Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c1
2) La protezione specifica delle donne era limitata al momento della maternità, e nella protezione assumeva carattere esclusivo la garanzia del congedo (per puerperio), non quella del salario. La coincidenza tra momento e strumento della tutela accentuava, nella legge, il collegamento tra lavoro e famiglia. La previsione del congedo (non retribuito) esprimeva non un embrionale riconoscimento del va
{p. 26}lore sociale della maternità, ma un giudizio sulla preminenza del ruolo familiare della donna. Ho detto sopra che la legge Carcano, per la sua scarsa capacità protettiva, non utilizzava la tutela dell’operaia-madre come strumento per disincentivare l’occupazione femminile nell’industria; tuttavia la preminenza assegnata al ruolo familiare della donna avrebbe giustificato preventivamente (in termini di ritorno alla famiglia) l’espulsione delle donne dalla produzione, quando, successivamente, le modificazioni dell’organizzazione industriale avrebbero cominciato a spingere le donne verso l’occupazione marginale: come bene avevano intuito gli operaisti, che rifiutavano una legislazione specifica sulle donne [65]
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3) Insieme alla predisposizione del congedo per l’operaia-madre, anche l’esclusione, dalla sfera di applicazione della legge, del lavoro a domicilio e del lavoro familiare (oltre che del lavoro agricolo) era segno dell’avvenuto cambiamento del ruolo della legge nei rapporti di lavoro. La legge del 1886 era ancora espressione di laissez faire; l’intervento legislativo del 1902 aveva già il significato di una mediazione, «promozionale» (nel senso che chiarirò oltre) nei confronti di una politica dell’occupazione femminile che si sarebbe realizzata solo più tardi. L’oggetto della promozione era definito dalla contestualità tra restrizione all’utilizzo delle donne nel lavoro industriale e massima libertà di sfruttamento quando lo sfruttamento avvenisse dentro la famiglia. La famiglia era così eletta a luogo in cui è salvaguardata la subalternità della donna, alla quale è assicurata quella «protezione» privata che esclude l’ingerenza dello stato.

4. La riforma del 1907: limitazione legale del lavoro femminile e flessione dell’occupazione.

La legge 19 giugno 1902, n. 242, venne parzialmente modificata con la legge 7 luglio 1907, n. 416, poi confluita nel T.U. sul lavoro delle donne e dei fanciulli (legge 10 novembre 1907, n. 816). Il T.U. introduceva [66]
il divieto di lavoro notturno per le donne di qualsiasi età, ma prevedeva eccezioni più numerose di quelle fissate dalla convenzione di{p. 27} Berna del 1906 (ratificata dall’Italia con legge 29 luglio 1909, n. 583) [67]
. Nessuna novità si registrava, invece, nelle disposizioni sulle lavoratrici madri. La cassa di maternità, deputata al pagamento del «sussidio» a favore delle lavoratrici in congedo (e finanziata con i contributi posti a carico delle lavoratrici e degli imprenditori) venne infatti istituita ‒ come ho già detto ‒ con legge 17 luglio 1910, n. 520, e solo a partire da quella data le lavoratrici poterono godere, nel periodo di assenza dal lavoro, di una prestazione economica (sussidio di lire 30 pagato dalla cassa, più un sussidio di lire 10 pagato dallo stato) avente carattere di elargizione assistenziale, fissata in cifra predeterminata e non ragguagliata al salario [68]
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Col T.U. del 1907 si chiudeva (parzialmente, poiché molte porte rimanevano aperte) una questione, che si era trascinata per lungo tempo: era finalmente sancito per legge il generale divieto di lavoro notturno per le donne; ma si lasciava agli industriali la possibilità di valutare, secondo opportunità, se e quando fare ricorso al lavoro notturno.
Con l’introduzione dei limiti legali al lavoro delle donne si agevolava la limitazione della richiesta di manodopera femminile, divenuta meno conveniente che nel passato. Ma è difficile dire se la legge avesse intento promozionale o si limitasse a registrare una tendenza già presente nell’andamento dell’occupazione, o ‒ ancora ‒ se precostituisse strumenti per far fronte alla crisi di sovrapproduzione. Certo è che, all’entrata in vigore del T.U., la situazione dell’economia italiana si presentava profondamente modificata rispetto al periodo che aveva preceduto l’emanazione della legge del 1902. Mutamenti si registravano anche nella composizione della classe operaia e nella distribuzione della popolazione attiva fra i vari settori: risulta dai censimenti che tra il 1861 e il 1911 la popolazione attiva femminile era passata dal 48,6% del totale al 28,6; in agricoltura, era passata dal 32,3 al 16,8; nell’industria, dal 12,3 al 6,9 [69]
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Come è noto, la depressione della vita economica italiana, iniziatasi con la crisi commerciale del 1887, si era prolungata, accompagnata da drastiche riduzioni produttive, crisi finanziarie, malessere ed agitazioni delle classi subalterne, fino al 1898, anno in cui i tumulti di Milano dettero l’impres{p. 28}sione che il paese fosse al limite di una grave crisi sociale [70]
. I segni della ripresa, che doveva poi sboccare nella grande espansione dei primi anni del nuovo secolo ‒ l’età giolittiana ‒, cominciarono però a manifestarsi, sia pure limitatamente al settore industriale, fin dal 1896 [71]
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I primi anni della ripresa economica avevano visto il crescere (per numero ed entità) delle organizzazioni femminili e delle lotte delle operaie (le sigaraie di Roma, Firenze, Torino; le tessili del comasco; le mondine emiliane) [72]
. Alla legge sul lavoro delle donne si arrivò ‒ al principio del secolo ‒ sulla spinta, insieme, del costituirsi dell’organizzazione socialista e delle profonde trasformazioni nelle tecniche di lavorazione e nella struttura industriale [73]
. Contemporaneamente alla legge, cominciava a registrarsi la flessione nel numero delle operaie e la tendenza a tenerle occupate nelle attività meno remunerate e più pesanti. «In questa situazione si spiega la notevole diminuzione di interesse, da parte delle donne rimaste nelle fabbriche, per l’organizzazione sindacale, o il loro rifluire su posizioni diverse da quelle che avevano preso venti anni prima» [74]
; così come si spiega che, anche all’interno delle organizzazioni di categoria, riprendesse fiato un atteggiamento ostile alle lavoratrici, rimproverate di aver abbandonato la casa per fare concorrenza agli uomini in fabbrica.
La legge del 1902 (il cui significato di transizione era evidenziato dalla soluzione provvisoria adottata sulla questione del lavoro notturno) era intervenuta in una situazione di faticosa ripresa, nella quale stavano ponendosi le premesse della trasformazione dell’economia e della «rivoluzione industriale» del periodo giolittiano. La trasformazione fu caratterizzata da due fenomeni importanti:
a) lo spostamento visibile verso l’industria pesante (le industrie tessili, alimentari, dei tabacchi, che nel periodo 1881-95 costituivano il 74,2% di tutto il prodotto dell’industria manifatturiera, passeranno nel 1911-15 al 59,2%. Alla decadenza del settore tessile fece eccezione solo l’industria cotoniera, che conobbe un grande progresso, guidato dalle banche, le quali stimolavano la corsa verso gli immobilizzi e la sovrapproduzione. Le industrie meccaniche, metallurgi{p. 29}che, minerarie passarono, nello stesso periodo dal 19,8% al 30,6) [75]
;
b) il dominio sull’economia italiana della coalizione, che si venne a stabilire tra l’alta banca, l’industria pesante (sidero-metallurgia, cantieri, armatori), i cotonieri, e gli agrari latifondisti. Si prevedeva ‒ ha scritto Grifone [76]
‒ un’era di grandi affari, e perciò ci si incamminava verso crescenti investimenti; né ci si preoccupava, come un tempo, di scioperi e di richieste di miglioramenti, perché riusciva piuttosto agevole soddisfare queste ultime con i larghi margini di profitto garantiti dai grossi affari.
Dopo un triennio di grande rigoglio, nel quale si erano registrate intense lotte sindacali (sull’orario, sulle condizioni di lavoro, sui salari), alla fine del 1907 doveva scoppiare una crisi ciclica di sovrapproduzione (epicentro gli Stati Uniti), che si abbatté sull’economia italiana in crescita, spezzandone lo slancio ascensionale. Gli effetti furono meno gravi che nel 1887, ma la depressione si protrasse fino a tutto il 1912, per far luogo ‒ nel 1913-14 ‒, in connessione con la nuova depressione che si delineava nel mondo, ad un nuovo generale malessere, che avrebbe portato a conseguenze disastrose se non fosse intervenuta la guerra [77]
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Di fronte alla crisi economica (e, a breve scadenza, politica) del 1907, la situazione occupazionale e organizzativa delle donne si presentava debole. Il lavoro era ormai una solida realtà per larghi strati della popolazione femminile, ma alla flessione dell’occupazione operaia corrispondeva, nondimeno, l’accelerarsi del processo di involuzione del movimento femminista che, ormai inserito nel sistema borghese, rivelava «tutte le sfumature politiche, secondo le classi sociali o le tendenze delle singole associazioni, che vanno da un acceso filosocialismo a posizioni apertamente conservatrici» [78]
.
La sconfitta parlamentare del 1907 sull’ammissione delle donne al voto [79]
era maturata nel clima della incertezza [80]
con cui il partito socialista (ma non la Kuliscioff, recisamente suffragista) aveva affrontato il problema. Alla sconfitta sul suffragio seguiva una chiusura dell’orizzonte politico e, insieme, il rifluire, da parte femminista, nel riformismo spic{p. 30}ciolo: ne è esempio l’appoggio alla proposta di legge sul voto amministrativo. Come giustamente ha osservato Franca Pieroni Bortolotti, il movimento femminista si era sviluppato in un’epoca di sostanziale progresso sociale, ed era stato un aspetto di tale progresso; con il deteriorarsi della situazione politica, dovevano venire in evidenza i segni dell’involuzione del movimento (nel 1911 si interrompeva, ad es., la collaborazione tra suffragiste e socialiste), e dovevano ritrovare spazio le riserve che la cultura italiana non aveva mai cessato di esprimere nei confronti del femminismo [81]
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Momento significativo di involuzione fu l’emergere, in occasione della guerra di Libia, dell’appoggio al governo da parte di alcune associazioni femministe su posizioni colonialiste; ma soltanto la guerra 1915-18, ponendo la necessità di scelte drammatiche, rivelò l’entità e la qualità dell’involuzione. Furono abbandonate le campagne per le riforme (il divorzio, la ricerca della paternità) e tutta l’attenzione fu rivolta al conflitto: «insensibilmente avveniva il distacco del femminismo dalla tradizione pacifista» [82]
. Così, nel dopoguerra sarà facile per molte associazioni scivolare su posizioni nazionaliste, fino all’appoggio aperto al fascismo. Una prima conseguenza della guerra fu la nuova, grande immissione delle donne nelle attività produttive (specie nell’industria bellica, dove, alla fine della guerra, le donne erano 200.000) e la progressiva sostituzione del personale maschile con quello femminile nel normale lavoro delle fabbriche, dei campi, degli uffici.
Le donne, irreggimentate nelle industrie di guerra, erano costrette a lavori pesanti e nocivi, prive di protezione e retribuite con salari inferiori della metà rispetto a quelli maschili. Il governo si era, d’altra parte, affrettato ad emanare norme per «rendere partecipi le donne nel difficile momento». Così il R.D. 14 agosto 1914, n. 925, sospendeva il divieto del lavoro notturno, e altre norme riammettevano donne e minori ad alcuni lavori esclusi dal T.U. del 1907 e successivo regolamento [83]
.
L’Italia si rendeva conto ad un tratto dell’importanza del lavoro femminile: fu in questo periodo che vennero avanzate, da parte dell’interventismo di origine democratica (re
{p. 31}pubblicano e socialista), le proposte paritarie più contrastate in passato (suffragio e parità salariale), riprese nel 1917 dal P.S.L e dalla C.G.L. Quanto alla classe dirigente, essa abbandonava temporaneamente la vecchia demagogia (l’alta funzione di madre, la grazia femminile), per stimolare la produttività delle operaie e delle contadine, magari in nome della «patria» e dei «figli»; e il governo l’assecondava, istituendo le medaglie al merito agricolo e i diplomi di benemerenza. Ma, alla fine della guerra, alle duecentomila operaie smilitarizzate, alle tante contadine improvvisate, quegli stessi ambienti non seppero suggerire che di riprendere l’antico posto tra i fornelli: la «patria vittoriosa» compensava la fatica e il sacrificio delle donne con un assegno di smobilitazione [84]
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Note
[65] Queste posizioni, espresse con vigore da A. M. Mozzoni (cfr. nell’antologia La liberazione della donna, cit., le pp. 83 seg., 201 seg.), erano proprie del sindacalismo rivoluzionario: G. Are, Economia e politica nell’Italia liberale 11890-1915), Bologna, 1974. p. 116.
[66] La legge 7 luglio 1907, n. 416, aveva sancito il divieto di lavoro notturno, ma ne aveva prorogato di sei mesi l’applicazione.
[67] Un’importante questione di raccordo tra il T.U. del 1907 e la convenzione di Berna del 1906 riguardava la delimitazione dell’orario di lavoro delle donne e dei fanciulli negli stabilimenti con personale ripartito in turni. L’art. 5 ult. comma del T.U. rinviava al Io gennaio 1911 l’applicazione del limite di orario dalle 22 alle 5 (secondo l’art. 2 della convenzione), in sostituzione del limite dalle 23 alle 5. La cassazione di Roma ritenne tuttavia che, a quella data, la limitazione di cui alla convenzione di Berna non potesse entrare in vigore, non essendo stata la convenzione ratificata da tutti gli stati firmatari. La legge italiana di ratifica (del 1909) doveva essere intesa ‒ secondo la cassazione ‒ come un’autorizzazione al governo a dare ratifica alla convenzione, autorizzazione dalla quale non poteva farsi discendere l’obbligo dello stato italiano di applicare la convenzione medesima, indipendentemente dalla ratifica di altri stati (Cass. Roma, 16 aprile 1914, in «Foro italiano», 1914, 11, c. 326; Cass. Roma, 30 novembre 1915, in «Giustizia penale», 1916, p. 170; contra, in dottrina, E. Noseda, Il divieto di lavoro notturno e la convenzione di Berna, in «Il Filangieri», 1913, pp. 641 seg.).
[68] Il ritardo nell’istituzione delle casse di maternità ebbe causa soprattutto nell’opposizione degli industriali, assertori della necessità ‒ posto che la maternità non poteva considerarsi «rischio industriale» ‒ che i contributi gravassero esclusivamente sulle operaie e sullo stato: cfr. S. Puccini, Condizione della donna e questione femminile, cit., pp. 43 seg. Nel suo primo intervento sulla legge 17 luglio 1910, n. 520, la Cass. Roma, 23 ottobre 1913, in «Foro italiano», 1913, II, c. 11, stabilì che l’omesso pagamento, da parte dell’imprenditore, del contributo dovuto alla cassa costituiva «contravvenzione punibile e non violazione di un’obbligazione», poiché l’obbligo aveva ragion d’essere nell’interesse non solo delle operaie, ma della società.
[69] V. la tabella pubblicata da C. D’Apice, Mercato del lavoro e occupazione femminile tra congiuntura e crisi: 1. La flessione dei tassi di attività, in «Quaderni di rassegna sindacale», n. 54/55, 1975, Donna, società, sindacato, p. 37. V. anche C. Ravera, Breve storia del movimento femminile, cit., pp. 56 seg.
[70] Per le lotte sociali del periodo che interessa la fine del secolo e il primo decennio del 900, si può fare rinvio a G. Procacci, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Roma, 1970; ma è interessante confrontare (almeno per ciò che concerne le lotte del proletariato industriale nel periodo 880-900) S. Merli, Proletariato di fabbrica, cit., I, pp. 459 seg. Infatti Merli, in polemica con la «storiografia gramsciana», propone una storia del movimento operaio come «storia della classe» (né storia delle istituzioni sindacali e/o politiche, né storia delle ideologie e delle strategie sindacali e/o politiche): invece, analisi critica delle teorie, delle pratiche dello sviluppo e delle scienze sociali; poi, studio delle lotte (delle loro forme, delle loro caratteristiche, dei loro limiti, del loro segno tendenziale); infine, critica dell’organizzazione spontanea, sindacale e politica (S. Merli, op. cit., Introduzione). Nella stessa linea storiografica anche: S. Merli, Fronte antifascista e politica di classe, Bari, 1975; Id., L’altra storia, Milano, 1977. Per i dati sugli scioperi v. A. Lay, D. Marucco, M. L. Pesante, Classe operaia e scioperi: ipotesi per il periodo 1880-1925, in «Quaderni storici», n. 22, gennaio-aprile 1973, pp. 87 seg.
[71] R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia, 1861/1961, Bologna, 4a ed., 1972, p. 65; Id., La rivoluzione industriale deli età giolittiana, in La formazione dell’Italia industriale, cit., pp. 115 seg. Ma l’opinione di Romeo, che vede nello stato il maggiore artefice della «rivoluzione industriale», non è accettata da tutti: oltre ad A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Torino, 2a ed., 1965, e criticamente anche sullo schema gerschenkroniano, v. S. Fenoaltea, Decollo, ciclo e intervento dello stato, in La formazione dell’Italia industriale, cit., pp. 95 seg.; v. anche L. Cafagna, La formazione di una ‘base industriale’ fra il 1896 e il 1914, cit.; Id., L’avventura industriale di Giovanni Agnelli e la storia imprenditoriale italiana, in «Quaderni storici», gennaio-aprile 1973, n. 22, pp. 148 seg.
[72] La lunga lotta delle sigaraie fiorentine (1874-1922) è ricostruita da F. Pieroni Bortolotti, in appendice al vol. Socialismo e questione femminile, cit. Sugli scioperi e le agitazioni che videro ‒ nel primo decennio del secolo ‒ protagoniste le operaie dell’industria, v. C. Ravera, Breve storia del movimento femminile in Italia, cit., pp. 52 seg.
[73] F. Pieroni Bortolotti, op. cit., p. 107.
[74] F. Pieroni Bortolotti, loc. ult. cit.
[75] R. Romeo, Breve storia della grande industria, cit., p. 69. Sulla posizione dei socialisti di fronte alle trasformazioni dell’economia italiana, cfr. G. Are, Economia e politica nell’Italia liberale, cit., pp. 63-181; «la tranquilla fiducia dei riformisti nell’evoluzione oggettiva delle strutture economiche e nell’espansione graduale, ma fondamentalmente lineare, della civiltà e delle forze industriali, capace di sgretolare e travolgere i rapporti di produzione a sé avversi» (p. 65), è alla base, secondo Are, del disarmo del socialismo italiano davanti alla situazione storica che si apriva col nuovo secolo.
[76] P. Grifone, Il capitale finanziario in Italia. La politica economica del fascismo, Torino, 2a ed., 1971, pp. 11 seg.; cfr. anche G. Procacci, Caratteri dell’industrializzazione nell’età giolittiana, in Conflitti sociali e accumulazione capitalistica da Giolitti alla guerra fascista, Roma, s.d., pp. 29 seg.
[77] P. Grifone, op. cit., pp. 18-21. Scrive A. Caracciolo, La grande industria nella prima guerra mondiale, in La formazione dell’Italia industriale, cit., pp. 163 seg.: «nelle condizioni congiunturali che si sono dette, lo scoppio del conflitto fra le grandi potenze europee [...] non poteva mancare di aver conseguenze stimolanti almeno in certi rami dell’industria e di creare nuove aspettative e programmi di espansione in molti ambienti imprenditoriali e bancari» (p. 167); «in concreto, lo scoppio delle ostilità dette luogo a un gran numero di interventi dello stato in materia economica: il fenomeno dell’interventismo statale ebbe conseguenze grandiose non solo sulla condotta della guerra, ma nel senso di una trasformazione delle strutture portanti del sistema economico italiano» (pp. 13-174).
[78] F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., p. 107.
[79] Sulla politica giolittiana di allargamento della rappresentatività del parlamento, che doveva portare alla riforma elettorale del 1912 (la quale concedeva il diritto di voto a tutti i cittadini maschi alfabeti e analfabeti sopra i 30 anni) v. C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia, 1849-1948, Bari, 1974, pp. 283 seg. Sulla campagna socialista per il suffragio universale in Italia, v. F. Pieroni Bortolotti, Appunti sulla questione femminile nella storia del PSI, cit., pp. 306 seg.; Id., Socialismo e questione femminile, cit., pp. 108 seg., e ivi riferimenti alle vicende degli organismi internazionali e dei movimenti per il suffragio alle donne operanti in Europa nel periodo (su cui cfr., per gli sviluppi successivi, S. Franchini, La ‘workers suffrage federa- tion’ di Sylvia Pankhurts, 1914-1918, in «Movimento operaio e socialista», 1975, n. 3-4, pp. 173 seg.; A. Comparini, Il movimento femminile nei primi anni dell’Internazionale comunista (1919-1921), ivi, 1974, n. 1, pp. 49 seg.; da ultimo F. Pieroni Bortolotti, Osservazioni sulla storia del femminismo, cit., pp. 330 seg.). La questione dell’estensione alle donne del suffragio era entrata anche nel dibattito fra i giuristi, grazie ad una sentenza della corte d’appello di Ancona (25 luglio 1906, in «Foro italiano», 1906, I, c. 1060, con nota contraria di V. E. Orlando). Secondo la corte, il diritto vigente avrebbe concesso alle donne l’elettorato politico. La sentenza era stata stesa da Mortara: ma l’autorevolezza dell’estensore ed il peso degli argomenti portati non risultarono sufficienti a far passare quell’interpretazione «paritaria» dello statuto albertino. Nello stesso anno, infatti, la corte di cassazione di Roma (15 dicembre 1906, in «Foro italiano», 1907, I, c. 73, con nota contraria di M. Siotto Pintor) provvedeva a riportare l’interpretazione dello statuto entro gli schemi abituali, seguendo in ciò i suggerimenti che V. E. Orlando aveva fornito nel commento alla sentenza di Ancona. Sosteneva Orlando che il rispetto dovuto a Mortara, «uno dei più forti giuristi dell’Italia contemporanea», non poteva indurre al consenso sulla tesi che la donna italiana, la quale certamente godeva dei diritti fondamentali di libertà, dovesse perciò godere (nel silenzio della legge) anche dei diritti politici. I diritti politici (e specificamente il diritto elettorale), lungi dal confondersi coi diritti di libertà, dovevano invece essere classificati ‒ secondo Orlando ‒ in altra categoria, dipendendo essi non dagli «stadi di civiltà», ma dalle «forme di governo»: e il diritto positivo (cioè la legge elettorale, e non lo statuto, «di valore esegetico quasi nullo») non concedeva l’elettorato alle donne. Le donne erano escluse dall’elettorato dal diritto quale è, aggiungeva Orlando, non quale dovrebbe essere: ma si intende che l’autore non vedeva l’estensione del suffragio alle donne quale dover essere. A riprova dell’assennatezza delle sue conclusioni, V. E. Orlando affermava: «nel presente vigoroso risveglio del movimento femminista [...] non pareva potesse mettersi in dubbio che il nostro diritto vigente accogliesse rigidamente il principio della esclusione delle donne da ogni partecipazione al suffragio, così politico che amministrativo. Tutto quel movimento infatti [...] era diretto a ottenere dal parlamento riforme legislative, che quel diritto concedessero: ciò che non avrebbe senso ove quel diritto già competesse». Per qualche ragguaglio sulla vicenda del diritto di voto v. M. G. Manfredini, Evoluzione della condizione giuridica della donna nel diritto pubblico, in Società umanitaria, L’emancipazione femminile in Italia. Un secolo di discussioni 1861-1961, Firenze, 1963, pp. 178 seg.
[80] Per la temuta influenza clericale sulle donne: cfr. G. P. Carrocci, Giolitti e l’età giolittiana. Dall’inizio del secolo alla prima guerra mondiale, Torino, 1961, pp. 138 seg.
[81] Di questa cultura era certamente parte la magistratura, in cui, secondo le parole di M. Siotto Pintor, nota in «Foro italiano», 1909, II, c. 228 seg., era manifesta una tendenza generale a «escogitare ogni maniera di cavilli per opporsi anche alle più legittime pretese» delle donne. La soluzione data dalla magistratura a due questioni, rilevanti sotto il profilo della parità di trattamento, dà la misura dell’atteggiamento lamentato da Siotto Pintor; si tratta dell’ammissione delle donne all’esercizio della professione forense, esclusa dalla giurisprudenza perché ufficio quasi pubblico (con l’argomento della non attitudine delle donne agli studi giuridici, o addirittura per l’espresso timore che il patrocinio femminile potesse essere fonte di «corruzione della giustizia»); della reversibilità della pensione delle donne impiegate dello stato ai figli minorenni (prima esclusa dalla corte dei conti, 18 dicembre 1908, in «Foro italiano», 1909, III, c. 319, con nota contraria di M. Siotto Pintor, poi ammessa con decisione 15 novembre 1912, ivi, 1913, III, c. 68, con nota favorevole di G. Venezian). Sugli atteggiamenti della magistratura verso le donne, e sul suo contributo cretivo alla concezione dell’inferiorità delle donne, v. il grazioso libretto di R. Canosa, Il giudice e la donna. Cento anni di sentenze sulla condizione femminile, Milano, 1978.
[82] F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., p. 129.
[83] Sulla condizione delle lavoratrici durante la prima guerra mondiale, v. per tutti C. Ravera, Breve storia del movimento femminile, cit. pp. 80 seg.
[84] F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., p. 129. Ma il fenomeno della flessione dell’occupazione femminile, nell’industria e nell’agricoltura, non era solo italiano: cfr. E. Sullerot, La donna e il lavoro. Storia e sociologia del lavoro femminile, trad. it., Milano, rist., 1973, pp. 119 seg.