Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c2
Le interazioni, filtrate attraverso le pronunce delle Corti, nazionali o sovranazionali, ci restituiscono una realtà giuri
{p. 34}dica che appare mettere in relazione ciò che è nato per non esserlo, ossia impone sia pure incrementalmente interferenze non previste negli statuti normativi di quei self-observing systems identificati nelle pionieristiche letture sistemiche di Gunther Teubner.
Tra le principali conseguenze, sta il fatto che il carattere normativo di ciò che ha per fonte altri ordinamenti sfugge alla nostra decisione piuttosto che dipendervi.
Riconoscere che qualcosa ha carattere normativo, peraltro, non coincide con la necessaria subordinazione ossia, come si legge in Hans Georg Gadamer, con l’applicazione della pretesa normativa altrui nel «nostro» contesto [11]
. Dalla posizione dell’ordinamento adottato come punto di vista, tuttavia, la pluralità degli ordinamenti non si risolve in un fatto o in ambiente, ma è produttiva di valori giuridici, fornisce anch’essa a sua volta prestazioni selettive del sistema giuridico. L’ordinamento che fronteggia l’ordinamento nel quale l’attore è collocato non è un fatto ma è valore giuridico esso stesso ed è diritto cogente allo stesso modo. Nel rapporto fra ordinamenti non c’è più l’asimmetria luhmanniana fra sistema e ambiente: ciascun ordinamento vale al cospetto dell’altro come sistema e non come ambiente.
Nel tempo della legalità al plurale, dunque, la precettività giuridica è condivisa fra più ordinamenti. Il «pluralismo» ha carattere effettivo, nel senso che si tratta di ordinamenti ad efficacia giuridica costante, e non intermittente a seconda del punto di vista adottato. L’un ordinamento produce effetti giuridici in costanza di quelli prodotti dall’altro, e non in dipendenza della decisione di quest’ultimo.
In secondo luogo cambia volto l’assioma del diritto valido. La validità riconduce ad un criterio, si tratti della norma presupposta in senso logico-trascendentale à la Kelsen o della prassi sociale di riconoscimento del diritto valido à la Hart, criterio che discrimina fra il diritto che vale e ciò che non può valere come tale, collocando nel girone della {p. 35}non-validità il diritto prodotto dall’ordinamento informato ad un diverso criterio di validità [12]
. Nel regno della legalità al plurale anche la validità acquista una connotazione al plurale. Essa continua ad essere criterio di identificazione del diritto, ma non quale operazione costruibile esclusivamente da un punto di vista, per così dire, domestico. La ricostruzione della validità rilevante diventa plurale, se saranno plurali le «legalità» rilevanti: sarà cioè debitrice di altrettanti giudizi di validità compiuti attraverso criteri che altri regimi e altri ordinamenti a loro volta posseggono. Assumendo un punto di vista ordinamentale dato, non si esclude più necessariamente la validità del diritto retto da una diversa norma fondamentale o di riconoscimento.
Secondo la celebre distinzione esposta da Herbert Hart fra punto di vista interno al sistema giuridico, che è quello di colui che lo adotta come regola di comportamento, e punto di vista dell’osservatore esterno, che guarda al sistema (non come precetto ma) come fatto storico [13]
, il criterio di validità di un ordinamento è sì osservabile dall’esterno, ma per l’appunto quale fatto e non quale valore giuridico. Nello {p. 36}scenario della legalità al plurale quel criterio può essere colto, dal punto di vista del sistema giuridico che lo fronteggia, proprio come valore giuridico: cioè come criterio non solo operante nell’«altro» sistema, ma anche nel contesto comune del caso in cui di quel sistema è riconosciuta la legalità [14]
.
La semplice superficie del fenomeno sembra ricondurre al diritto disperso fra impero, feudi, municipalità e corporazioni, come all’epoca di Federico II di Svevia e del Sacro Romano Impero. In realtà, al di là della mera sovrapposizione di ordinamenti, e al di là della superficie, una trama giuridica appare alla base della legalità al plurale. C’è una struttura che si forma nell’apparente dispersione, come vedremo più avanti, e si manifesta nel diritto che emerge in occasione delle mille convergenze che si stabiliscono fra ordinamenti.

2. Interferenze «in concreto»

Se in un contesto dato due o più ordinamenti sono produttivi di effetti giuridici, se tutti costituiscono un valore giuridico e ciascuno non resta l’uno criterio di valutazione dell’altro, il diritto rilevante è allora quello che risulta dall’interconnessione che si stabilisce fra le diverse legalità nel caso concreto. Nel regno della legalità al plurale il diritto è necessariamente composito e multiverso, ma non ha la forma astratta e generale, bensì quella del caso concreto.
Per quanto un ordinamento, come accade con il primo comma dell’art. 117 della Costituzione italiana, contempli «vincoli» derivanti dall’ordinamento sovranazionale e da quello internazionale, l’interlegalità, costituendo il «fra» {p. 37}delle relazioni dei diversi regimi giuridici nel caso concreto, non emerge né rileva su quel piano, dell’enunciazione astratta e generale all’interno del singolo sistema. Essa è il «corpo» normativo e la specifica qualità giuridica che emergono nei singoli episodi di contatto fra ordinamenti. In primo luogo, l’esercizio della funzione normativa da parte di un ordinamento «nel rispetto» dei «vincoli» derivanti da un altro ordinamento attiene alla dinamica interna del singolo sistema giuridico, il quale si dispiega nei confronti del proprio ambiente di riferimento considerando anche quanto ritiene di incorporare, facendolo proprio, da altri ordinamenti. Con l’interlegalità è invece in questione l’interferenza che avviene fra sistemi quando un singolo episodio fattuale ricade allo stesso tempo in due o più ordinamenti senza che possa considerarsi interno all’uno o all’altro. In secondo luogo, l’interlegalità non risiede in una enunciazione astratta di sistema, perché l’articolazione fra regimi giuridici non è l’esito di una preventiva pianificazione da parte di un soggetto creatore di diritto, ma è un accadimento di interferenza nel caso concreto di vettori normativi di provenienza diversa. È solo quando, nel singolo caso, le legalità si fronteggiano e si intrecciano che emerge l’istanza dell’interlegalità. Dal punto di vista astratto, invece, si nota la giustapposizione fra le diverse legalità.
Tutta la forza di gravità del fenomeno dell’interlegalità è dunque concentrata nel fondo del caso: le circostanze che si irradiano dal fatto evocano diversi ordinamenti; all’unitarietà del fatto si contrappone la pluralità delle fonti, a sua volta derivante dalla necessità che la sua disciplina ha imposto. Il diritto interlegale è un diritto re-centrato, è un diritto del caso concreto.
Si tratta pertanto di un diritto in primo luogo aggiudicatorio, ma non solo. È in primo piano l’opera delle corti, ma non solo di queste: il fatto costituisce un evento alla cui disciplina e finanche soluzione, lavorano per innumerevoli rami i funzionari, i «regolatori», gli stakeholders. A questi, senza nulla voler sottrarre al ruolo svolto dall’opera giudiziale, è sempre più affidato un processo permanentemente {p. 38}«sperimentale» di problem solving, e un metodo decisamente post-moderno di apprendimento attraverso i casi (trial and error [15]
), reali o potenziali.
Tuttavia, risalire dalla dimensione «concreta» che l’interlegalità possiede a una sua predeterminazione in astratto (come codificata e pre-normata) significa scegliere una strada che alla fine conduce a negarla. Un teorema di armonizzazione ispirato da un tendenziale monismo giuridico non corrisponde al punto di vista dell’interlegalità per il quale, riflettendo le presenti trasformazioni del diritto, le possibilità di una reductio ad unum appaiono lontane. Il monismo appare una legittima scelta normativa che si pone tuttavia su un diverso piano rispetto all’ottica interlegale.
Vi è una differenza tra l’interlegalità e l’intercostituzione, tesi emersa nella dottrina italiana [16]
, e che istituisce un rapporto di sistema tra le varie carte dei diritti (nei diversi livelli, nazionale internazionale e sovranazionale) ponendo la propria norma fondamentale nella «massima tutela dei diritti». L’intercostituzione ha un approccio diverso rispetto a quello dell’interlegalità, e tende ad apparire come un sistema unitario imperniato appunto sulla regola della
{p. 39}tutela dei diritti al massimo livello [17]
. È da considerare se e quanto l’effetto unificante, derivante dalla presenza di una meta-norma, smarrisca lo specifico del tema della legalità al plurale. Dal punto di vista dell’interlegalità, l’interferenza fra ordinamenti, che si stabilisce per effetto delle circostanze del caso, non è risolta da una meta-norma, ma dallo stesso dispiegarsi della dinamica dell’interferenza, la quale per ciò solo produce un diritto che è interlegale, come si dirà nel seguito.
Note
[11] Su questo punto, cfr. G. Palombella, Interlegalità. L’interconnessione tra ordini giuridici, il diritto, e il ruolo delle corti, in «Diritto e questioni pubbliche», 2018, pp. 315 ss., 323.
[12] Sulla funzione della regola di riconoscimento in Hart, si noti quanto, anche in senso parzialmente «liberalizzante», ricordava Giorgio Pino: «La norma di riconoscimento, dunque, anziché essere una lista di criteri di validità, è l’insieme dei criteri e delle considerazioni normative che guidano il giudice nelle sue attività di applicazione del diritto: può dirigere il giudice verso l’applicazione di norme valide o, come pure può ben accadere, verso l’applicazione di norme e standards di altro tipo; e includerà anche un ordine di preferenza delle varie fonti, metodologie interpretative ed autorità decisionali rilevanti. Nel complesso, nei sistemi giuridici contemporanei, prodotti da complesse stratificazioni storiche, con molteplici livelli di fonti del diritto, e con complicate interazioni con altri sistemi giuridici, è abbastanza implausibile che la norma di riconoscimento consista di un insieme assiomatico, nettamente strutturato di criteri; più probabilmente, sarà un insieme di considerazioni normative defettibili, che funzionerà più o meno come la ricerca di un equilibrio riflessivo» (La norma di riconoscimento come ideologia delle fonti, in «Analisi e diritto», 2015, pp. 183 ss., 198). Cfr. anche G. Palombella, L’autorità dei diritti, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 105-106.
[13] H.L.A. Hart, Il concetto del diritto, Torino, Einaudi, 2002, pp. 118 ss. (a p. 291 Hart differenzia la propria nozione di norma di riconoscimento da quella fondamentale di Kelsen).
[14] A volerne estendere le implicazioni e mutatis mutandis potrebbe rivelarsi interessante al confronto, non solo per differentiam, la discussione di termini come validità ed applicabilità svolta da Giorgio Pino, in particolare con riferimento ai cd. «metacriteri» di applicabilità che si formano in relazione alla cultura giuridica rilevante: G. Pino, Teoria analitica del diritto, vol. I: Teoria della norma, Pisa, ETS, 2016, specie pp. 152-154.
[15] È significativo che l’«apprendimento» su cui sembra concentrarsi la discussione in tema di governance e di regolazione non solo concerne l’evolversi delle regole, ma anche l’istituzionalizzazione di nuove autorità normative o giudicanti. Criticamente scrive Jorge Viñuales, «[A]ll too often, discussions of trial-and-error processes focus neither on trial nor on errors» (J.E. Viñuales, Experiments in International Adjudication. Past and Present, in I. de la Rasilla e J.E. Viñuales [a cura di], Experiments in International Adjudication, Cambridge, Cambridge University Press, 2019, pp. 11 ss., 11). In diritto internazionale per esempio, secondo Viñuales, il focus cade sull’istituzione di nuovi, stabili tribunali arbitrali, o di una corte permanente, o di giudici specializzati ecc. Il baricentro dell’interesse dovrebbe riguardare essenzialmente il progresso del ragionamento giuridico e la incrementale ridefinizione delle modalità e dei rapporti tra norme che ne risulta (appunto il focus su trial and errors).
[16] Si tratta della tesi sostenuta da Antonio Ruggeri, del quale si veda a titolo esemplificativo, fra i numerosi scritti, Maggiore o minor tutela nel prossimo futuro per i diritti fondamentali?, in «Consulta OnLine», 5 febbraio 2015, n. 1, pp. 33 ss.
[17] Tanto l’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, quanto l’art. 53 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, prevedono una simile regola: tuttavia, dal punto di vista dell’interlegalità, questa è in realtà la norma che disciplina solo il conflitto fra più fonti, e segnatamente il conflitto fra più carte dei diritti. Si veda in generale sull’art. 53, E. Crivelli, Commento all’art. 53 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in S. Bartole, P. De Sena e V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, CEDAM, 2012, pp. 774 ss.