Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c18
Come in parte emerge dalla dottrina richiamata poco sopra, la teoria della political question si presta talvolta {p. 516}ad interpretazioni piuttosto estensive e volte a precludere qualsiasi forma di controllo giurisdizionale. Si può qui richiamare, solo per fare un esempio, una certa giurisprudenza del Tribunale speciale per il Libano. Nel caso Ayyash, la camera d’appello del tribunale ha sostenuto l’impossibilità di un sindacato giurisdizionale delle decisioni del Consiglio di sicurezza in ragione della natura strettamente politica degli accertamenti compiuti da quell’organo quando agisce sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Nelle parole dei giudici, infatti, «the Security Council’s determination as to the existence of a threat to international peace and security is not subject to judicial review» [37]
. Insindacabili sono anche, ad avviso del Tribunale speciale per il Libano, le decisioni del Consiglio «regarding the measures it employs once it has found that such threat exists» [38]
. Anche qui ci si troverebbe di fronte ad una «sole and exclusive prerogative» del Consiglio, poiché ogni decisione relativa alle misure più idonee al fine del mantenimento della pace è «essentially political in nature, and as such not amenable to judicial review» [39]
.
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Questi richiami alla teoria della political question sembrano invero muoversi ed essere ispirati da un atteggiamento che guarda al sistema all’interno del quale l’organo politico si trova ad agire, quello delle Nazioni Unite, come un ordinamento a sé stante, chiuso e autonomo [40]
. Ciò emerge in modo lampante dai numerosi richiami compiuti dal Tribunale speciale per il Libano ad una certa giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea e della Corte europea dei diritti umani, e in particolare ai celebri casi Kadi [41]
e Nada [42]
.
Nel primo caso, com’è noto, la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha deciso di procedere allo scrutinio di legittimità delle misure adottate dall’Unione, senza mettere formalmente e direttamente in discussione la liceità e la primazia degli atti delle Nazioni Unite a livello internazionale. Una conclusione decisamente influenzata dall’approccio fortemente dualista adottato dalla Corte, che guarda ai due ordinamenti in questione – quello dell’Unione europea e quello internazionale – come separati e indipendenti.
Nonostante il ragionamento che ha guidato la Corte di Strasburgo nel caso Nada sia stato in gran parte diverso da quello seguito dai giudici di Lussemburgo [43]
, è piuttosto {p. 518}indicativo il fatto che il Tribunale speciale per il Libano abbia scelto di richiamare le parole formulate dal giudice Malinverni nella sua opinione separata. Le considerazioni del giudice svizzero mettono bene in luce l’angolo prospettico da cui si è mosso il Tribunale per il Libano. Dopo aver premesso che il Consiglio di sicurezza «is required to act within the confines of the United Nations Charter» [44]
, il Tribunale speciale per il Libano riprende le parole di Malinverni, rilevando che «Security Council resolutions as such fall outside the Court’s direct supervision, the United Nations not being a party to the Convention» [45]
. L’idea di fondo, quindi, al di là dei richiami alla political question, sembra piuttosto essere che le decisioni del Consiglio sono adottate all’interno di un sistema distinto da quello della Corte di Strasburgo e rispetto al quale quindi i giudici non possono esercitare alcun controllo. Anche nella dinamica qui in esame, relativa al sindacato di validità delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, atteggiamenti simili finiscono per precludere la possibilità di soluzioni che tengano conto delle diverse legalità in gioco. Impostazioni ispirate alla separatezza e all’autonomia dei sistemi giuridici, gli approcci cd. dualisti, ignorano, o fingono di ignorare, le connessioni inevitabili tra le decisioni politiche del Consiglio e la tutela delle posizioni individuali in gioco, nonché, più in generale, l’incidenza che l’azione del Consiglio di sicurezza può avere sull’amministrazione della giustizia [46]
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4. Il controllo interlegale e i rapporti di forza tra le due organizzazioni

Se l’azione dell’organo politico non può essere ritenuta esterna, ed estranea, all’attività giudiziaria della Corte e se i due sistemi non possono essere trattati come ordini separati e distinti, alla luce di quali parametri e in che modo può essere esercitato il sindacato di validità delle decisioni del Consiglio di sicurezza?
Si può in primo luogo sostenere che un potere di sancire l’invalidità delle decisioni politiche è certamente da ammettere nel caso in cui queste ultime siano caratterizzate da un’arbitrarietà tale da ritenere che le prerogative riconosciute al Consiglio sfocino in un vero e proprio abuso di potere [47]
. Si può immaginare, ad esempio, la necessità di un intervento giurisdizionale nei confronti di decisioni difficilmente riconducibili ai poteri attribuiti al Consiglio di sicurezza o di atti che non possono essere ritenuti funzionali agli obiettivi della Carta delle Nazioni Unite o che si pongono comunque manifestamente in contrasto con i principi e le regole fondamentali dell’ordinamento internazionale.
Al di là delle ipotesi di manifesta arbitrarietà o abuso di potere, alcune riflessioni compiute in queste pagine mostrano come la soluzione dei possibili conflitti tra le istanze politi{p. 520}che del Consiglio e l’esercizio della funzione giurisdizionale del tribunale non può essere fornita in termini generali ed astratti. L’interprete non potrà che accertare di volta in volta le specificità dei fatti oggetto di causa, costruire le disposizioni rilevanti delle due sfere di legalità, tentare di conciliare per via ermeneutica le possibili contrapposizioni e, infine, individuare il principio interlegale in grado di decidere del caso concreto. In sostanza, così come il Consiglio non può trincerarsi dentro il proprio sistema di riferimento per rivendicare l’impossibilità di qualsiasi forma di intrusione nel dominio ad esso (primariamente, ma non esclusivamente) riservato, i giudici della Corte sono chiamati in qualche modo a farsi carico della prospettiva del Consiglio stesso, a valutare la compatibilità dell’azione politica, non solo con le regole del proprio trattato istitutivo, lo Statuto di Roma, ma anche con i principi della Carta delle Nazioni Unite (e, in particolare, il margine di discrezionalità sotteso agli accertamenti fondati sul capitolo VII) e del diritto internazionale generale. In altre parole, la portata del potere della Corte di sindacare la validità delle decisioni politiche non può essere ricostruita soltanto alla luce delle norme che guidano il funzionamento del tribunale, ma deve tenere in adeguata considerazione l’alto tasso di politicità e l’insieme dei parametri di legalità all’interno dei quali agisce il Consiglio di sicurezza.
In conclusione, non si possono qui ignorare altre componenti di natura politica e in qualche misura «di forza», che possono contribuire a fissare in un punto, ogni volta diverso, l’equilibrio tra azione politica e portata del sindacato giurisdizionale. Da un lato, gli organi del tribunale non possono trascurare le più generali ricadute politiche del proprio sindacato di validità delle decisioni del Consiglio di sicurezza: è sufficiente pensare al ruolo decisivo che il Consiglio può svolgere, attraverso il proprio potere coercitivo, nell’ambito della cooperazione degli Stati con il tribunale e al forte interesse dunque della stessa Corte ad intrattenere con l’organo politico delle relazioni, per così dire, amichevoli. Dall’altro lato, e al contempo, il Consiglio non può sottovalutare le conseguenze della propria azione {p. 521}(specie se arbitraria) in termini di legittimità e credibilità del suo stesso operato nell’amministrazione della giustizia penale internazionale e, più in generale, nella gestione della sicurezza collettiva: anche il Consiglio ha dunque un evidente interesse a non vedere sanzionate dal tribunale le proprie scelte per non rischiare di pregiudicare la sua (già alquanto compromessa, invero) centralità nella governance della sicurezza collettiva. Questa dimensione contestuale può svolgere un ruolo importante nel determinare gli atteggiamenti delle due organizzazioni (e quindi dei giudici del tribunale nell’esercizio del proprio potere di sindacato), anche al di là di quelle che sono le interpretazioni più corrette del dato normativo al centro del conflitto e della rilevanza che può essere, a seconda dei casi, attribuita alla dimensione politica della decisione. La mutevolezza di questi elementi di carattere politico e diplomatico rende impossibile fissarne a priori e in modo definitivo l’incidenza, che non può che dipendere dalle contingenze del caso concreto, dai rapporti di forza esistenti tra le due organizzazioni e dalla credibilità di cui esse godono o meno in un dato momento storico.
Note
[37] Tribunale speciale per il Libano, Decision on the Defence Appeals Against the Trial Chambers «Decision on the Defence Challenges to the Jurisdiction and Legality of the Tribunal», Camera d’Appello, STL1101/PT/AC/AR90.1, 24 ottobre 2012, par. 35.
[38] Ibidem.
[39] Ibidem, par. 52. Anche in dottrina non mancano simili prese di posizione; vi è chi ha affermato, ad esempio, che il Consiglio di sicurezza «is not bound by any definition or formula as to what constitues a threat to or breach of the peace or act of aggression», cfr. T.D. Gill, Legal and Some Political Limitations on the Power of the U.N. Security Council to Exercise its Enforcement Powers Under Chapter VII of the Charter, in «Netherlands Yearbook of International Law», 1995, p. 40. Già Kelsen, del resto, sosteneva, in termini più generali, che le risoluzioni del Consiglio, adottate sulla base del capitolo VII della Carta, non sono necessariamente vincolate al rispetto del diritto internazionale, dal momento che «the purpose of the enforcement action under Article 39 is not to maintain or restore the law, but to maintain or restore peace, which is not necessarily identical with the law», (H. Kelsen, The Law of the United Nations: A Critical Analysis of Its Fundamental Problems, London, Lawbook Exchange, 1951, p. 294). In questo stesso senso possono essere lette anche alcune osservazioni di R. Higgins, The Place of International Law in the Settlement of Disputes by the Security Council, in «American Journal of International Law», 1970, in particolare pp. 15-18.
[40] Si vedano le riflessioni in tal senso compiute da M. Buscemi, The non-justiciability of third-party claims before UN internal dispute settlement mechanisms. The «politicization» of (financially) burdensome questions, in «QIL-Questions of International Law», 2020, pp. 23-49.
[41] Cfr. Yassin Abdullah Kadi e Al Barakaat Internationl Foundation c. Consiglio e Commissione, cause riunite C-402/05 e C-415/05 P, sentenza del 3 settembre 2008, par. 326. Nonostante la difficoltà di ricostruire una chiara linea argomentativa seguita dalla Corte, già nei primi commenti alla sentenza si accennava alla «impressione di discontinuità fra ordinamento comunitario e diritto internazionale che emerge dalla sentenza», cfr. E. Cannizzaro, Sugli effetti delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza nell’ordinamento comunitario: la sentenza della Corte di giustizia nel caso Kadi, in «Rivista di diritto internazionale», 2008, p. 1078.
[42] Corte europea dei diritti umani, Nada c. Svizzera, ric. n. 10593/08, 12 settembre 2012.
[43] Si può vedere a riguardo E. De Wet, From Kadi to Nada: Judicial Techniques Favouring Human Rights over United Nations Security Council Sanctions, in «Chinese Journal of International Law», 2013, pp. 787-807 e volendo anche A. Bufalini e P. Palchetti, Potere, sicurezza e diritti dei terroristi (o presunti tali), in A. Ballarini, Prometeo. Studi su eguaglianza, democrazia, laicità, Torino, Giappichelli, 2015, pp. 155-169.
[44] Tribunale speciale per il Libano, Decision on the Defence Appeals Against the Trial Chambers, cit., par. 48.
[45] Ibidem, richiamando l’opinione separata del giudice Giorgio Malinverni nel caso Nada c. Svizzera, cit., par. 15.
[46] In questa direzione, con un una particolare attenzione al caso Al-Dulimi (Corte europea dei diritti umani [Grande Camera], Al-Dulimi and Montana Management Inc. c. Svizzera, ric. n. 5809/08, 21 giugno 2016) e alla nota sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale italiana, le riflessioni di G. Palombella, Theory, Realities, and Promises of Interlegality: A Manifesto, in J. Klabbers e G. Palombella (a cura di), The Challenge of Inter-legality, Cambridge, Cambridge University Press, 2019, in particolare pp. 386-390.
[47] È il caso delle primissime risoluzioni adottate dal Consiglio di sicurezza nei primi anni di vita del tribunale (risoluzioni 1422[2002] e 1487[2003]). La totale assenza del presupposto materiale alla base delle richieste sospensive del Consiglio in queste ipotesi può far ritenere che ci si trovi qui di fronte a decisioni dal carattere arbitrario e che nulla hanno a che fare con gli scopi delle Nazioni Unite. Tra le tantissime ricostruzioni critiche di questa prassi del Consiglio, si vedano M. Arcari, La risoluzione 1422 (2002) relativa ai rapporti tra Corte penale internazionale e forze di peacekeeping, in «Rivista di diritto internazionale», 2003, pp. 723-731; C. Stahn, The Ambiguities of Security Council Resolution 1422, in «European Journal of International Law», 2003, pp. 85-104; R. Cryer e N.D. White, The ICC and the Security Council: An Uncomfortable Relationship, in J. Doria, H-P. Gasser e M.C. Bassiouni (a cura di), The Legal Regime of the International Criminal Court: Essays in Honour of Professor Igor Blishchenko, Leiden, Martinus Nijhoff, 2009, pp. 455-484.