Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c1
Certo, se è vero che primo effetto dell’uso capitalistico delle macchine è quello di accaparrarsi il lavoro delle donne e dei bambini non come lavoro accessorio, bensì come lavoro sostitutivo di quello dei maschi adulti, i grossi industriali non aveva tardato a capire che la speculazione sui minori e sulle donne era una delle cause, e non ultime, della capacità di resistenza sul mercato dei piccoli produttori e della concorrenza che questi potevano fare alle macchine. Essi avevano capito ciò al punto di «fingere di trasformarsi in umanitari e proporre una regolamentazione che togliesse al piccolo industriale quest’ultima trincea di resistenza» [25]
. La logica della concentrazione di capitale avrebbe potuto favorire, come era avvenuto in altri paesi (specialmente in Inghilterra, fra il 1802 e il 1874) il sorgere di una legislazione sulle fabbriche. Lo sviluppo industriale italiano doveva però compiersi in una fase particolarmente difficile a livello internazionale: la crisi del 1873, la lunga depressione che ne segui, durando fino al 1896. L’unico vantaggio che l’industria italiana ‒
{p. 16}tecnologicamente arretrata ‒ aveva rispetto alla concorrenza estera era la possibilità di sfruttare illimitatamente (in assenza di legislazione sociale) la forza lavoro. È noto, del resto, che le maggiori industrie italiane (soprattutto le tessili [26]
che più largamente usavano il lavoro delle donne e dei fanciulli) fronteggiavano la concorrenza senza ricorrere al rinnovamento dei macchinari (reso difficile dallo scarso afflusso di capitali all’industria e dall’alto costo dei macchinari e del combustibile), ma tenendo bassi i salari. Il basso costo della manodopera rappresentava l’unico fattore di stabilità per un’industria costretta ad operare in un mercato non garantito contro le merci straniere [27]
.
La pratica del sottosalario [28]
si realizzava prevalentemente attraverso lo sfruttamento del lavoro minorile e femminile e attraverso la protrazione dell’orario di lavoro. Per i fanciulli (o meglio le fanciulle, che erano la quasi totalità dei bambini occupati) adibiti ad un lavoro sostitutivo di quello dei maschi adulti, o ad un lavoro integrativo e coordinato a quello degli adulti nelle industrie metallurgiche, nelle cave e nelle miniere, l’età media di ammissione al lavoro si aggirava fra i cinque e i sette anni. Le donne pagavano anche quantitativamente un alto tributo al capitalismo industriale: nell’industria della seta, nel 1876, gli operai maschi adulti erano il 7,8% degli occupati, mentre il 60,2% era costituito da donne e il 32% da bambine [29]
; nella più giovane industria del cotone, alla stessa data, le donne adulte raggiungevano il 50%. La percentuale del lavoro femminile era destinata a salire, anche in conseguenza della relativa diminuzione del lavoro infantile: ancora nel 1907, nonostante che il lavoro delle donne avesse trovato una prima, limitata, disciplina legislativa (infra, par. 4), il 53,46% degli addetti all’industria era costituita da donne: nell’industria tessile le donne erano, a quella data, il 78,51%.
Le ragioni della preferenza accordata al lavoro femminile erano politiche ed economiche. In generale, le donne erano pagate meno (il massimo del salario femminile non raggiungeva il minimo ‒ pure bassissimo ‒ del salario maschile), dato che il salario delle donne, ancorché indispensabile alla sussistenza della famiglia, era complementare a{p. 17} quello maschile o integrativo del reddito agricolo della famiglia. Le donne, poi, erano considerate elementi più tranquilli, perché ricorrevano più raramente allo sciopero: non facevano il «lunedì», cioè non erano coinvolte in quel tipo di assenteismo che era «l’unica arma di protesta rimasta agli operai, che si rifugiavano nell’osteria, o nei lavori stagionali dei campi o in cassa mutua per sfuggire una lavorazione troppo difficile o per reagire all’implacabile ritmo delle macchine» [30]
. Più specificamente, l’occupazione femminile «concorrenziale» contribuiva a mantenere bassi i salari operai, ed era elemento di divisione all’interno di una classe operaia ancora debole e disorganizzata [31]
.
Godendo gli industriali di questa situazione di vantaggio, l’opposizione alla disciplina legale del lavoro delle donne e dei fanciulli rifletteva essenzialmente due preoccupazioni: a) che la legge, nel regolare l’età di ammissione al lavoro, privasse il capitale della possibilità di sfruttare il lavoro, praticamente non pagato, dei bambini; b) che l’esclusione dei minori e delle donne (cioè della stragrande maggioranza della forza lavoro impiegata nell’industria tessile, la maggiore in Italia fino al ‘900) dal lavoro notturno, spezzasse la continuità del lavoro, diminuendo la produttività degli impianti, garantita appunto dal ricorso illimitato al lavoro notturno.
Quanto questa seconda preoccupazione fosse viva tra gli industriali lo avrebbe dimostrato, a dieci anni dall’entrata in vigore della legge sul lavoro dei fanciulli che aveva placato le ansie del padronato sui rigori della legislazione sociale, l’insuccesso della campagna per l’abolizione del lavoro notturno inscenata dai cotonieri, in una fase di sovrapproduzione (1896-97). I cotonieri tentavano questa via per ridurre la produzione e per imporne la riduzione, per legge, anche ai concorrenti [32]
. Ma la denuncia (interessata) del lavoro notturno come «maggiore causa di degenerazione della razza» doveva cadere nel vuoto [33]
: «l’opposizione dei padroni alla regolamentazione e ancor più all’abolizione del lavoro notturno si fondava su motivazioni d’ordine economico e anche umanitario [...], che al fondo portavano tutte alla difesa della razionalità oggettiva del processo produttivo, della organizzazione capitalistica del lavoro, dell’ordine disciplinare e{p. 18} politico imposto dal padrone alla fabbrica» [34]
.
Contro l’opposizione padronale le operaie non erano in grado di lottare, perché la decisione di sospendere il lavoro notturno avrebbe creato gravi pericoli di disoccupazione, e avrebbe comportato la diminuzione dei salari reali; avrebbe cioè rubato loro anche «quella meschinità che pur bastava al sostentamento» [35]
. Non erano mancati, nel periodo, episodi di lotta [36]
, anche aspra, ed in essi non era stato neppure marginale il ruolo delle donne e dei fanciulli. Ad es., la lotta per la conquista di un orario di lavoro più umano era stata condotta principalmente dal proletariato femminile e infantile delle filande, «che il regime di fabbrica costringeva a sedici ore di lavoro al giorno, per un salario che nelle punte più alte non superava o superava a malapena la lira e che per le bambine, dopo un anno di garzonato, non arrivava a 40 centesimi» [37]
. Ma si versava in una fase nella quale la risposta degli industriali poteva ancora esaurirsi nella repressione, nel lock-out [38]
, o magari nella chiusura di una fabbrica (e licenziamento di tutti gli operai) per emigrare in altra zona.
Fino al novecento ‒ ha scritto Merli [39]
‒ le lotte del proletariato industriale (filatori, tessitori, meccanici, minatori, ecc.), rese difficili dalla massa enorme di lavoratori da organizzare e dalla presenza di un proletariato poco cosciente e qualificato, come quello infantile e femminile, si accendevano e si spegnevano senza coordinamento tra loro, proponevano temi avanzati, per poi tornare su contenuti elementari. Del resto, il contenuto di quelle lotte, se non era quello dell’aumento salariale e della riduzione dell’orario di lavoro, spesso non veniva afferrato. Si trattava, insomma, di «agitazioni ‘spontanee’ nel senso elementare del termine, anche quando nel luogo era presente un’organizzazione (una associazione, una lega, un dirigente operaio), perché non avevano collegamenti nazionali o per il fatto che l’organizzazione veniva a sostenerla o a mediarla solo in un secondo tempo, perché sorgevano e si spegnevano su motivazioni specifiche di una fabbrica o di un gruppo di fabbriche di un determinato settore o di una determinata zona. Il padrone singolo poteva anche essere sconfitto, ma il padrone collettivo mai» [40]
.
Con una classe operaia assente (perché non interessata{p. 19} ad una pseudo-legislazione che non era prodotta dalle sue lotte), ed essendo le formazioni politiche del movimento operaio incerte sul valore della legislazione sociale [41]
, o addirittura contrarie all’intervento legislativo [42]
, la prima fase della storia della legislazione sociale in Italia doveva esaurirsi nella lunga vicenda del compromesso parlamentare tra gli immediati interessi degli industriali ed il disegno del liberalismo conservatore, «preoccupato di prevenire i conflitti di classe e fiducioso di sanare i mali dell’industrializzazione con la carità legale» [43]
.
La vicenda si concluse con l’approvazione della legge 11 febbraio 1886 sul lavoro dei fanciulli e del successivo regolamento. La necessità di disciplinare con legge anche il lavoro delle donne fu espressa dalla camera con un ordine del giorno del 1886, che rimase privo di pratica realizzazione fino al 1902. Ma i sedici anni che saranno necessari per arrivare alla modificazione della legge sul lavoro dei fanciulli ed alla regolamentazione del lavoro delle donne vedranno, accanto alla progressiva assunzione da parte del partito socialista dell’iniziativa per la legislazione «protettiva», la crescita politica del movimento per l’emancipazione delle donne, l’aumento delle lotte operaie (per ore di sciopero, per mutamento dei contenuti, per partecipazione delle donne).
Lo sbocco doveva essere la legge del 1902: una legge ancora modesta, assai lontana dalle richieste dei socialisti, e nella quale donne e minori erano accomunati in una protezione di tipo igienico-sanitario dal lavoro nocivo o insalubre; il primo di una serie di interventi legislativi sulle c.d. mezze forze lavorative.

2. Il lavoro delle donne e la tutela della maternità nella legge 19 giugno 1902, n. 242.

Con la legge 19 giugno 1902, n. 242 (nota come legge Carcano, dal nome del ministro presentatore), si chiuse una fase di lotta, nel paese e nel parlamento, per la revisione della legge del 1886 [44]
. «La pressione del partito socialista ‒ ha scritto Franca Pieroni Bortolotti [45]
‒ e quella di alcuni{p. 20} gruppi industriali, cotonieri soprattutto, conducevano alla soluzione giolittiana, che il ministro Carcano realizzava nel modo più favorevole agli interessi degli imprenditori».
La legge fissava infatti a dodici anni (e non a quindici, come chiedevano i socialisti) il limite di età per l’ammissione al lavoro dei fanciulli; vietava ai minori di quindici anni i lavori che una commissione governativa avrebbe ritenuto pericolosi e insalubri. Per le donne di qualsiasi età la legge vietava i lavori sotterranei, limitava a dodici ore giornaliere (con un intervallo di due ore, rimasto però teorico) l’orario massimo di lavoro. Il lavoro notturno era vietato solo alle donne minorenni: il legislatore prevedeva infatti che l’abolizione del lavoro notturno per le donne di qualsiasi età (secondo le richieste dei socialisti) non potesse essere sancita che cinque anni dopo l’entrata in vigore della legge: per non turbare «ad un tratto, con grandi riforme, ordinamenti industriali già formati».
La novità maggiore della legge Carcano era l’aver posto il problema del congedo di maternità, stabilendo che le puerpere non potessero essere impiegate al lavoro se non dopo trascorse quattro settimane dal parto (ma, «in via del tutto eccezionale», anche prima); nessun riferimento la legge faceva, invece, al periodo precedente il parto. L’istituzione del congedo di maternità (in forma peraltro assai ridotta, rispetto alle richieste dei socialisti) doveva rimanere, per molti anni, una pura forma. Mentre restava aperta la discussione circa la retribuzione del periodo di riposo forzato, su cui la legge taceva, le casse di maternità (che avrebbero dovuto provvedere al sussidio per le puerpere) furono istituite solo con la legge 17 luglio 1910, n. 520 [46]
.
Dalla sfera di applicazione della legge, che entrò in vigore l’anno successivo (1° luglio 1903), erano esclusi il settore agricolo e il lavoro a domicilio. La nozione di opificio o laboratorio risultava invece più ampia che nella precedente legge del 1886, poiché vi erano compresi, quando non vi fossero motori o fuoco continuo, i luoghi in cui lavoravano normalmente più di cinque operai (art. 1 reg. 29 luglio 1903).
Le disposizioni della legge n. 242 subirono una serie di correzioni e mutilazioni che ridussero di gran lunga la sua
{p. 21} portata innovativa: anzitutto il senato provvide ad introdurre le norme transitorie che dilazionavano l’attuazione di alcuni articoli; poi intervenne il consiglio superiore dell’industria e commercio, approvando un regolamento che limitava ulteriormente la sfera di applicazione della legge; il 1° luglio 1903 venne infine emessa una circolare ministeriale che, accogliendo le richieste degli industriali, ammetteva numerose deroghe al regime dei divieti e al congedo di maternità [47]
.
Note
[25] S. Merli, op. cit., p. 214.
[26] Cfr. L. Cafagna, La rivoluzione industriale in Italia, cit., pp. 57 seg.; afferma S. Merli, op. cit., p. 564, che l’industria tessile, rimasta fino al 1900 la più importante in Italia, rifletteva con maggiore frequenza e direttamente i fenomeni sociali del processo di industrializzazione.
[27] Così G. Monteleone, op. cit., p. 236.
[28] S. Merli, op. cit., pp. 214 seg.
[29] I dati sono in gran parte tratti dalla statistica del 1876 di V. Ellena, La statistica di alcune industrie italiane, in «Annali di statistica», vol. XIII, 1880, rielaborata da S. Merli, op. cit., pp. 90 seg.
[30] S. Merli, op. cit., p. 365. Le disumane condizioni di lavoro (descritte con grande efficacia dall’«apostolo» delle filandere E. Gallavresi, Il lavoro delle donne e dei fanciulli, Bergamo, 1900) procuravano alle operaie malattie generiche e professionali, aborti, e in genere danni fisici che incidevano sulla prole, contribuendo a quella «degenerazione della razza» (denutrizione, morbilità, deformazioni) caratteristica del protoindustrialismo italiano. La degenerazione (come già aveva denunciato il medico Serafino Bonomi, Sul lavoro dei fanciulli negli opifici, cit.; Intorno alle condizioni igieniche degli operai e in particolare delle operaie in seta della Provincia di Como, in «Annali universali di medicina», 1873, pp. 225 seg.) investiva «prima di tutto la classe operaia, la quale presenta una minore resistenza alle malattie e in modo particolare gli operai di fabbrica». Gli operai avevano infatti una mortalità superiore rispetto al resto della popolazione: «dai 65 anni di vita media dei contadini, si scende a 50 per i manovali, a 47 per gli operai in genere, e addirittura soltanto a 36 per gli operai di fabbrica»: così S. Merli, Proletariato di fabbrica, I, cit., p. 231. La promiscuità e la presenza giornaliera in fabbrica per 15 o 16 ore determinavano poi altri mali, di natura «sociale e morale»: sono i mali che, uniti alle malattie e agli stenti, rendevano difficile far passare, anche all’interno del movimento operaio, il giudizio di Marx (Instruction sur diverses questions aux delegués du Conseil Central Provisoire, n. 4, in Le Conseil Général de la première Internationale, 1864-1866, Procès-verbaux, Moscou, 1972, p. 293) sulla funzione progressiva del modo di produzione capitalistico e sulla legittimità della tendenza dell’industria moderna a far cooperare donne e bambini alla produzione sociale, «benché il modo in cui questa tendenza si realizza sotto il giogo del capitale sia un abominio». Cfr. M. Maddalena, Le condizioni della donna nei dibattiti della I internazionale, in «Movimento operaio e socialista», 1974, nn. 2-3, pp. 157 seg.
[31] C. Ravera, Breve storia del movimento femminile in Italia, Roma, 1978, pp. 27 seg. A proposito della concorrenzialità del lavoro femminile scriveva L. Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, vol. II, Milano, 2a ed., 1915, p. 27, che rientrava nella «tattica delle associazioni operaie e di mestiere l’ostilità al lavoro muliebre, causa di depressione del tasso dei salari»; più oltre (p. 28) l’illustre autore aggiungeva che la ragione del minor tasso delle mercedi femminili poteva essere vista nel minor rendimento delle donne o, «più cavallerescamente», nel minor bisogno di lavoro femminile «qui dove c’è tanta abbondanza di lavoro maschile». «Per conto mio ‒ affermava commentando il T.U. del 1907 (infra, par. 4) ‒ credo che la legge nostra abbia tenuto conto, nella tutela del lavoro muliebre, della minor resistenza della donna al lavoro [...] da cui anche il minor rendimento». Ponendo l’accento sulla funzione concorrenziale del lavoro femminile, e sulla minore resistenza (minor rendimento) delle donne, Barassi giustificava le disparità di trattamento allora esistenti, e poneva le premesse per giustificare le discriminazioni future. Gli argomenti usati da Barassi saranno utilizzati ancora nel dibattito sulla parità salariale degli anni ’60.
[32] P. Jannaccone, L’industria del cotone e l’abolizione del lavoro notturno, in «La riforma sociale», a. IV, vol. VII, riportato in L’organizzazione del lavoro in Italia, cit., pp. 86 seg.
[33] Da parte operaia, fu soprattutto la sezione socialista milanese (e il suo organo ufficiale «La battaglia») ad avversare la proposta dei cotonieri. Individuando correttamente nella crisi di sovrapproduzione che l’industria cotoniera attraversava l’origine della proposta, e smascherando le false motivazioni umanitarie dei cotonieri, si poneva l’accento sulle ripercussioni deleterie che avrebbe avuto, in quel momento, sull’occupazione e sui salari operai una legge intesa ad abolire il lavoro notturno per le donne e per i fanciulli: così O. Antozzi, I socialisti e la legislazione sul lavoro delle donne e dei fanciulli, cit., p. 290.
[34] S. Merli, Proletariato di fabbrica, I, cit., p. 248.
[35] «La battaglia», 1° gennaio 1897, cit., da S. Merli, op. cit., p. 250.
[36] V. la tabella sugli scioperi dal 1860 al 1900 elaborata da S. Merli, op. cit., p. 563.
[37] S. Merli, op. cit., p. 485.
[38] Sull’uso del lock-out, v. ancora S. Merli, op. cit., pp. 535 seg.; sulla repressione degli scioperi, più ampiamente G. Neppi Modona, Sciopero, potere politico e magistratura, cit., pp. 71 seg.
[39] S. Merli, op. cit., pp. 558 seg.
[40] S. Merli, op. cit., p. 559. Per i contenuti specifici delle lotte, v. le pp. 463, 467, 468, 482, 485, 487, 494, 510.
[41] V., in proposito, il significativo confronto tra L. Luzzatti e L. Bissolati (L. Bissolati, La lotta di classe e le «alte idealità» della borghesia. Polemica col prof. Luigi Luzzatti, deputato, in «Critica sociale», n. 24, 1892; nn. 1, 2, 3, 4, 1893), sulla legislazione sociale inglese. Nella polemica si contrappongono in modo rigido due concezioni della legislazione sulle fabbriche: legislazione concessa dalla borghesia illuminata al proletariato, per Luzzatti; legislazione conquistata dal proletariato con le sue lotte, ma fatta dalla borghesia, perché a lei vantaggiosa, secondo Bissolati.
[42] Il partito operaio italiano era recisamente contrario all’intervento legislativo. Accennerò più oltre all’importante ruolo svolto da A. M. Mozzoni (aderente al p.o.i.) durante la campagna per la legislazione sociale promossa dai socialisti. Cfr. A. M. Mozzoni, La liberazione della donna, a cura di F. Pieroni Bortolotti, Milano, 1975.
[43] G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano, cit., p. 260.
[44] L’iter parlamentare della legge del 1902 e le vicende politiche che accompagnarono la faticosa elaborazione della legge sono descritti da O. An- tozzi, I socialisti e la legislazione sul lavoro delle donne, cit., pp. 285 seg. e ivi riferimenti bibliografici. Qualche cenno anche in P. Alfieri e G. Ambrosini, La condizione economica, sociale e giuridica della donna in Italia, Torino, 1975, pp. 99 seg.
[45] Socialismo e questione femminile in Italia: 1892-1922, Milano, 1974, p. 70. Della stessa a. v. anche: Alle origini del movimento femminile in Italia (1848-1892), Torino, 1963; Appunti sulla questione femminile nella storia del PSI, in «Rivista storica del socialismo», 1963, n. 19, pp. 297 seg.
[46] La vicenda dell’istituzione delle casse di maternità è narrata da S. Puccini, Condizione della donna e questione femminile (1892-1922), in « Problemi del socialismo», 1976, n. 4, pp. 42 seg., che la ricostruisce soprattutto avvalendosi degli scritti del medico socialista Giorgio Casalini, pubblicati da «Critica sociale» tra il 1904 e il 1910.
[47] Fra i primi commenti alla legge del 1902: G. Farraggiana, Il lavoro delle donne e dei fanciulli: commento alla legge 19 giugno 1902, con richiami di giurisprudenza, Empoli, 1904; E. Noseda, Il lavoro delle donne e dei fanciulli: nuova legge regolamento 19 giugno 1902, 18 febbraio 1903. Testo, atti parlamentari e commento, Milano, 1903; G. Forcellini, Di alcuni casi di applicazione della legge e del regolamento sul lavoro delle donne e dei fanciulli (in udienza e fuori): appunti, Imola, 1908.