Christoph Cornelissen, Gabriele D'Ottavio (a cura di)
La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c2
Una critica del genere appare senz’altro giustificata ma è necessario aggiungere alcune precisazioni in merito alle motivazioni che furono alla base di questo errore. Anzitutto, va sottolineato che l’alleanza con le vecchie forze armate non aveva certo come scopo quegli eccessi di violenza che avvelenavano senza posa il clima politico-culturale, ma il ripristino del monopolio statale della forza; a ciò si aggiunga che era anche necessario favorire una ordinata smobilitazione dell’esercito dopo quattro anni di guerra. Occorre considerare, infine, che su questo terreno nes
{p. 54}suno – obiettivamente – poteva vantare una qualche specifica competenza. Una inesperienza di fondo cui inoltre si dovette il mantenimento in servizio nella pubblica amministrazione di troppi «professionisti». Il timore del caos era molto diffuso e favorì più continuità di quella che alla fine sarebbe tornata effettivamente utile alla sicurezza della repubblica.
Se oltre al potere, mai venuto meno, delle vecchie élite e al peso dei militari si considerano anche le inappagate aspirazioni di socialismo, non c’è dubbio che il bilancio presenta anche aspetti negativi, tanto che, comprensibilmente, si è parlato di rivoluzione «a metà» o «bloccata» [4]
. Di una rivoluzione completamente riuscita, al contrario, potrebbero parlare solo quelli che utilizzano come unico e decisivo metro di misura il cambiamento della forma di Stato e l’adozione di una nuova Costituzione. Il giudizio su questa come su altre rivoluzioni, quindi, dipende in buona sostanza dalle aspettative che essa suscitò. Proprio a causa del clima di violenza quasi da guerra civile e degli omicidi compiuti da terroristi di destra che caratterizzarono le fasi iniziali della Repubblica di Weimar, e non da ultimo anche a causa delle modalità con cui avvenne la sua caduta nel 1933, la rivoluzione (ma anche Weimar) ha conservato nel tempo un’immagine nel complesso negativa. Il che ha praticamente impedito la percezione dei positivi risultati che essa ha comunque conseguito aprendo la strada ad una democrazia liberale e sociale in Germania.
Le celebrazioni per il giubileo del centenario (2018-2019) hanno spinto a formulare una chiara narrativa, in un certo senso ad appianare la storia. Per lo meno i titoli di alcune recenti trattazioni generali – «All’inizio era violenza» o «Il vero inizio della nostra democrazia» – riflettono questa esigenza di maggiore linearità interpretativa [5]
. Esse propongono delle {p. 55}nuove metanarrazioni e delle idee-guida per districare la trama storica liberandola dalla sua fastidiosa ambivalenza. In realtà, la rivoluzione di novembre si presenta come un complicato insieme di eventi, che nella storia della democrazia tedesca serve a poco considerare sia come un caso di scuola sia come un chiaro deterrente. Proprio a causa della sua ambiguità, del suo miscuglio di vecchio e nuovo, dei suoi risultati e dei suoi fallimenti la rivoluzione di novembre si è imposta sin dall’inizio come un tema assai controverso e divisivo. In ogni caso il suo esempio appare quanto mai utile per studiare i diversi concetti di democrazia e i diversi ordinamenti politici, ma anche per apprendere qualcosa sulle speranze e le paure di una società che venne a trovarsi nel bel mezzo di una crisi di cui non conosceva la via di uscita.

2. Le valutazioni dei contemporanei sulla rivoluzione

La rivoluzione di novembre non lasciò indifferente quasi nessun contemporaneo, sebbene già dopo poco tempo fossero rimaste ben poche tracce della euforia che l’aveva inizialmente accompagnata. Ne sono una prova esemplare le controverse prese di posizione degli intellettuali sia di destra che di sinistra. Sulla «Weltbühne», che durante la Repubblica di Weimar fu la tribuna più importante degli intellettuali di sinistra non direttamente legati ai partiti schierati su questo versante, Kurt Tucholsky si lamentò per una rivoluzione che in realtà non aveva sostanzialmente avuto luogo: «Non c’è stata alcuna rivoluzione. Fatene una», scrisse nel marzo del 1920, poco dopo il putsch Kapp-Lüttwitz [6]
. Tucholsky non smise mai di criticare duramente Ebert, il quale, a suo parere, non aveva fatto altro che mettere la sordina a tutte le speranze rivoluzionarie e in fondo aveva {p. 56}strettamente collaborato con le forze reazionarie. Un giudizio che egli ritenne di non dover modificare nemmeno in occasione della morte del leader socialdemocratico: un giudizio duro e senza appello ben riassunto da questa frase: «Traditore della classe operaia e dell’idea stessa di rivoluzione» [7]
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Se in linea di principio da sinistra ci si potevano aspettare parole di sostegno per i socialdemocratici al governo, diverso fu il comportamento che tenne la destra. Da un Oswald Spengler era lecito aspettarsi una dura invettiva, e fu quel che in effetti avvenne. Con il suo fortunato Preußentum und Sozialismus (1919) egli sparse odio a piene mani contro una rivoluzione «non tedesca» che era un «colpo di mano del nemico inglese» collegato ad una «sollevazione del proletariato marxista», senza peraltro che al riguardo si potesse parlare di «vero socialismo». Un socialismo del genere, così come aveva vissuto, apparentemente, un momento di risveglio nell’agosto del 1914, lo si era potuto trovare «nell’ultima lotta al fronte», ma lì era stato anche tradito [8]
.
Per quanto diverse fossero le loro motivazioni, entrambi gli autori lanciarono dunque un’accusa di tradimento all’indirizzo della rivoluzione: tradimento nei confronti dei lavoratori da parte dell’uno, nei confronti della nazione tanto pronta a combattere quanto vittoriosa da parte dell’altro. E al di là di tutte le differenze avevano anche qualcos’altro in comune: entrambi erano contrari a ‘questa’ rivoluzione, la rivoluzione di novembre, ma non alla rivoluzione in quanto tale. Nella interpretazione di sinistra la rivoluzione dell’autunno del 1918 rappresentava nel migliore dei casi il preludio di un cambiamento ancora da portare a termine e che in ogni caso avrebbe dovuto essere ben più incisivo: una rivoluzione politico-sociale che non doveva limitarsi, questa l’accusa, a rinnovare la facciata democratica. Nella interpretazione di destra la rivoluzione di novembre non era che un «tradimento del Paese», un evento in grado di {p. 57}distruggere la «comunità di popolo» e al quale bisognava contrapporre un vero «socialismo» – «tedesco» o «prussiano» – nel solco di una «rivoluzione nazionale» o «conservatrice». Mentre da una parte si voleva portare a compimento una rivoluzione finora fallita o dagli esiti quanto meno parziali, dall’altra si puntava alla completa eliminazione di una rivoluzione che si riteneva effettivamente avvenuta al fine di favorire da destra il risveglio nazional-rivoluzionario della Germania.
Non furono solo le voci più o meno percettibili degli intellettuali che contribuirono fin dall’inizio e ostinatamente a minare la rivendicazione di validità della rivoluzione di novembre, ma anche e soprattutto quei partiti politici che si erano opposti con decisione e sin da subito alla Repubblica di Weimar. Fondato tra la fine del 1918 e l’inizio del 1919, il partito comunista non tardò a rilanciare con forza l’accusa di «tradimento dei lavoratori» all’indirizzo dell’SPD maggioritaria guidata da Ebert: un’accusa che a partire dagli scontri di gennaio («sollevazione spartachista») e dopo l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht venne fissata col sangue. Disponibilità all’uso della violenza, intransigenza ideologica e radicalismo verbale provocarono una spaccatura all’interno della sinistra e inasprirono all’estremo il conflitto di fondo tra democrazia parlamentare e socialismo dei Consigli.
Mentre i comunisti volevano continuare la rivoluzione politica per mezzo di una rivoluzione sociale e quella borghese tramite una rivoluzione proletaria, i nazionalsocialisti, per parte loro, scagliarono contro la rivoluzione di novembre un vero e proprio anatema. Presero duramente posizione contro la «repubblica di novembre», i «politici di novembre» e i «criminali di novembre» che a loro dire nel 1918 avevano colpito alle spalle un «esercito invitto sul campo» e avevano quindi provocato la vergognosa sconfitta del Paese.
La «tesi della pugnalata alla schiena» si diffuse ben oltre i circoli nazisti e venne fatta propria anche dal milieu politico-culturale conservatore. Sta di fatto che la sua aura negativa esercitò una tale influenza che ogni ricordo positivo della rivoluzione finì per dissolversi. {p. 58}
Ma di che tenore furono le valutazioni di quelle forze che avevano considerato la rivoluzione di novembre il punto di partenza per la nuova democrazia parlamentare della Repubblica di Weimar? In che modo la costruzione della tradizione si tradusse in punto di vista affermativo? In modo tutt’altro che semplice e chiaro, come nel 1928 avrebbero provato le diverse opinioni in merito al modo «giusto» di celebrare il decennale della rivoluzione. Tra i socialdemocratici la data del 9 novembre era già da tempo la giornata della rivoluzione ed era in concorrenza con l’11 agosto, vale a dire la giornata della Costituzione, che l’allora presidente del Reich Ebert aveva controfirmato nel 1919 proprio in quella data. Una certa lacerazione interna emerse anche nel 1928, quando il Reichsbanner – l’associazione paramilitare creata per difendere le istituzioni della repubblica che era controllata dai socialdemocratici – festeggiò la fondazione della repubblica con le bandiere nere-rosse-oro, mentre l’SPD organizzò al palazzo dello sport di Berlino una manifestazione nel corso della quale furono invece le bandiere rosse a dominare la scena. Se l’oratore che prese la parola alla manifestazione organizzata dal Reichsbanner per festeggiare la «nascita della repubblica» elogiò la responsabilità istituzionale e democratica della socialdemocrazia che «in qualche caso senza riguardo per gli interessi del partito» si era spinta «fino all’estremo limite del sopportabile», Wilhelm Dittman, l’oratore che prese la parola alla manifestazione della SPD, usò invece toni da lotta di classe, che non a caso furono accompagnati dal canto corale dell’«Internazionale» [9]
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A volte sembravano due i cuori che battevano nel petto della socialdemocrazia, che da un lato si riteneva il partito della rivoluzione con una chiara coscienza di classe, e dall’altro sottolineava la sua responsabilità «interclassista» in quanto garante della democrazia e della Costituzione. A questi due aspetti chiave la destra e la sinistra interna davano un peso
{p. 59}diverso, con il risultato che anche questo squilibrio impedì la maturazione di un chiaro e soprattutto positivo atteggiamento nei confronti della rivoluzione. Senza contare che l’innegabile deficit di contenuti socialisti della rivoluzione offriva continuamente il fianco ad attacchi: dall’esterno ma anche dall’interno del partito.
Note
[4] V. Ullrich, Die halbe Revolution. Warum der demokratische Aufbruch von 1918 sein Scheitern bereits in sich barg, in «ZEIT Geschichte», 3, 2008, pp. 16-30; E. Kolb, 1918/19: Die steckengebliebene Revolution, in C. Stern - H.A. Winkler (edd), Wendepunkte deutscher Geschichte 1848-1990, nuova edizione, Frankfurt a.M., Fischer, 2003, pp. 99-125.
[5] Così M. Jones, Am Anfang war Gewalt. Die deutsche Revolution 1918/19 und der Beginn der Weimarer Republik, Berlin, Propyläen, 2017; W. Niess, Die Revolution von 1918/19. Der wahre Beginn unserer Demokratie, Berlin, Europa Verlag, 2017. Sulla storiografia attuale della rivoluzione si veda anche A. Gallus, Zum historischen Ort der deutschen Revolution von 1918/19 – ein Wendepunkt in der Gewaltgeschichte?, in «Jahrbuch Extremismus und Demokratie», 31, 2019, pp. 13-39.
[6] I. Wrobel [Kurt Tucholsky], Kapp-Lüttwitz, in «Die Weltbühne», 25 marzo 1920, p. 363.
[7] I. Wrobel [Kurt Tucholsky], Abreißkalender, in «Die Weltbühne», 15 di- cembre 1925, p. 893.
[8] O. Spengler, Preußentum und Sozialismus, München, C.H. Beck, 1920, p. 9.
[9] Entrambi gli interventi sono riprodotti in F. Schubart, Zehn Jahre Weimar – Eine Republik blickt zurück, in H.A. Winkler (ed), Griff nach der Deutungsmacht. Zur Geschichte der Geschichtspolitik in Deutschland, Göttingen, Wallstein, 2004, pp. 134-159, qui p. 145.