Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/p1
In quegli anni, d’altronde, un filone importante della ricerca economica aveva ad oggetto proprio il lavoro femminile, e l’autrice – senza subire, allora come oggi, quella fascinazione per la presunta oggettività dell’economia che inizierà a cogliere tanti giuslavoristi molti lustri dopo – stava partecipando, mettendo a frutto la sua tecnica di giurista, alla pubblicazione dei risultati, teorici ed empirici, di quelle ricerche [10]
. Il rapporto con economisti del lavoro quali Luigi
{p. 6} Frey, Renata Livraghi, Michele Salvati non pare marginale, nella maturazione del pensiero dell’autrice e per la sua sensibilità verso le ragioni strutturali della diseguaglianza delle donne nel mercato del lavoro, che sa rileggere con gli occhiali del diritto, e in una continua rivisitazione delle condizioni storiche di quelle differenze deficitarie. Così come niente affatto marginale fu il rapporto con una sociologa del lavoro che in quegli anni iniziava a occuparsi con rigoroso metodo scientifico delle politiche del lavoro femminile e più in generale della prospettiva di genere nella sociologia economica e del lavoro (Beccalli 1985).
E forse il successo del libro che invitiamo a leggere – al di là del valore giuridico «puro» dell’opera – è da attribuire anche alla capacità dell’autrice di metabolizzare altre discipline, con un metodo che utilizza le altre scienze per interpretare e valutare il diritto positivo, senza divenirne schiavo e formalmente quasi ignorandole. Ma una cifra specifica del libro è l’amore per la storia e per la storiografia, come abbiamo anticipato: amore per così dire ricambiato dalle storiche che, non per caso, la considerano quasi «una di loro», e che ha fatto breccia anche presso gli storici di oggi (per tutti Passaniti 2016). Il suo dialogo con la storia e con gli storici (le storiche, in particolare) è d’altronde coevo al libro che presentiamo [11]
, ed è proseguito fino ad oggi, fecondo per il diritto come per la storiografia attenta a indagare il ruolo delle donne e dei loro diversi «lavori», «fuori dalla sterile contrapposizione tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo» (Groppi 1996, VIII), con contributi importanti che non possiamo qui ricordare (ma segnaliamo almeno Ballestrero 1996).
Insomma, complessivamente: un libro di successo che oggi potremmo considerare annunciato, ma che nel 1979 scontato non era; così le monografie «anomale» divengono pietre miliari{p. 7} (senza retorica) della ricerca giuridica, e non solo. Per questo merita ripubblicarle, per le giovani e i giovani di oggi in particolare, con cui l’opera deve tornare a dialogare.

3. Apparenti ragioni per non rileggere, oggi, un libro più che quarantenne

Un libro sovente viene ripubblicato se, come si suole dire, è «ancora attuale». Ma «Dalla tutela alla parità», lo si è già detto, è fin dalla sua pubblicazione un libro anomalo, e anche in questa sua seconda vita rischia di essere egualmente anomalo. Sembra infatti di potere escludere che oggi il libro intercetti qualche «moda» del momento: neppure una di quelle mode «di ritorno», che a volte ricompaiono a distanza di anni, opportunamente rivisitate. Paradossalmente, per comprendere perché valga la pena rileggerlo, bisogna ripercorrere le ragioni che lo fanno percepire oggi così distante (ma, come si vedrà, solo apparentemente distante) dai dibattiti à la page. Anche in questo sta la sua perdurante anomalia.
É anzitutto il suo oggetto ad avere assunto, nel dibattito dottrinale successivo, significati differenti rispetto a quelli tradizionali. Il libro che si ripubblica, è una trattazione che si occupa del lavoro delle donne e si misura con i dilemmi regolativi della parità: ma ai nostri giorni, e alla luce di nuove riflessioni teoriche e filosofiche, il lavoro, le donne, e in fondo pure la parità, paiono essere concepiti in modo sensibilmente diverso rispetto al tempo in cui il libro è stato dato alle stampe [12]
.
Il lavoro, nell’indagine di Maria Vittoria Ballestrero, è il contesto in cui la donna si qualifica come soggetto che può richiedere e ottenere diritti ed eguaglianza. L’occupazione femminile è in fondo la porta di accesso per rivendicare un’identità esistenziale, per reclamare parità. Gli impedimenti, legislativi e materiali, all’accesso al lavoro sono, per converso, l’ostacolo preliminare a qualsiasi ulteriore ambizione di eguaglianza e di emancipazione. Il lavoro è la condizione quotidiana che può {p. 8}consentire la partecipazione attiva e consapevole alla società [13]
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Quarant’anni dopo, il lavoro, e il suo significato, sono sovente descritti con i toni tipici della disillusione. In una società in cui viene preconizzata la fine del lavoro, o la drastica diminuzione della domanda di lavoro, l’occupazione viene derubricata a strumento di sussistenza materiale. Sfuma la concezione del lavoro come mezzo di realizzazione personale e di inclusione della persona nella società. Ancor meno diffuso è il riconoscimento dell’attività lavorativa come strumento per il «progresso materiale o spirituale della società». Se il lavoro diviene appannaggio soltanto di una parte della popolazione, e comunque in una prospettiva di fisiologica alternanza temporale tra occupazione e non-occupazione, è opportuno che la realizzazione del sé transiti per una serie di attività, condizioni esistenziali, situazioni di contesto ulteriori e differenti rispetto al lavoro. Rispetto alla concezione del lavoro che assorbe l’esistenza, fino ad assurgere a giustificazione di quest’ultima, e quindi a trasformarsi esso stesso da mezzo a fine, il lavoro è desacralizzato, smitizzato, e destinato a occupare, volenti o nolenti, solo una parte dell’esistenza. In questo processo, si perde irrimediabilmente il ruolo del lavoro come elemento aggregatore di identità, di interessi e di pensiero collettivo, come elemento catalizzatore di una coscienza che travalichi la dimensione individuale. Ognuno corre per sé, come meglio può: e così anche le donne lavoratrici.
Ma, come si diceva, pure queste ultime, le donne lavoratrici, paiono avere perso importanza simbolica nel discorso sulla parità, sull’eguaglianza, sui divieti di discriminazione. E ciò non solo e non tanto perché si sono moltiplicati i fattori di discriminazione contemplati dall’ordinamento, divenendo il genere solo uno dei molti fattori di rischio. E neppure perché le correnti del pensiero femminista tendono oggi a enfatizzare una contrapposizione di interessi tra donne, secondo una polarizzazione tra donne che hanno beneficiato delle misure di mainstreaming o di diritto diseguale, rompendo il {p. 9}vetro di cristallo, e donne che invece rimangono imprigionate nei loro ruoli imposti dal «patriarcato» [14]
. E neanche, infine, perché l’attivismo legislativo e l’attenzione della politica pare riguardare le donne che lavorano soprattutto quando sono (o potrebbero diventare) madri, tanto da fare sorgere il dubbio che il vero obiettivo delle misure (consistenti soprattutto nei congedi, anche per i padri riluttanti) non sia (o non sia solo) il miglioramento della condizione delle donne (pur essendo indubbio che la ripartizione dei compiti genitoriali incida positivamente sulla loro condizione materiale), ma l’impulso alla natalità, entro la coppia [15]
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Il punto di rottura è un altro, ed è ben più radicale: riguarda l’identità stessa del «femminile».
Quel che viene enfatizzato, nelle discussioni teoriche correnti, è un ripensamento e una messa in discussione dell’individuazione del soggetto, la donna, quale parte di un’alternativa binaria maschio/femmina [16]
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Il femminile, nelle riflessioni più tradizionali, era legato senza margini di dubbio a un genere, inteso come elemento individuabile e predeterminato: l’appartenenza a un genere determinava poi riflessi sulla condizione personale e sociale, sulla base di ruoli attribuiti, indotti, imposti (ed è qui che si addensa la più nota critica femminista) dal genere storicamente dominante. L’appartenenza al genere femminile è dunque un elemento di fatto che può determinare un destino, in una società in cui non siano stati decostruiti, e concretamente eliminati, gli stereotipi di genere.
Oggi l’attenzione pare rivolgersi piuttosto alla prospettiva della fluidità di genere. Il genere non è più una gabbia, non è un concetto a dimensione collettiva, ma è una scelta, oltretutto reversibile e non necessariamente definitiva. Ancor più, il ge{p. 10}nere sembra perdere il proprio significato di fronte a identità auto-percepite come non-binarie. Il che scompiglia le carte sul tavolo, complicando il «gioco» [17]
.
Appare improvvisamente vecchia la dicotomia uomo/donna. Soprattutto pare smarrire, questa distinzione (che nell’ottica femminista è anche una contrapposizione), la propria valenza euristica. Se il genere è mobile e legato a scelte individuali, e addirittura è indefinito, diviene difficile discutere di differenze di genere e della opportunità o meno di preservarle, e in fondo diventa ambigua la stessa nozione di parità tra generi. Di quali generi stiamo parlando e a quali persone li stiamo (forse arbitrariamente) riferendo?
Come si vede, l’attualità del dibattito teorico è altrove rispetto alle coordinate concettuali che innervano i ragionamenti dell’autrice del libro.
Il maggiore iato si avverte tuttavia su un versante che occorre ancora una volta ribadire ed esplicitare, pur essendo già affiorato più volte nel discorso. Si allude alla dimensione collettiva del ragionamento sulla parità che costantemente connota la trattazione di Maria Vittoria Ballestrero, rivelando una decisa opzione «politica», in senso lato, dell’autrice. La parità di genere non è una questione che si risolva in una dimensione esclusivamente individuale. Così come il genere non è qualcosa che riguardi il singolo. Il lavoro è significativamente, fin dal titolo del libro, quello delle donne, al plurale, e non della donna. La considerazione e la valorizzazione delle differenze si coniugano con l’istanza della parità solo se vengono declinate sul versante collettivo. Cioè se si considerano le condizioni che connotano i gruppi e che, se non rimosse con misure diseguali, impediscono l’eguaglianza sostanziale. Solo in tal modo si può evitare la trappola della parità formale: una parità che non solo è ottusa, perché non sa guardare alle differenze, ma è pure ipocrita, nella misura in cui favorisce l’equivoco e la sovrapposizione indebita tra uguaglianza in diritto ed eguaglianza nei fatti.
Anche su questi aspetti, la tendenza, non solo di chi produce
{p. 11}pensiero critico [18]
, ma anche del legislatore, pare assecondare una visione più individuale, più schiacciata sull’identità personale (anche fluida), delle questioni in discussione. La nozione di discriminazione indiretta, costruita sul concetto di particolare svantaggio, è lì a dimostrarlo. La disparità di trattamento, definita precedentemente nel diritto comunitario e nel diritto interno come un trattamento pregiudizievole che determina uno «svantaggio proporzionalmente maggiore dei lavoratori dell’uno o dell’altro sesso», nelle discipline più recenti è ridefinita come «una posizione di particolare svantaggio dei lavoratori di un sesso rispetto ai lavoratori dell’altro sesso». Il che lascia aperta la possibilità di individuare la disparità di trattamento anche quando l’effetto pregiudizievole riguardi un singolo soggetto appartenente a un gruppo, con inevitabile offuscamento della dimensione collettiva della nozione stessa.
Note
[10] Molti di quei lavori furono pubblicati, in quel periodo, nei Quaderni di Economia del lavoro, editi da Franco Angeli. Ne segnaliamo tre emblematici: Frey, Livraghi, Mottura, Salvati 1976; Frey, Livraghi, Olivares 1978; Ballestrero, Frey, Livraghi, Mariani (1983 (dove compare anche Ballestrero 1983 dedicato alla rilettura della legge n. 903/1077 e all’analisi critica della sua prima applicazione).
[11] La stessa autrice richiama, nelle note alla Prefazione, alcuni suoi lavori degli anni immediatamente precedenti la pubblicazione della monografia (Ballestrero 1976; Ballestrero 1977; Ballestrero 1978; Ballestrero, Levrero 1979: quest’ultimo è citato anche da Giugni 1980).
[12] Il pensiero femminista, in particolare, si è arricchito, frammentato, complicato, ma allo stesso tempo, secondo chi lo studia (Restaino 2022, p. 221 ss.), ha ormai assunto il rango di pensiero filosofico.
[13] Come è stato osservato (Stolzi 2019, p. 254), «quello del lavoro è un territorio che può, potenzialmente, coinvolgere l’intero genere femminile, candidandosi a diventare il luogo di un’identità diffusa, quotidiana, a differenza di altri ambiti, come quello dei diritti di elettorato, che, pur rilevantissimi, non sembrano muniti di tale caratteristica».
[14] Cfr. sulla frantumazione e sui tentativi di ricomposizione Re (2019), p. 14 ss. ove una efficace esposizione critica della contrapposizione individuata dalle «femministe del 99 per cento» (Arruzza, Bhattacharya, Fraser 2019) tra «femminismo liberale» e «femminismo anticapitalista».
[15] La genitorialità, non a caso, è un soggetto su cui si impegna la dottrina giuslavoristica contemporanea: Vallauri 2020; Militello 2020.
[16] Per una ricostruzione complessiva dei complessi e intrecciati dibattiti sulla questione, molto utile è la lettura, nel volume Le teorie critiche del diritto (2017), dei saggi di Re (2017); Giolo (2017); Mastromartino (2017); Marella (2017).
[17] Invitiamo il lettore curioso a seguire la pubblicazione delle riflessioni a più voci su sesso, genere, discriminazione, avviate a partire dal fascicolo n. 3/2022 della rivista Lavoro e diritto (segnalando in particolare, sul «non binarismo» e sul «neutro» nel recente diritto antidiscriminatorio, gli interventi presentati nel fascicolo 2/2022).
[18] Si v. in particolare, le esponenti del «femminismo neoliberale», a cui viene addebitata una «promozione in termini narcisistici dell’«individuo», il quale è indotto a considerare il proprio corpo e la propria sessualità come parte del proprio «capitale umano»», in un contesto complessivo in cui «i diritti sono considerati come assets del portfolio personale» (Re 2019, p. 32).