravvenzione per omessa denuncia. v la giurisprudenza cit. retro, nota 48
[65] Queste posizioni, espresse con vigore da A. M. Mozzoni (cfr. nell’antologia La liberazione della donna, cit., le pp. 83 seg., 201 seg.), erano proprie del sindacalismo rivoluzionario: G. Are, Economia e politica nell’Italia liberale 11890-1915), Bologna, 1974. p. 116.