Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c7
Un altro punto di tensione nel dipanarsi dei rapporti fra le diverse legalità qui in esame si può aprire in fase di confronto con i diktat della Corte di Strasburgo: in virtù anche della rilevata differente natura delle due giurisdizioni, la Consulta potrebbe reclamare – e ha reclamato – un ulteriore margine di apprezzamento delle decisioni adottate a Strasburgo per poter essa stessa effettuare un proprio bilanciamento di tutti gli interessi coinvolti all’interno dell’ordinamento nel suo complesso. Un bilanciamento – come vedremo nell’analisi del caso che segue – di cui la Corte si fa garante, rivendicandone l’esclusiva [39]
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Su questi sommari cenni di problematiche aperte fra la legalità interna e quella convenzionale sembra proiettarsi l’ombra lunga della scelta operata dall’ordinamento italiano di riconoscere la Convenzione come una fonte comunque inferiore alla Costituzione, così finendo per scontare una posizione di mezzo, o «interposta». Uscendo dai rigidi confini della logica del sistema delle fonti, la questione di fondo è stata icasticamente tradotta nell’affermazione del «predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU» che la Corte ha reclamato in maniera forte e chiara nella sentenza n. 49/2015 [40]
; quella stessa sentenza in cui è scritto che – in forza di una lettura rigorosa dell’art. 101 della Costituzione sulla soggezione del giudice solo alla legge – non si può «ritenere che la CEDU abbia reso gli operatori giuridici nazionali, e in primo luogo i giudici comuni, passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale, quali che siano le condizioni che lo hanno determinato» [41]
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Ma forse – ed è questa la sfida che l’interlegalità pone – questi rilievi potrebbero essere riletti «dal basso», guardando innanzitutto alla rilevanza del caso in esame, poiché è la fattispecie concreta che inevitabilmente assume una posizione centrale nel momento in cui le legalità diventano plurime: come si osserva nell’introduzione a quest’opera, «nel regno della legalità al plurale il diritto è necessariamente composito e multiverso, ma non ha la forma generale e astratta, bensì quella del caso concreto» [42]
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Ed è con queste lenti che passiamo ad analizzare un filone giurisprudenziale di confronto – o di resistenza, secondo i parametri del contro-costituzionalismo – fra la Corte di Strasburgo e la Corte costituzionale italiana che si dipana lungo un decennio e che, pur guardato attraverso il prisma di una vicenda particolare, permette comunque di mettere in luce non solo il modo in cui l’interlegalità incrocia il contro-costituzionalismo, ma anche la distanza che (a tratti) separa la Consulta dalla Corte di Strasburgo.
In effetti, la saga sulle pensioni svizzere (anche dette «pensioni d’oro») si distende lungo un arco temporale decisamente ampio che arriva a lambire gli accordi conclusi {p. 174}fra Italia e Svizzera sul finire degli anni Sessanta [43]
, così permettendo un’analisi ad ampio raggio. Cosa si gioca su questa vicenda?
La fattispecie è (solo) apparentemente semplice. Una legge di interpretazione autentica del 2006 viene a stabilire retroattivamente la modalità di calcolo per l’erogazione delle pensioni dei lavoratori migranti svizzeri che, una volta tornati in Italia, trasferiscono i loro contributi pensionistici all’INPS: è superfluo aggiungere che tale calcolo comporta una riduzione della pensione maturata in proporzione ai contributi versati all’estero [44]
. Seppure tale legge venga a dirimere un conflitto oramai decennale fra l’INPS che, in forza dei minori contributi versati in Svizzera, ridimensionava d’ufficio l’aliquota pensionistica dei lavoratori migranti e la giurisprudenza di merito – fino ad arrivare in Cassazione – che rigettava tale decisione arbitraria dell’ente pubblico [45]
, {p. 175}essa viene nel contempo a realizzare quella classica interferenza del potere legislativo sul potere giudiziario, su cui la Corte di Strasburgo (e non solo) [46]
è particolarmente sensibile in quanto lesiva dello Stato di diritto e delle garanzie del giusto processo ex art. 6 della Convenzione.
Nel merito, il sig. Maggio ed altri quattro ricorrenti alla Corte di Strasburgo proprio questo contestano allo Stato italiano: il nuovo metodo di calcolo pensionistico applicandosi a situazioni precedenti la sua entrata in vigore ed oggetto di giudizi pendenti, costituisce un’interferenza a favore dello Stato sui processi in corso (violazione art. 6 CEDU), interferenza le cui conseguenze, per loro pregiudizievoli, finiscono per violare anche l’art. 1, Protocollo n. 1 CEDU, sul diritto di proprietà. La Corte di Strasburgo risponde in maniera perentoria: l’esigenza di riequilibrare il sistema pensionistico non può essere considerato un impellente motivo – o, meglio, non viene ritenuto «compelling enough» [47]
{p. 176}di interesse generale tale da giustificare una deroga o un affievolimento di un diritto fondamentale. Questa stessa ragione, viceversa, giustifica l’esclusione della violazione del Protocollo n. 1 CEDU, poiché la garanzia di un sistema previdenziale sostenibile ed equilibrato può comportare un ridimensionamento dei crediti pensionistici, sempre purché tale riduzione non comporti un onere eccessivo a carico dei soggetti interessati: nel caso specifico, essa non superava la metà di quanto avrebbero percepito in assenza della disciplina retroattiva né viene a intaccare la pensione minima.
La sentenza si conclude, dunque, con una condanna dello Stato italiano per violazione dell’art. 6 in quanto – come da giurisprudenza costante – ragioni di natura prettamente finanziaria non possono giustificare l’alterazione della divisione dei poteri [48]
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Di fronte a tale risposta era (quasi) scontato che la Cassazione tornasse a bussare alle porte della Consulta, questa volta anche in forza della possibile violazione dell’art. 117, c. 1 Costituzione. Ed è qui che la Corte costituzionale mostra i netti contorni dello speciale contro-costituzionalismo à l’italienne, sottoponendo ad un severo bilanciamento le possibili obiezioni legate all’adozione di una disciplina retroattiva con i principi (supremi) di solidarietà ed eguaglianza: vista da questa prospettiva, la legge 206/2006 risulta (ancora una volta) immune da vizi di costituzionalità. Possiamo dire che il bilanciamento in realtà non equivale ad opporre un controlimite? La questione, in realtà, è più complessa, poiché la decisione di non dar seguito alla giurisprudenza Maggio – o, meglio, di non dichiarare l’incostituzionalità della norma per violazione dell’art. 117, c. 1 Costituzione, nei limiti della contrarietà all’art. 6 CEDU – non risulta tanto legata all’incompatibilità con una o più disposizioni costituzionali, quanto piuttosto con «principi, diritti e beni di rilievo costituzionale» o «preminenti interessi generali» o «interessi antagonisti di rango costituzionale» [49]
: dun
{p. 177}que, «un diverso controlimite, o meglio, una sua diversa ampiezza» [50]
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Note
[39] Come osserva C. Pinelli, «Valutazione sistematica» vs. «valutazione parcellizzata»: un paragone con la Corte di Strasburgo, in «Giurisprudenza Costituzionale», 2012, p. 4229, la sentenza n. 264/2012 si distingue per «l’esplicita affermazione di una riserva esclusiva di bilanciamento, la quale costituirebbe l’autentico elemento differenziale con la tutela apprestata a Strasburgo».
[40] Il corsivo è nostro. In questa sentenza la Corte costituzionale chiarisce, senza mezzi termini, che comunque anche l’interpretazione convenzionalmente conforme richiesta al giudice ordinario non può risultare in contrasto con la lettura costituzionalmente conforme che il medesimo è chiamato a fornire, poiché «è fuori di dubbio che in tale ipotesi il giudice debba anzitutto obbedienza alla Carta repubblicana». Ancora più secca è l’osservazione, riportata nel testo, secondo cui il dovere di interpretazione conforme alla Convenzione «è ovviamente subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU» (sentenza n. 49/2015; più recentemente cfr. anche sentenza n. 25/2019).
[41] P.to 7. La dottrina non ha mancato di rilevare come proprio perché la fonte convenzionale occupa una posizione sub-costituzionale nel nostro ordinamento, essa risulta inesorabilmente depotenziata rispetto alla interpretazione conforme alla Costituzione, fino ad assumere il valore di mero argomento retorico: esemplarmente C. Caruso, Controllo di convenzionalità e interpretazione conforme: il ruolo del giudice nazionale, in «Questione giustizia», 2019, p. 212, osserva che «proprio la particolare natura della Convenzione e la sua posizione nell’ordinamento interno depotenziano la portata precettiva dell’interpretazione conforme al diritto convenzionale. La giurisprudenza costituzionale ha, infatti, progressivamente svuotato tale canone ermeneutico, il quale ha smesso le vesti della regola sulla interpretazione per assumere i tratti, meno dirompenti, del semplice argomento interpretativo».
[42] Cfr. Palombella e Scoditti, L’interlegalità e la ragion giuridica del diritto contemporaneo, in questo volume; si noti che il ruolo del caso concreto sulla decisione che coinvolge l’ordinamento convenzionale è stato più volte sottolineato, forse più per altri motivi, anche dalla Corte costituzionale: esemplarmente si vedano le osservazioni riguardo la valenza della decisione della Corte di Strasburgo, che «ancorché tenda ad assumere un valore e generale di principio (…), resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata: la circostanza che il giudizio della Corte europea abbia ad oggetto un caso concreto e, soprattutto, la peculiarità della singola vicenda su cui è intervenuta la pronuncia devono, infatti, essere adeguatamente valutate e prese in considerazione da questa Corte, nel momento in cui è chiamata a trasporre il principio affermato dalla Corte di Strasburgo nel diritto interno e a esaminare la legittimità costituzionale di una norma per presunta violazione di quello stesso principio» (sentenza Corte costituzionale n. 236 del 2011, par. 12).
[43] Più specificamente, in forza dell’accordo italo-svizzero, i cittadini italiani che hanno lavorato in Svizzera e là versato i loro contributi previdenziali, una volta tornati definitivamente in patria possono chiederne il trasferimento all’assicurazione sociale italiana. L’accordo non si occupa del problema del diverso regime contributivo esistente nei due Stati: tuttavia, l’INPS, a partire dal 1982, al momento di liquidare i trattamenti pensionistici procede costantemente ad un ricalcolo della pensione in senso riduttivo, motivo per cui cominciano ad aprirsi cause davanti ai giudici ordinari, che arrivano poi in Cassazione: con orientamento consolidato il giudice degli ermellini condanna tale intervento dell’INPS in quanto non solo non previsto dalla legge, ma anche perché costituisce un’arbitraria modifica dei criteri di liquidazione della pensione. Stante questa discrepanza fra organo erogatore delle pensioni e giurisprudenza, il legislatore decide di intervenire inserendo un comma nella legge di bilancio del 2006 (art. 1, c. 777, l. 296/2006) con cui dispone una interpretazione autentica dell’art. 5, c. 2, d.p.r. n. 488/1968 ai fini di riproporzionare la liquidazione delle prestazioni pensionistiche in base ai contributi effettivamente versati all’estero: il ricalcolo conseguente alla riforma del 2006 comportava, anch’essa, una disciplina non favorevole ai cittadini italiani che avevano lavorato in Svizzera (senza, chiaramente, intaccare i diritti oramai acquisiti).
[44] Si noti che tale norma viene subito, più volte, sottoposta al vaglio della Corte costituzionale da parte della Cassazione: con la sentenza n. 172/2008, il giudice delle leggi, tuttavia, respinge i dubbi di legittimità su un’eventuale violazione degli artt. 3, c. 1, 35 e 38, c. 2 Costituzione.
[45] Cfr. esemplarmente Cassazione 6 marzo 2004 n. 4623; Cassazione 26 ottobre 2004, n. 20713; Cassazione 12 aprile 2005, n. 7455. Più ampiamente sulla vicenda processuale di merito si veda B. Caponetti, Le pensioni svizzere e il dialogo tra le Corti: non guardarmi, non ti sento, in «Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale», 2018, p. 91 ss., e, criticamente, A. Riccio, Brevi note in attesa di una nuova pronuncia della Consulta sulle pensioni dei lavoratori migranti, in «Rivista Italiana di Diritto del Lavoro», 2015, pp. 880 ss.
[46] Non è analizzabile in questa sede il dialogo fra Corte costituzionale italiana e Corte di Strasburgo, a tratti invero problematico, sulla posizione da riservare alle leggi retroattive all’interno di un ordinamento giuridico: tale esistente tensione sul punto si può leggere fra le righe anche del caso in esame. Sul merito della vicenda, su questo punto, si rimanda a R. Caponi, Retroattività delle leggi: limiti sostanziali v. limiti processuali nel dialogo tra le corti ([Osservazione a] Corte costituzionale, 28 novembre 2012, n. 264), in «Giurisprudenza Costituzionale», 2012, pp. 4232 ss.
[47] Più precisamente si veda la sentenza della Corte EDU, Maggio e altri c. Italia, Ricorsi nn. 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08 (Seconda Sezione, 31 maggio 2011) par. 49: «Quanto alla tesi del Governo che la Legge era stata necessaria per ristabilire un equilibrio nel sistema pensionistico eliminando qualsiasi vantaggio goduto dalle persone che avevano lavorato in Svizzera e versato contributi inferiori, la Corte accetta che vi fosse un motivo di interesse generale, ma non è convinta del fatto che esso fosse sufficientemente impellente da superare i pericoli inerenti all’utilizzo della legislazione retroattiva, che ha l’effetto di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia pendente in cui lo Stato era parte» (corsivo nostro).
[48] Ibidem, par. 47, in cui si afferma ulteriormente che «considerazioni finanziarie non possono da sole determinare le controversie».
[49] Sentenza della Corte costituzionale del 28 novembre 2012, n. 264/2012 (cui ha fatto seguito l’ord. del 23 gennaio 2014, n. 10), passim.
[50] G. Strozzi, La tutela (s)bilanciata dei diritti dell’uomo, in «Il Diritto dell’Unione Europea», 2014, p. 190; così anche G. Amoroso, Nota a sentenza 264/2012, in «Foro Italiano», 2013, p. 31, osserva che nel momento in cui il parametro interposto non si sottrae esso stesso al bilanciamento della Corte costituzionale con i parametri costituzionali interni, si può parlare «in un significato più ampio di “controlimite” alle norme della CEDU come parametro interposto».