Giorgio Chiosso, Anna Maria Poggi, Giorgio Vittadini (a cura di)
Viaggio nelle character skills
DOI: 10.1401/9788815366962/c3
Resilienza. Nella sua applicazione legata al mondo del lavoro e delle organizzazioni, Luthans e colleghi [21]
la definiscono come la capacità di resistere alle avversità, di superare gli ostacoli, di rialzarsi più forti di prima in seguito ad esperienze negative (malattie, infortuni, sconfitte, esclusioni, ecc.) perseverando nell’obiettivo di riuscire. Una persona resiliente quindi è in grado, di fronte alle avversità, di recuperare velocemente e anche di crescere, mentre invece chi non lo è (o lo è poco) tenderà ad abbattersi facilmente e a sentirsi bloccato. Una particolarità di questa risorsa psicologica è il fatto che si sviluppa in modo autonomo nel tempo mano a mano che sfide e difficoltà si presentano e permette di reagire a esse con una forza sempre maggiore: si può quindi diventare più resilienti e migliorare di conseguenza la propria
{p. 77}performance di fronte a ostacoli e problemi. Nel contesto educativo e formativo questo significa riuscire in caso di situazioni stressanti o cambiamenti non solo a recuperare rapidamente ma anche a incrementare la propria prestazione e crescere. Può essere il caso degli studenti che, dopo un percorso di apprendimento non efficace nella scuola primaria, riescono ad aumentare il rendimento scolastico nella scuola secondaria [22]
.
Ottimismo. È definibile come la formulazione di giudizi positivi circa la propria riuscita nel presente e nel futuro. Ci sono due diverse prospettive teoriche che si propongono di spiegare cosa sia l’ottimismo all’interno della psicologia positiva. Da una parte, Carver e Scheier [23]
sostengono che avere aspettative positive sul futuro porta le persone ottimiste a impiegare notevoli energie e a continuare a impegnarsi anche di fronte alle difficoltà e questo risulta poi in una performance migliore rispetto a quella delle persone pessimiste. Dall’altra, Seligman [24]
invece ha basato la sua teoria su diversi stili attributivi, ritenendo che gli ottimisti, al contrario dei pessimisti, siano portati a fare attribuzioni interne, stabili e globali per quanto riguarda eventi positivi e attribuzioni esterne e instabili per gli eventi negativi: questo permette loro di conferire a sé stessi il merito dei loro successi e di conseguenza di aumentare l’autostima e il morale, il tutto poi favorirà la convinzione che il futuro riservi loro più avvenimenti positivi che negativi. Non bisogna però pensare che l’ottimismo comporti una valutazione irrealistica degli eventi futuri, ma piuttosto che ne includa una su quello che una persona può o non può ottenere in una particolare situazione, e ciò richiama quelle che sono le convinzioni di autoefficacia percepita della persona. Visto questo legame tra le due risorse psicologiche è meglio specificare ciò che le distingue: l’autoefficacia riguarda credenze legate a specifici {p. 78}contesti e compiti ed è il risultato dell’applicazione delle proprie capacità (il circolo virtuoso di cui si parlava poco sopra), mentre l’ottimismo fa riferimento ad aspettative positive generali su quello che potrebbe succedere ed è meno legato alle proprie abilità [25]
. Uno studente, dunque, potrebbe avere un orientamento ottimistico e positivo nei confronti del proprio futuro scolastico, ma non necessariamente basandosi sul proprio rendimento scolastico pregresso.
Come già detto, queste quattro dimensioni, insieme, formano l’acronimo HERO, che, pensando al suo significato in inglese (eroe) risulta particolarmente congruente con la definizione complessiva di capitale psicologico. Lo/la studente/ssa «eroe» è colui/lei che riesce ad interiorizzare i modelli efficaci che vede a scuola negli adulti, riesce a pianificare il proprio futuro in termini di apprendimento, non si lascia vincere dalle avversità e dai momenti problematici e ha una forte spinta a pensare in maniera positiva al proprio futuro. Recentemente queste quattro dimensioni, o competenze non cognitive legate al capitale psicologico, sono state affiancate ad altre, riconducibili, in letteratura, alle cosiddette «forze del carattere», come la creatività, il cosiddetto flow, la gratitudine, l’intelligenza emotiva, il coraggio, ecc. [26]
.

4. Motivazione e apprendimento

La motivazione ad apprendere può essere definita come il grado di impegno cognitivo investito per il raggiungimento di obiettivi scolastici [27]
. Essa spiega, da un lato, il livello di attenzione e impegno investito «in varie attività che possono essere o non essere desiderate dagli insegnanti» [28]
, {p. 79}e dall’altro l’inizio, la direzione, l’intensità e la persistenza del comportamento. Brophy e Kher [29]
hanno proposto di distinguere due tipi di motivazione ad apprendere: una che si manifesta come tratto di personalità e una che si manifesta come stato. Nella prima accezione il concetto si riferisce a una disposizione generale che permette a uno studente di percepire l’apprendimento come un’attività intrinsecamente valida e soddisfacente e quindi di impegnarsi in essa con lo scopo di padroneggiare le abilità e le conoscenze da acquisire. Lee e Brophy [30]
ipotizzano che gli studenti che abitualmente si impegnano nell’apprendimento tendono per lo più a sperimentare le attività come gratificanti in sé e a provare nei compiti o nello studio di una disciplina un gusto e un piacere intrinseci. Intesa come stato, la motivazione ad apprendere spinge gli studenti a impegnarsi nelle attività di classe e ad attivare le strategie richieste [31]
, ma, di norma, non implica che i compiti debbano essere percepiti particolarmente interessanti e gratificanti in sé. Questo spiega perché molti studenti si impegnano in attività di cui non sperimentano un piacere intrinseco. Lee e Brophy [32]
ipotizzano che tali studenti tendano prevalentemente a vivere lo studio con un senso di dovere, di impegno e di responsabilità. In sintesi, la motivazione riguarda le esperienze soggettive degli studenti. Essa si identifica con la disponibilità ad impegnarsi nello studio e nelle attività scolastiche e con le ragioni che motivano tale impegno.
All’interno dell’approccio noto con il nome di Self Determination Theory, la motivazione ad apprendere è riconosciuta per essere influenzata da fattori interni (come il piacere per {p. 80}un’attività) e esterni (come le ricompense da parte di un adulto) [33]
. In base a questa teoria è possibile un continuum di autonomia dello studente, che passa da un estremo in cui la motivazione è spinta da un senso di volizione e scelta, verso un estremo in cui la motivazione è completamente influenzata da un senso di pressione esterna. I comportamenti degli studenti possono essere dunque caratterizzati in base alla collocazione dei soggetti all’interno di questo continuum, in modo tale che gli autonomi-intrinseci tenderanno a sviluppare una specifica tipologia di comportamenti (ad es. comportamenti di scoperta, di autoregolazione allo studio, ecc.), mentre i dipendenti-estrinseci ne svilupperanno di altri (ad es. attendere le istruzioni dall’esterno, evitare comportamenti non previsti da un protocollo imposto, ecc.). L’assenza di intenzioni ad agire è riconosciuta in questo modello come a-motivazione [34]
.
La motivazione all’apprendimento di un discente può essere suddivisa in quattro categorie che differiscono nel loro livello di internalizzazione dei motivi per cui si realizza un determinato compito [35]
. Esistono tre livelli di internalizzazione, che precedono la regolazione completamente autonoma e dunque la motivazione intrinsenca. Tale modello è descritto nella tabella 3.
In ordine di crescente autonomia, troviamo: introiezione, identificazione e integrazione [36]
. Nell’introiezione, l’autostima contingente regola la motivazione ad agire [37]
, quindi, un’azione può essere eseguita perché il suo risultato è rilevante per {p. 81}il proprio sentimento di autostima, ma il locus percepito di causalità è, come nella regolazione esterna, ancora esterno, dal momento che il comportamento non è vissuto come completamente autoindotto. Quindi, nell’identificazione, un individuo si è identificato, come suggerisce il nome, con l’importanza di un comportamento e, quindi, lo ha accettato come suo proprio fino a un certo grado, portando quindi ad un maggiore sentimento di autonomia. Infine, non meno importante, l’integrazione significa creare una coerenza tra sé stessi, i propri valori e i bisogni esistenti. Di conseguenza, più una persona interiorizza le cause di un comportamento, più i comportamenti precedentemente estrinsecamente motivati​​, diventano autodeterminati. Un comportamento intrinsecamente motivato viene eseguito esclusivamente per il godimento e la soddisfazione di sé stessi senza tener conto delle potenziali conseguenze che ne derivano [38]
. Quindi, la motivazione intrinseca è autodeterminata e il suo locus di causalità percepito è interno [39]
. Per fare un esempio in ambito scolastico, se da studente voglio impegnarmi in compiti per apprendere l’uso della punteggiatura, sicuramente se ricevo molte (troppe) indicazioni dall’esterno e feedback su come procede il mio apprendimento senza un processo di
{p. 82}identificazione e integrazione, allora le mie prospettive di miglioramento saranno completamente ancorate a ciò che fanno e dicono i miei insegnanti. Se invece vengo stimolato a sperimentare nuove soluzioni (o meglio, ancora non conosciute da me), che si rivelano di successo e mi gratificano, allora sarò portato a motivarmi in maniera autonoma, senza necessariamente avere un riconoscimento dall’esterno.
Note
[21] F. Luthans, B.J. Avolio, J.B. Avey e S.M. Norman, Positive Psychological Capital: Measurement and Relationship with Performance and Satisfaction, cit., pp. 541-572.
[22] C. Consiglio e V. La Mura, Lo PsyCap secondo Luthans, cit.
[23] C.S. Carver e M.F. Scheier, Optimism, in C.R. Snyder e S.J. Lopez (a cura di), Handbook of Positive Psychology, Oxford, Oxford University Press, 2002.
[24] M.E.P. Seligman, Positive Health, in «Applied Psychology: An International Review», 57, 2008, pp. 3-18.
[25] F. Luthans, B.J. Avolio, J.B. Avey e S.M. Norman, Positive Psychological Capital: Measurement and Relationship with Performance and Satisfaction, cit., pp. 541-572.
[26] F. Luthans e C.M. Youssef-Morgan, Psychological Capital: An Evidence-Based Positive Approach, in «Annual Review of Organizational Psychology and Organizational Behavior», 4, 2017, pp. 339-366.
[27] D.W. Johnson e R.T. Johnson, Cooperation and Competition: Theory and Research, Edina, MN, Interaction Book Company, 1989.
[28] J. Brophy, Motivare gli studenti ad apprendere, Roma, LAS, 2003.
[29] J. Brophy e N. Kher, Teacher Socialization as a Mechanism for Developing Student Motivation to Learn, in R.S. Feldman (a cura di), The Social Psychology of Education. Current Research and Theory, Cambridge, MA, Cambridge University Press, 1986.
[30] O. Lee e J. Brophy, Motivational Patterns Observed in Sixth-grade Science Classrooms, in «Journal of Research in Science Teaching», 33, 3, 1996, pp. 303-318.
[31] J. Brophy e N. Kher, Teacher Socialization as a Mechanism for Developing Student Motivation to Learn, cit.
[32] O. Lee e J. Brophy, Motivational Patterns Observed in Sixth-Grade Science Classrooms, cit., pp. 303-318.
[33] M. Gagné e E.L. Deci, Self-Determination Theory and Work Motivation, in «Journal of Organizational Behavior», 26, 2005, pp. 331-362; E. Deci e R.M. Ryan, The «What» and «Why» of Goal Pursuits: Human Needs and the Self-determination of Behavior, cit., pp. 227-268.
[34] E. Deci e R.M. Ryan, The «What» and «Why» of Goal Pursuits: Human Needs and the Self-Determination of Behavior, cit., pp. 227-268.
[35] M. Gagné e E.L. Deci, Self-Determination Theory and Work Motivation, cit., pp. 331-362.
[36] Ibidem; E. Deci e R.M. Ryan, The «What» and «Why» of Goal Pursuits: Human Needs and the Self-Determination of Behavior, cit., pp. 227-268.
[37] E. Deci e R.M. Ryan, The «What» and «Why» of Goal Pursuits: Human Needs and the Self-Determination of Behavior, cit., pp. 227-268.
[38] M. Gagné e E.L. Deci, Self-Determination Theory and Work Motivation, cit., pp. 331-362.
[39] E. Deci e R.M. Ryan, The «What» and «Why» of Goal Pursuits: Human Needs and the Self-Determination of Behavior, cit., pp. 227-268.