La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c5
Una analoga influenza viene
esercitata dal valore delle valute: quando il valore estero del
Reichsmark aumentò del 30% come risultato della svalutazione
della sterlina nel settembre 1931, i prodotti tedeschi nell’area della sterlina
divennero più costosi
¶{p. 129}e gli esportatori dovettero abbassare i
loro prezzi di vendita nella stessa misura per mantenere inalterato l’ammontare delle
vendite. In un certo senso era questo lo sfondo monetario della «politica
deflazionistica» di Brüning. Al contrario, la perdita di valore della moneta negli anni
della grande inflazione postbellica favorì un vero e proprio boom delle esportazioni e
degli investimenti interni
[24]
.
Un altro problema collegato
indirettamente a questa questione è che le bilance dei pagamenti sono comparabili solo
in economie di mercato in cui i prezzi non sono determinati dallo Stato, il quale
potrebbe stabilire prezzi molto alti per alcune merci le cui esportazioni risulterebbero
quindi sovrastimate rispetto al loro flusso reale. Il problema, che durante la
Repubblica di Weimar colpì inizialmente solo l’interscambio commerciale con l’Unione
Sovietica, si pone soprattutto negli scambi commerciali con gli Stati socialisti. Dopo
l’introduzione dei controlli sui cambi nell’estate del 1931, vennero effettuate
transazioni compensative con tutti i partner commerciali del Sud-Est europeo. È
difficile che gli effettivi scambi commerciali con queste aree possano essere stati
registrati correttamente nelle statistiche del commercio estero, e infatti dopo il 1931
i dati sulle quote di esportazione e sui gradi di apertura appaiono di problematica
lettura.
Questo vale anche per gli
investimenti diretti esteri nelle aree in questione. L’Investimento diretto estero (IDE)
è il trasferimento di capitale finanziario in un Paese straniero allo scopo di acquisire
una partecipazione societaria rilevante. Gli IDE sono uno strumento efficace per
valutare l’interconnessione ¶{p. 130}globale dell’economia di un Paese
poiché si riferiscono agli investimenti azionari diretti all’estero. Ma dopo
l’introduzione dei controlli sui cambi, gli investimenti tedeschi nell’Europa
sud-orientale vennero registrati nelle statistiche ad un tasso di cambio ufficiale,
mentre il loro valore sul libero mercato dei cambi sarebbe risultato molto più alto.
Occorre quindi accogliere con cautela la valutazione di John Dunning secondo cui gli IDE
tedeschi nel 1938 erano pari a 350 milioni di dollari, cioè avrebbero costituito solo
l’1,3% di tutti gli IDE a livello globale, mentre nel 1914 sarebbero stati il 10,5% del
totale degli investimenti esteri. Basata su una stima della Società delle Nazioni, la
cifra fornita da Dunning sembra plausibile, dato che dopo la guerra le imprese tedesche
persero molte partecipazioni estere. Tuttavia la conversione di Dunning contiene un
notevole potenziale di errore
[25]
. Recenti ricerche sulla storia aziendale riportano inoltre molti casi in cui
le aziende ampliarono nuovamente i loro impegni all’estero anche prima della
stabilizzazione della valuta. Ne consegue che negli anni Venti gli IDE tedeschi devono
essere stati molto più alti
[26]
. In ogni caso gli IDE erano solo uno dei vari modi in cui le aziende
tedesche partecipavano all’economia globale. Un altro modo, diverso dagli IDE, con cui
l’economia tedesca si assicurò una forte presenza su scala mondiale era costituito dalle
partecipazioni delle imprese tedesche all’estero tramite prestanomi e il trasferimento
di capitali attraverso le filiali estere delle banche nazionali.
Nel frattempo sono stati messi a
punto diversi metodi per risolvere i problemi legati alle statistiche della bilancia dei
¶{p. 131}pagamenti e ottenere stime più precise sull’interconnessione economica
[27]
. Una possibilità è quella di condurre ricerche a livello delle singole
imprese: in tal modo vengono valutate le concrete difficoltà che hanno affrontato le
aziende, considerate componenti delle catene globali del valore, nel disconnettersi dai
mercati delle materie prime e di sbocco in ambito internazionale. Come hanno reagito le
imprese tedesche? Hanno provato ad ampliare i mercati al di fuori dei tradizionali
partner commerciali? Oppure hanno tentato di delocalizzare la produzione attraverso
accordi di cooperazione o l’acquisto di filiali all’estero, avviando una
‘globalizzazione invisibile’ che non si riflette nelle statistiche del commercio estero?
Le catene globali del valore sono
determinate euristicamente mediante il tracciamento su scala mondiale dei processi di
produzione che in modo lineare precedono la realizzazione di un prodotto finale. Se
consideriamo le imprese tedesche che vendono i loro prodotti a consumatori nazionali o
esteri, non come unità produttive autonome, ma piuttosto come attori che operano
all’interno di catene globali del valore, in tal caso si profilano numerose modifiche
rispetto alla classica disposizione sperimentale nella storia economica basata sullo
Stato nazionale: 1. L’interconnessione globale di un’economia locale non è più intesa
come lo scambio tra Stati nazionali, ma come una fase di produzione locale con
ramificazioni all’estero, a monte e/o a valle. 2. L’attenzione si sposta sulle catene
globali del valore che sono una combinazione di trasferimento di beni materiali e di
servizi in cui i trasporti e i servizi finanziari internazionali rappresentano una
componente significativa. 3. Il focus della ricerca è posto sulla distribuzione dei
profitti generati all’interno di una catena globale di valore e sul potere dei singoli
attori coinvolti
[28]
. Si deve indagare se, ¶{p. 132}e se sì in che modo, in
questo caso abbiano avuto un ruolo le identità nazionali rispetto al periodo prebellico.
Con questo triplice spostamento di accento, lo studio delle catene globali del valore
apre la strada ad un nuovo approccio di ricerca nella storia economica e aziendale
[29]
. Di seguito si accennerà al suo potenziale sulla base di alcuni esempi della
letteratura critica.
3. L’interconnessione delle aziende tedesche
La stima delle difficoltà che le
imprese tedesche affrontarono dopo la Prima guerra mondiale per integrarsi nell’economia
globale non è semplice. Molte imprese avevano subito enormi perdite a seguito
dell’espropriazione degli impianti di produzione situati all’estero, delle proprietà
immobiliari e, soprattutto, dei diritti di brevetto e di marchio. Negli Stati Uniti più
di 6.000 brevetti e diritti di marchio delle aziende tedesche furono espropriati con il
Trading with the Enemy Act (1917) e con varie motivazioni non
furono restituiti fino alla Grande Depressione
[30]
. Una analoga disposizione venne introdotta in Gran Bretagna già all’inizio
della guerra
[31]
. Come previsto dal ¶{p. 133}Trattato di Versailles, la
flotta mercantile tedesca venne completamente espropriata. Le navi che si trovavano in
Germania, il naviglio interno e una parte della nuova produzione nazionale dovettero
essere consegnati alla Commissione navale alleata
[32]
. Inoltre, una parte della produzione delle miniere di carbone e delle
industrie chimiche e le proprietà esistenti in tutte le colonie e nei territori già
tedeschi (Alsazia-Lorena e Slesia) furono consegnate alle potenze vincitrici a titolo di riparazioni
[33]
.
A queste perdite patrimoniali si
aggiunsero le discriminazioni in materia di politica commerciale introdotte sempre con
il Trattato di Versailles: la Germania dovette riconoscere unilateralmente alle potenze
vincitrici la clausola della ‘nazione più favorita’, dovette cioè accordare loro tutte
le concessioni che venivano fatte a terzi, senza poter ricevere in cambio alcuna
contropartita. In molti Paesi fu proibito ai tedeschi di acquisire proprietà, cosicché
gli investimenti diretti potevano essere effettuati solo attraverso prestanome, che
quindi non comparivano nelle statistiche nazionali. Molte di queste disposizioni furono
allentate nel corso degli anni Venti.
Nel 1925 la Germania riacquistò la
sovranità commerciale. A medio termine, inoltre, alcune delle disposizioni del Trattato
di Versailles si rivelarono non così rovinose come inizialmente si era ritenuto.
L’espropriazione della flotta mercantile, per esempio, favorì un incremento delle
costruzioni navali nei cantieri del mare del Nord e del mar Baltico e i pagamenti delle
riparazioni in alcuni casi assicurarono agli esportatori tedeschi l’accesso ai mercati esteri
[34]
. Nondimeno, le condizioni generali non erano ovviamente tali da facilitare
l’integrazione su scala
¶{p. 134}mondiale dei giganti tedeschi del
settore chimico ed elettrico che avevano dominato l’economia globale prima della guerra.
Note
[24] Si veda, per gli anni dell’inflazione, C.-L. Holtfrerich, Aus dem Alltag des Reichswirtschaftsministeriums während der Großen Inflation 1919-1923/24, in C.-L. Holtfrerich (ed), Das Reichswirtschaftsministerium der Weimarer Republik und seine Vorläufer, Berlin - Boston, De Gruyter, 2016, pp. 237 s.; per la politica deflazionistica: H. James, Das Reichswirtschaftsministerium und die Außenwirtschaftspolitik: «Wir deutschen Pleitokraten, wir sitzen und beraten», ibidem, pp. 569-571. Sulla discussione circa il margine d’azione di Brüning si veda anche R. Köster, Keine Zwangslagen? Anmerkungen zu einer neuen Debatte über die deutsche Wirtschaftspolitik in der Großen Depression, in «Vierteljahrsschrift für Zeitgeschichte», 63, 2015, pp. 241-257.
[25] J.H. Dunning, Changes in the Level and Structure of International Production: The Last One-Hundred Years, in M. Casson (ed), The Growth of International Business, London, George Allen & Unwin, 1982, pp. 84-139. C.H. Feinstein - K. Watson, Private International Capital Flows in Europe in the Interwar Period, in C.H. Feinstein (ed), Banking, Currency and Finance in Europe Between the Wars, Oxford, Clarendon Press, 1995, stimano 700 milioni di dollari per il 1938.
[26] Y. Cassis, Metropolen des Kapitals. Die Geschichte der internationalen Finanzzentren 1780-2005, Hamburg, Murmann, 2007, p. 255, riferisce che nel 1922 gli IDE delle principali banche tedesche ad Amsterdam sarebbero stati pari a 2-6 miliardi di Goldmark (circa 476 milioni - 1,43 miliardi di USD).
[27] N. Wolf, Was Germany Ever United? Evidence from Intra- and International Trade, 1885-1933, in «The Journal of Economic History», 69, 2009, pp. 846-881.
[28] J. Bair, The Corporation and the Global Value Chain, in G. Baars - A. Spicer (edd), The Corporation: A Critical, Multidisciplinary Handbook, Cambridge, Cambridge University Press, 2016, pp. 326-335; della stessa autrice, Global Commodity Chains. Genealogy and Review, in J. Bair (ed), Frontiers of Commodity Chain Research, Stanford CA, Stanford University Press, 2009, pp. 1-35; G. Gereffi - J. Humphrey - T. Sturgeon, The Governance of Global Value Chains, in «Review of International Political Economy», 12, 2005, pp. 78-104.
[29] J.-O. Hesse - P. Neveling, Global Value Chains, in T. da Silva Lopes - C. Lubinski - H. Tworek, Routledge Companion to Makers of Modern Global Business, London - New York, Routledge, 2019, pp. 279-293. J.-O. Hesse, «Global Value Chains» und die vertikale Struktur des Kapitalismus. Überlegungen im Anschlussan Karl Marx und Eugen Böhm-Bawerk, in J.-O. Hesse - C. Kleinschmidt - R. Köster - T. Schnetzky (edd), Moderner Kapitalismus. Wirtschafts- und Unternehmenshistorische Beiträge, Tübingen, Mohr Siebeck, 2019, pp. 13-30.
[30] G. Jones - C. Lubinski, Managing Political Risk in Global Business: Beiersdorf 1914-1990, in «Enterprise and Society», 13, 2012, pp. 85-119; C. Ludwig, Amerikanische Herausforderungen. Deutsche Großunternehmen in den USA nach dem Zweiten Weltkrieg, Frankfurt a.M., Peter Lang, 2016, pp. 225-227.
[31] P. Panayi, Enemy in Our Midst. Germans in Britain during the First World War, New York - Oxford, Bloomsbury Academic, 1991, pp. 132-149.
[32] H. Rübner, Konzentration und Krise der Deutschen Schifffahrt. Maritime Wirtschaft und Politik im Kaiserreich, in der Weimarer Republik und im Nationalsozialismus, Bremen, Hauschild, 2005, pp. 68-74.
[33] D. Ziegler, Kriegswirtschaft, Kriegsfolgenbewältigung, Kriegsvorbereitung. Der deutsche Bergbau im dauernden Ausnahmezustand (1914-1945), in D. Ziegler (ed), Geschichte des deutschen Bergbaus, IV: Rohstoffgewinnung im Strukturwandel. Der deutsche Bergbau im 20. Jahrhundert, Münster, Aschendorff, 2013, p. 49.