Christoph Cornelissen, Gabriele D'Ottavio (a cura di)
La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c5
Nel 1925 la Germania riacquistò la sovranità commerciale. A medio termine, inoltre, alcune delle disposizioni del Trattato di Versailles si rivelarono non così rovinose come inizialmente si era ritenuto. L’espropriazione della flotta mercantile, per esempio, favorì un incremento delle costruzioni navali nei cantieri del mare del Nord e del mar Baltico e i pagamenti delle riparazioni in alcuni casi assicurarono agli esportatori tedeschi l’accesso ai mercati esteri [34]
. Nondimeno, le condizioni generali non erano ovviamente tali da facilitare l’integrazione su scala
{p. 134}mondiale dei giganti tedeschi del settore chimico ed elettrico che avevano dominato l’economia globale prima della guerra.

4. Il centro finanziario di Amsterdam e le banche straniere tedesche

Prima della Grande Guerra l’integrazione dell’industria tedesca nel mercato mondiale fu direttamente sostenuta dal sistema bancario tedesco. I forti legami tra banche e imprese portarono le maggiori banche tedesche alla fondazione di numerose filiali estere. Ben noti sono i dipartimenti della Deutsche Bank a Shanghai e Istanbul, attraverso i quali fu finanziata la ferrovia di Baghdad [35]
. A Berlino la Danat-Bank e la Dresdner Bank fondarono insieme la Deutsch-Südamerikanische Bank che, con sette filiali in Sud America, finanziò in particolare le esportazioni di materie prime in Germania [36]
.
Durante gli anni della grande inflazione molte banche, ad esempio la Dresdner Bank e la Danat-Bank tramite le loro filiali sudamericane, trasferirono i loro capitali all’estero per metterli al riparo dalla svalutazione della moneta nazionale. Ma la vera calamita per la fuga di capitali delle banche e degli investitori tedeschi divenne Amsterdam [37]
, dove tra il 1919 e il 1926 furono fondate 50 nuove banche da imprese e grandi banche tedesche. La fuga di capitali continuò fino al 1924 e in seguito gli istituti esteri delle banche tedesche, ormai stabilmente insediatisi, continuarono ad operare in modo molto redditizio. La Commerzbank aveva una quota di maggioranza nella Bankhaus Hugo Kaufmann & Co. probabilmente già a partire dal 1921. Attraverso la sua filiale di Amsterdam la {p. 135}banca tedesca conduceva operazioni di cambio e speculazioni sul mercato azionario. In questo modo furono anche collocate obbligazioni estere emesse da società tedesche, come quelle in dollari della Deutsche Reichsbahn e del Ruhrverband nel 1929 [38]
. La partecipazione della Commerzbank nella Hugo Kaufmann fu registrata come investimento diretto estero nelle statistiche della bilancia dei pagamenti della Germania, ma così non avveniva per i versamenti di capitale degli investitori tedeschi alla banca formalmente olandese.
Prima della guerra la catena del valore dei servizi finanziari delle banche tedesche consisteva soprattutto nel soddisfare la domanda di investimenti della grande industria e del commercio tedesco attraverso il mercato interno dei capitali. Dopo la Prima guerra mondiale i progetti esteri delle imprese tedesche furono finanziati principalmente dal mercato dei capitali esteri, con la conseguente incentivazione dell’espansione delle banche tedesche all’estero. Parte della creazione di valore dell’industria finanziaria si spostò quindi all’estero, e il ‘capitale in fuga’ degli investitori privati al di fuori dei confini nazionali rappresentò una nuova catena del valore. Fu grazie alla fuga di capitali tedeschi che nel periodo tra le due guerre mondiali si sviluppò in Svizzera e nei Paesi Bassi il modello di business dell’«economia offshore», oggi molto utilizzato in tutto il mondo.
Rimane ancora da indagare in che modo questi sviluppi hanno cambiato la creazione di valore per le banche e la relazione tra la creazione di valore estero e nazionale. Né sono stati studiati, se non in relazione ad alcuni casi singoli, gli accordi istituzionali specifici di questa espansione globale delle catene del valore finanziario che implicava l’uso di filiali estere, partner di cooperazione, prestanome e società di facciata.{p. 136}

5. L’industria della lavorazione del ferro

La produzione di ferro e acciaio nel Reich guglielmino si basava su un approvvigionamento precario di minerali perché le risorse interne non bastavano a soddisfare la domanda in costante crescita dell’industria della Ruhr. Prima della guerra l’industria siderurgica tedesca dipendeva per il 38% dalle importazioni di minerali ferrosi. In seguito alle amputazioni territoriali postbelliche questa dipendenza si intensificò. Negli anni 1927-1929 quasi l’80% della domanda interna di minerali ferrosi poté essere soddisfatta solo tramite le importazioni [39]
.
La dipendenza dalle importazioni mise a dura prova gli impianti di lavorazione dell’industria siderurgica. Quest’ultima, tuttavia, seppe sfruttare la sua persistente influenza politica per ottenere, con la prima legge doganale della Repubblica di Weimar (1925), le auspicate misure protezionistiche in tema di importazioni. Le imprese, in ogni caso, puntarono molto anche su una migliore organizzazione della produzione nazionale tramite accordi in grado di coinvolgere le varie fasi della lavorazione. Anche prima della guerra l’industria siderurgica tedesca era caratterizzata da un alto grado di «cartellizzazione». La Steelworks Association era un cartello che divideva i mercati di vendita tra i maggiori produttori includendo in qualche caso anche le esportazioni. Se prima della guerra, tuttavia, i cartelli consistevano in accordi orizzontali che dividevano il mercato in ogni fase della produzione, nel dopoguerra si aggiunsero gli accordi verticali, cioè gli accordi tra le imprese impegnate nelle diverse fasi della lavorazione. Negli anni Venti l’associazione delle acciaierie diede vita ad un potente gruppo di interesse che nel 1926 portò alla formazione dello United Steelworks Syndicate grazie al quale molti grandi produttori di acciaio potevano controllare i prezzi di {p. 137}mercato [40]
. Il che ebbe pesanti riflessi sulle imprese di trasformazione operanti nel mercato interno e quindi sull’esportazione di prodotti finiti. Anche le imprese di trasformazione, d’altro canto, si unirono in un gruppo di interesse, la Arbeitsgemeinschaft der Eisen verarbeitenden Industrie (AVI). Alcune imprese erano sia produttrici sia trasformatrici di acciaio e membri di entrambe le associazioni. Nell’estate del 1925 venne raggiunto un compromesso tra l’associazione degli industriali dell’acciaio e le imprese aderenti all’AVI: i produttori di acciaio assicurarono ai membri dell’AVI una compensazione per la differenza tra i prezzi eccessivi dell’acciaio nazionale e i prezzi del mercato mondiale. L’accordo mirava a mantenere all’interno del Paese la maggior parte della catena del valore della lavorazione dell’acciaio.
Grazie al fatto che l’industria siderurgica tedesca riuscì a proteggersi dalle importazioni di acciaio tramite una tariffa interna e nello stesso tempo poté garantire le vendite all’estero all’industria di trasformazione mediante il ricorso a pagamenti compensativi, soprattutto l’industria dei prodotti finiti al termine della catena del valore poté operare con successo sui mercati mondiali. Se si considerano i prodotti finiti come il punto finale della catena globale del valore nella lavorazione del ferro, in tal caso l’organizzazione e la «cartellizzazione» della fase di lavorazione interna rappresentarono la risposta appropriata alla maggiore dipendenza dalle importazioni di minerali.

6. L’industria chimica

L’industria dei coloranti all’anilina era uno dei fiori all’occhiello dell’esportazione tedesca prima della Grande Guerra. Grazie a una legge che consentiva di brevettare i processi di lavorazione e non i prodotti finali, si sviluppò una concorrenza interna che rese ancora più efficiente il processo di produzione, al {p. 138}punto che sul mercato mondiale la quota dei coloranti tedeschi arrivò a toccare il 90%. Per la produzione della tintura le imprese poterono contare su una fornitura quasi illimitata di un prodotto di scarto della cokizzazione del carbone fossile. La Bayer AG e la BASF trasformarono in oro un prodotto di scarto dell’industria del carbone sul mercato mondiale [41]
. La guerra mise fine a questa sorta di monopolio e la produzione nazionale di tintura diminuì a favore di quella degli esplosivi. I concorrenti stranieri si impadronirono di gran parte degli affari transatlantici delle imprese chimiche tedesche, soprattutto in seguito all’esproprio dei loro impianti e brevetti negli Stati Uniti nel 1917. Alla fine degli anni Venti la quota tedesca del mercato mondiale dei coloranti era ormai scesa al 56% [42]
.
Per evitare i dazi d’importazione, alla fine del XIX secolo la Bayer AG aveva costruito propri impianti di produzione negli Stati Uniti. All’inizio della Prima guerra mondiale gli Stati Uniti erano un mercato importante per l’azienda, con coloranti e prodotti farmaceutici (Aspirina) che rappresentavano il 18,4% del volume totale delle vendite [43]
. La perdita dei diritti di brevetto per effetto del Trading with the Enemy Act (1917) e il passaggio del brevetto più importante (Aspirina) al suo maggiore concorrente, disincentivarono la Bayer AG dal creare filiali all’estero dopo la guerra. In seguito, tuttavia, le azioni dell’azienda vennero nuovamente acquisite anche negli Stati Uniti, e nel 1939 la IG Farben, il cartello dell’industria chimica tedesca creato nel 1925 per mantenere in patria gran parte della catena del valore nel settore dei coloranti, era il gruppo leader sul mercato americano [44]
.
Un mutamento nella forma dell’interconnessione globale avvenne anche nell’industria chimica. Le aziende chimiche
{p. 139}tedesche che non riuscivano legalmente a essere risarcite o a recuperare i loro brevetti esteri cercarono l’accordo con i loro nuovi concorrenti. Inoltre si concentrarono sull’apertura di nuovi mercati nei Paesi nel frattempo diventati più importanti sulla scena mondiale, come la Cina e il Giappone. Nel 1929 metà del fatturato della IG Farben, che all’estero poteva contare su 268 stabilimenti di produzione e 458 filiali di vendita, proveniva ancora dalle esportazioni [45]
. Negli anni Venti le imprese chimiche tedesche si difesero dalla nuova concorrenza attraverso la «cartellizzazione interna» e nuove forme di accordi di mercato. Il modo in cui la prassi dell’interconnessione globale cambiò in pratica lo si può evincere dalle vicende di un’altra azienda, la Beiersdorf. Prima della guerra l’azienda esportava in gran quantità prodotti per la cura della persona e gli Stati Uniti erano il suo più importante mercato estero. I beni della Beiersdorf espropriati durante la guerra ammontavano a circa 700 milioni di dollari solo negli Stati Uniti. Negli anni Venti l’azienda rinnovò l’organizzazione del suo business estero. Le filiali in Svizzera e nei Paesi Bassi furono registrate come società indipendenti e affidate a fiduciari. Non più formalmente tedesca, la società olandese poté pertanto acquisire i diritti di marchio espropriati. Negli Stati Uniti un ex dipendente con cittadinanza americana fondò una nuova azienda. L’attività estera americana era formalmente indipendente dalla Beiersdorf, ma possedeva ancora i diritti di marchio per quello che negli anni Venti era il prodotto più importante dell’azienda, la Nivea. Nel 1924 l’azienda generò all’estero il 24% del suo fatturato. Tutto ciò non avvenne attraverso l’export dalla Germania o l’acquisto di aziende straniere o trasferimenti di capitali, ma attraverso una complicata struttura di aziende e corporazioni straniere completamente indipendenti che si finanziavano a vicenda e generavano profitti in valuta estera che affluivano alla famiglia proprietaria tramite la Svizzera [46]
.{p. 140}
Note
[34] V. Schröter, Die deutsche Industrie auf dem Weltmarkt 1929-1933, p. 246.
[35] W. Plumpe, Die Deutsche Bank in Ostasien, in Historische Gesellschaft der Deutschen Bank (ed), Die Deutsche Bank in Ostasien, München - Zürich, Piper, 2004, pp. 23-90.
[36] J. Bähr, Zwischen zwei Kontinenten. Hundert Jahre Dresdner Bank Lateinamerika, vormals Deutsch-Südamerikanische Bank, Frankfurt a.M., Eugen-Gutmann-Gesellschaft, 2007, p. 33.
[37] Y. Cassis, Metropolen des Kapitals, pp. 258-265.
[38] C. Kreutzmüller, Händler und Handlungsgehilfen. Der Finanzplatz Amsterdam und die deutschen Großbanken (1918-1945), Wiesbaden, Franz Steiner, 2005, p. 78.
[39] Ausschuss zur Untersuchung der Erzeugungs- und Absatzbedingungen der deutschen Wirtschaft (ed), Der deutsche Außenhandel unter Einwirkung weltwirtschaftlicher Strukturwandlungen, 20 voll., Berlin, Mittler und Sohn, 1932, I/1, p. 337.
[40] A. Reckendrees, Das «Stahltrust»-Projekt. Die Gründung der Vereinigte Stahlwerke AG und ihre Unternehmensentwicklung 1926-1933/34, München, C.H. Beck, 2000, p. 71.
[41] Si veda W. Plumpe, Carl Duisberg 1861-1935. Anatomie eines Industriellen, München, C.H. Beck, 2016, pp. 18-21 e la letteratura ivi utilizzata.
[42] P. Kleedehn, Die Rückkehr auf den Weltmarkt. Die Internationalisierung der Bayer AG nach dem Zweiten Weltkrieg bis zum Jahr 1961, Stuttgart, Franz Steiner, 2007, pp. 61-67.
[43] Ibidem, p. 260.
[44] Ibidem, p. 266.
[45] Ibidem, p. 68.
[46] G. Jones - C. Lubinski, Managing Political Risk in Global Business: Beiersdorf 1914-1990, pp. 85-96. Cfr. A. Reckendrees, Beiersdorf. Die Ge-schichte des Unternehmens hinter den Marken Nivea, Tesa, Hansaplast & Co, München, C.H. Beck, 2018.