Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c15
Sono in definitiva frequenti i casi nei quali la struttura e il funzionamento di Internet rendono necessario gestire in concreto la sovrapposizione e l’interconnessione di norme prodotte da più ordinamenti giuridici diversi ed eterogenei. Un’operazione, peraltro, la cui complessità dipende essenzialmente dalla necessità di conciliare due esigenze opposte [12]
, all’interno di un simile sistema policentrico e non gerarchico di fonti normative [13]
che convergono su un medesimo oggetto
{p. 410}di regolazione: da un lato, riconoscere a ciascun ordinamento la facoltà di esercitare le proprie competenze istituzionali; dall’altro lato, contenere o regolare gli effetti spillover, extra-territoriali ed extra-sistematici, che qualsivoglia prospettiva unilaterale inevitabilmente può produrre, talora compromettendo le prerogative di altri ordinamenti parimenti legittimati o interessati a disciplinare il medesimo fatto [14]
.
Lo scopo della presente analisi è, dunque, quello di comprendere se, nel vasto e articolato panorama regolatorio che interessa il Web, i singoli attori normativi abbiano adottato specifiche soluzioni per gestire la strutturale molteplicità delle norme che rilevano rispetto a ogni singolo caso e, soprattutto, se tali soluzioni siano effettivamente coerenti con la prospettiva dell’interlegalità, intendendo ora tale categoria anche quale criterio normativo, in virtù del quale sono – o dovrebbero essere – tutte le legalità sovrapposte e concorrenti a definire il diritto del caso concreto [15]
.
In questa prospettiva, i paragrafi 2 e 3 sono dedicati, rispettivamente, all’analisi dell’approccio regolatorio adottato da singoli Stati e dagli altri regolatori del Web, al fine di verificare se, nel plasmare la disciplina di Internet, ciascun ordinamento si dimostri consapevole del fatto che il caso regolato potrà contemporaneamente essere soggetto anche ad altre norme, provenienti da altri sistemi. Nel paragrafo 4 sono analizzati, invece, alcuni recenti casi giurisprudenziali, al fine di valutare se, qualora i regolatori assumano una prospettiva unilaterale, possano essere le corti a compensare i limiti della regolazione, promuovendo il punto di vista dell’interlegalità. Nel paragrafo 5 si prospettano, infine, le potenzialità della categoria dell’interlegalità, quale criterio di «composizione» della regolazione esistente, ma soprattutto quale principio ispiratore per i futuri sviluppi della disciplina di Internet.{p. 411}

2. I regolatori di Internet alla prova dell’interlegalità. (I) Gli Stati

Come si è anticipato, il funzionamento di Internet è parso sin dalle origini un fenomeno capace di mettere in discussione su più versanti la sovranità degli Stati: tant’è vero, infatti, che la stessa nozione di cyberspace è stata concepita proprio al fine di descrivere una realtà che si voleva estranea e trasversale rispetto alle frontiere geografiche [16]
, uno spazio virtuale delimitato soltanto da indirizzi, domini e password, nel quale sarebbe venuta meno non già la sola fattibilità, quanto piuttosto la stessa legittimità di qualsivoglia disciplina adottata a livello nazionale [17]
. Già nelle prime riflessioni teoriche relative alla regolazione dello spazio virtuale, dunque, fattori quali la natura strutturalmente globale del fenomeno e la percepita assenza di delimitazioni territoriali erano posti alla base di una radicale contestazione dell’autorità dello Stato rispetto alla regolazione del Web.
Prescindendo dalle posizioni più estreme, che attribuivano alla deregolamentazione di Internet un significato prettamente politico [18]
, interessa ora osservare come uno dei principali ostacoli all’adozione di discipline statali per il cyberspace fosse individuato, per l’appunto, nella capacità di ogni contenuto presente sul Web di produrre contestualmente effetti significativi «in ogni altra parte della rete», cioè a dire «praticamente ovunque sul pianeta» [19]
: il che, a voler ragionare in termini tradizionali, avrebbe condotto inesorabilmente «alla conclusione che (quasi) tutto ciò che {p. 412}fai sul Web può essere soggetto alla legge di (quasi) ciascuno. Simultaneamente» [20]
.
Una siffatta prospettiva, tuttavia, pareva insostenibile in termini pratici, potendo cioè sortire l’effetto di assoggettare chiunque agisse su Internet a tutte le discipline vigenti e dunque, o ex ante alla legge che apparisse più restrittiva e, quindi, compatibile «per eccesso» con tutte le altre normative rilevanti [21]
, oppure ex post alla legge che risultasse casualmente applicabile, a seguito dell’(arbitrario) esercizio della propria giurisdizione da parte di una delle tante autorità statali coinvolte [22]
. Di conseguenza, appariva preferibile che i poteri normativi dello Stato fossero trasferiti a soggetti privati e a gruppi, dato che – si riteneva – soltanto gli stessi attori del cyberspace avrebbero potuto adottare una disciplina per la rete, quale ordine giuridico spontaneo: una sorta di lex electronica che potesse regolare uniformemente le transazioni sul Web, prescindendo da qualsiasi apparato tradizionalmente deputato all’esercizio del potere [23]
.
D’altra parte, anche alcuni tra i fautori della possibilità di regolare il cyberspace con un tradizionale approccio top-down hanno inizialmente riservato allo Stato un ruolo per certi versi marginale, ritenendo che la regolazione del Web fosse in tanto giuridicamente fattibile, in quanto capace di adattarsi alle caratteristiche del fenomeno da regolare: da qui la proposta di ricorrere a strumenti di armonizzazione internazionale o ad accordi transnazionali [24]
, come già accadeva per altri fenomeni di portata transfrontaliera.
Nella prassi, tuttavia, gli Stati hanno continuato ad applicare a Internet la regolazione già esistente, ripudiando le teorie che volevano il cyberspace estraneo alla giurisdizione {p. 413}statale e, anzi, sforzandosi per trasferire sul Web gli esistenti confini geografici.
Una delle peculiarità di questo nuovo mezzo di comunicazione, dunque, è stata quasi paradossalmente quella di attribuire alle discipline degli Stati – tradizionalmente intesi quali enti a «fini generali», ma con «competenza territoriale» – una proiezione potenzialmente globale.
A prescindere dalla localizzazione fisica di singoli fenomeni in sé considerati, infatti, gli Stati hanno sin da subito percepito l’urgenza di assicurare a ciò che avveniva online il medesimo livello di tutela giuridica che era ordinariamente garantito a ciò che accadeva offline. Risultato, quest’ultimo, al quale non si poteva addivenire se non applicando, ogniqualvolta fosse necessario, la legislazione nazionale, indipendentemente da (e senza alcun riguardo per) gli eventuali effetti extra-territoriali delle proprie decisioni [25]
.
Così, ad esempio, gli Stati hanno continuato ad applicare pianamente la disciplina interna in tema di diffamazione (com’è testimoniato dal caso Gutnick [26]
, considerato l’emble{p. 414}ma di un approccio «nazionalistico» [27]
e «campanilistico» [28]
a Internet), o in materia di proprietà intellettuale (come nella controversia tra Louis Féraud e Viewfinder [29]
) anche ai contenuti pubblicati online, non sempre verificando se le ragioni di altri ordinamenti o, soprattutto, le ragioni
{p. 415}dei singoli risultassero pregiudicate da tale approccio unilaterale a casi di potenziale rilevanza globale. La vicenda Louis Féraud v. Viewfinder, in particolare, è efficacemente rappresentativa di tale incomunicabilità tra contrapposte visioni unilaterali. Da un lato, infatti, il Tribunal de Grande Instance di Parigi – adito da alcuni stilisti francesi a seguito della pubblicazione non autorizzata di contenuti protetti dal copyright sul sito statunitense firstview.com, che raccoglieva fotografie di sfilate di moda – ha condannato il portale medesimo al risarcimento dei danni e alla rimozione dei contenuti dal Web, senza prendere in considerazione né eventuali disposizioni applicabili provenienti dall’ordinamento straniero, né la posizione del portale e i confini del suo diritto alla libertà di espressione. Dall’altro lato, la District Court di New York, negando il riconoscimento degli effetti della decisione del Tribunale francese, perché ritenuta incompatibile con il Primo emendamento della Costituzione americana, non ha tenuto in alcun conto le ragioni degli stilisti e l’eventuale lesione loro arrecata dalla diffusione non autorizzata dei contenuti [30]
.
Note
[12] Cfr. ancora Schultz, Carving up the Internet, cit., p. 808.
[13] Lo osservano P. De Hert e E. Mantovani, Global law will be Responsive Law, at least with regard to Cyberspace, in «Tilburg Law Review», 17, 2012, pp. 346 ss.: 347.
[14] In relazione agli effetti spillover connessi all’esercizio della giurisdizione su Internet, cfr. Goldsmith, Unilateral Regulation of the Internet: A Modest Defence, cit., pp. 142 ss.
[15] Cfr. ancora Palombella, Theory, Realities, and Promises of Interlegality, cit., pp. 363 ss.
[16] Cfr. J.P. Barlow, A Declaration of the Independence of Cyberspace, in eff.org, 8 febbraio 1996, ma anche J. Cohen, Cyberspace As/And Space, in «Columbia Law Review», 107, 2007, pp. 10 ss.
[17] Cfr. Johnson e Post, Law and Borders, cit., pp. 1370 ss. Contra, cfr. ad es. J.L. Goldsmith, The Internet and the Abiding Significance of Territorial Sovereignty, in «Global Legal Studies Journal», 5, 1998, n. 2, pp. 475 ss.
[18] È il caso della posizione di Barlow, A Declaration of the Independence of Cyberspace, cit.
[19] D. Post, Governing Cyberspace: Law, in «Santa Clara High Tech Law Journal», 24, 2008, n. 4, pp. 883 ss.: 891.
[20] Ibidem.
[21] Cfr. Schultz, Carving up the Internet, cit., p. 813.
[22] Cfr. Post, Governing Cyberspace: Law, cit., p. 910.
[23] Cfr. Johnson e Post, Law and Borders, cit., p. 1389.
[24] Per una visione d’insieme, cfr. Schultz, Carving up the Internet, cit., pp. 802-803. Cfr. anche J. Goldsmith e T. Wu, Who controls the Internet? Illusions of a borderless world, Oxford, Oxford University Press, 2006, pp. 13 ss., ma anche sui rapporti tra sovranità territoriali e Internet, L. Lessig, Code, Basic Books, 2006, pp. 279 ss.
[25] Cfr. essenzialmente Goldsmith e Wu, Who controls the Internet?, cit., pp. 49 ss., nonché, sulla tensione tra local law e global law in tali ipotesi, J. Zittrain, Be Careful What You Ask For: Reconciling a Global Internet and Local Law, Harvard Law School Public Law, Research Paper n. 60, 2003.
[26] High Court of Australia, Dow Jones and Company Inc v. Gutnick, 10 dicembre 2002. Il caso nasce dalla pubblicazione sul periodico «Barron’s Online», dell’editore Dow Jones, diffuso principalmente negli USA, ma accessibile online da qualsiasi luogo, di un articolo dal titolo Unholy Gains, nel quale si diceva che Mr. Gutnick, uomo d’affari e imprenditore australiano, aveva avuto rapporti finanziari con un soggetto condannato per reati fiscali e riciclaggio. La Corte ha affermato la giurisdizione australiana e l’applicabilità della legislazione australiana in materia di diffamazione a tale contenuto, pubblicato negli Stati Uniti, sottolineando come – pur preso atto del rilievo secondo il quale, a seguito dell’applicazione unilaterale delle legislazioni nazionali da parte dei singoli Stati dal cui territorio il contenuto sia (semplicemente) accessibile, «a publisher would be bound to take account of the law of every country on earth, for there were no boundaries which a publisher could effectively draw to prevent anyone, anywhere, downloading the information it put on its web server» – tuttavia, nel caso sottoposto al suo scrutinio, «it is his reputation in that State, and only that State, which he [Mr. Gutnick] seeks to vindicate. It follows, of course, that substantive issues arising in the action would fall to be determined according to the law of Victoria. But it also follows that Mr Gutnick’s claim was thereafter a claim for damages for a tort committed in Victoria, not a claim for damages for a tort committed outside the jurisdiction». Anche nell’opinion del Justice Callinan, si legge che, nonostante la «ubiquity of the Internet» e l’obiezione che, di conseguenza, «a publisher would be bound to take account of the law of every country on earth», «the fact that publication might occur everywhere does not mean that it occurs nowhere». Cfr. Maier, How Has the Law Attempted to Tackle the Borderless Nature of the Internet?, cit., p. 154. In sostanza, la High Court australiana ha applicato la legislazione nazionale in tema di diffamazione, negando che la questione presentasse alcun profilo di potenziale rilevanza extra-territoriale. La pronuncia è perciò ritenuta a «dangerous judgement» (non tanto per l’esito, quanto per la motivazione della decisione) da U. Kohl, Defamation on the Internet: Nice Decision, Shame about the Reasoning: Dow Jones & Co Inc v Gutnick, in «The International and Comparative Law Quarterly», 52, 2003, n. 4, pp. 1049 ss.: 1055-1056, che censura la linea argomentativa seguita dai giudici australiani, nella parte in cui hanno statuito, più o meno esplicitamente, che chiunque agisca online debba aspettarsi di essere esposto alle leggi di qualsiasi Stato e che tale problema, tuttavia, sia più ipotetico che reale, considerata la tendenziale inefficacia pratica delle legislazioni statali rispetto a Internet.
[27] Cfr. R. Garnett, Dow Jones & company Inc V Gutnick. An Adequate Response to Transnational Internet Defamation?, in «Melbourne Journal of International Law», 2003, n. 4, pp. 197 ss.
[28] Cfr. in questi termini U. Kohl, Conflict of Laws and the Internet, in R. Brownsword, E. Scotford e K. Yeung (a cura di), The Oxford Handbook of Law, Regulation and Technology, Oxford, Oxford University Press, 2017, pp. 269 ss.: 274-275.
[29] Si fa riferimento alla pronuncia della United States District Court, SD New York, Sarl Louis Féraud International v. Viewfinder Inc., del 29 settembre 2005: la District Court ha dichiarato incompatibile con il Primo emendamento la decisione del Tribunal de Grande Instance de Paris, che aveva condannato il portale Viewfinder, per aver pubblicato contenuti in violazione dei diritti di proprietà intellettuale dei designers ricorrenti, al risarcimento dei danni e alla rimozione dei contenuti dal portale, con un’astreinte in caso di inadempimento (cfr. anche le diverse pronunce rese dal Tribunal de Grande Instance de Paris il 2 maggio 2001, nelle cause portate avanti da numerosi designers francesi). Cfr. anche Schultz, Carving up the Internet, cit., p. 810.
[30] Anche la successiva decisione della US Court of Appeals (cfr. US Court of Appeals for the Second Circuit, Sarl Louis Féraud International, S.A. Pierre Balmain v. Viewfinder Inc., 5 giugno 2007) intervenuta sulla questione, ha perpetuato la medesima prospettiva unilaterale, affermando che la pronuncia del Tribunal de Grande Instance potesse essere riconosciuta dall’ordinamento statunitense soltanto a condizione che la legislazione francese rilevante tutelasse il copyright nello stesso modo in cui lo tutelava la legislazione degli Stati Uniti.