Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c3
Dunque orgoglio e rimpianto del mestiere si possono capire, come fatti della propria vita, ma ci vuole anche l’autocoscienza di questo privilegio. Intanto, da dove viene. Viene da quella stessa divisione del lavoro che è così sommamente deprecabile per le conseguenze derivate agli altri. Non è colpa di chi ha un mestiere, certo, se c’è chi ne è privo. Ma se tutti ne avessero uno, non sarebbe più un mestiere. (Oppure si sarebbe realizzata la piena coincidenza fra divisione sociale e tecnica del lavoro). È questo privilegio che rende il sentimento del mestiere così simile a quella «concezione del lavoro come vocazione, quale la richiede il capitalismo» [58]
, a quel «culto del lavoro per il lavoro» [59]
, che in realtà equivale all’esaltazione del proprio giacché il beneficio individuale fa aggio sull’obbligazione collettiva. Come ricorda Garavini, «in questo mondo la spinta borghese alla distinzione individuale, alla differenziazione sociale, a superare personalmente l’appiattimento cui sono costrette le classi subalterne, ha forza in quanto si connette in primo luogo all’impegno nel lavoro, a una ideologia del
{p. 112} lavoro» [60]
. L’autorealizzazione nel mestiere compendia efficacemente tale spinta, che sfocia poi storicamente nelle aristocrazie del lavoro: sia quelle unioniste che videro «l’affermazione dell’interesse professionale dei lavoratori nettamente separato dal loro interesse di classe» [61]
; sia quelle proletarie la cui posizione era «materialmente più suscettibile di accogliere un progetto organizzativo-politico come quello dei Consigli operai, cioè di autogestione della produzione» [62]
.
Dove vada dunque il privilegio del mestiere, dove porti nel migliore dei casi, è presto detto. Non lo si può fare meglio di come lo descrisse P. Gobetti, quando al modello statunitense di operaio taylorizzato venne opponendo l’idealtipo europeo del lavoratore egemone: «Contro l’umile ideale di un lavoro ridotto a puro fatto meccanico, complesse esigenze di produzione, che facevano partecipare un nucleo sempre più numeroso di eletti al segreto e alle difficoltà del lavoro qualificato, generavano nei salariati una coscienza oscura di idealismo aristocratico che fermentava in un bisogno di potere» [63]
. Questa «pretesa tipicamente ordinovista di far coincidere l’avanguardia politica con il più alto livello di qualificazione operaia» [64]
aveva già portato Korsch nel 1919 a promettere che attraverso i Consigli di fabbrica «lo spirito capitalistico, ucciso in quanto capitalismo dei proprietari, risorgerà come capitalismo operaio» [65]
; e nel 1969, mezzo secolo dopo, avrebbe condotto S. Mallet ad aspettarsi l’alleanza dei diversi strati professionalizzati dell’industria moderna, «per fondare la vera società industriale, finalmente liberata dai suoi arcaismi capitalistici e tecnocratici» [66]
. Verrebbe proprio da dire: se lo scopo è questo…
Non si insisterà mai abbastanza sull’angustia di questa impostazione. Angustia, ancor prima che vaghezza. Far poggiare sul mestiere, o comunque sulla professionalità crescente, il futuro del lavoro, è così poco persuasivo come affidarsi all’automazione per riscattarlo: se è il mestiere che deve salvare il lavoro, c’è il fondato sospetto che l’ammalato risulti incurabile.
Vi è anzitutto l’angustia del modello sociale proleta{p. 113}rio. Tutti questi apologeti della qualificazione paiono unicamente prefiggersi l’obiettivo di trasformare gli operai in artigiani moderni (anche se qualcuno, più gratificato nel lavoro, diventa «padroncino»). Questo e non altro è il fiero ma circoscritto orizzonte professionale e sociale così disegnato. Esso non muta quando quell’archetipo, venuto a contatto con l’automazione, si trasfigura nell’operaio-tecnico: anche il conduttore/controllore del duemila mantiene infatti ascendenze leonardesche [67]
. Degli ingegneri è probabile si pensi di avere ancora bisogno, ma è singolare che in questo quadro di catarsi industriale e di riscatto professionale, predomini l’artigianità a ogni livello. Sicché gli stessi ingegneri paiono diventati tecnici esperti in artigianità industriale, produttori anche loro ma con la laurea.
Vi è poi la circostanza che questa artigianità non è soltanto una maniera per proletarizzare la vocazione borghese espressa nel mestiere, ma è anche e soprattutto l’ipostatizzazione in era industriale di rapporti sociali storicamente anteriori e inesorabilmente superati. Ed è proprio con la trasformazione dei salariati in produttori, che si opera questo tentativo di retrodatazione, in virtù del quale si riesce a chiedere per tutti i salariati, cioè a prometter loro, un lavoro professionalizzato nel senso del mestiere: audacissima utopia, giacché prospetta la generalizzazione del privilegio.
Vi è difatti una retrodatazione proiettata in avanti. Gettato sull’èra presente un ponte che scavalca l’operaio-massa del lavoro parcellizzato, il produttore-artigiano che fu si ripropone come il produttore-artigiano che sarà: beninteso, arricchito della coscienza di classe che il soggetto si è dato nel frattempo, non senza l’aiuto inestimabile del movimento operaio. In tal modo, ci si ostina a credere nel «mito che traspone nell’industria certi tratti dei mestieri artigianali» [68]
mentre si confida che nella qualità del lavoro intervenga una socializzazione dell’artefice, un travaso alla pari fra arte e scienza, contra Taylor.
Di conseguenza, vi è alfine un scoglio logico: «Il lavoro si vede attribuire la realtà purificata ed omoge{p. 114}nea che effettivamente possiede nell’industria, ma in quanto lavoro astratto; e, nello stesso tempo, mantiene la varietà concreta dell’attività artigianale, che coesisteva con un’unità economica completa. Due determinazioni queste — aggiunge Rolle — che chiaramente si escludono a vicenda» [69]
. È come volere la motorizzazione diffusa e l’aria pulita: solo le anime belle se la cavano dicendo che la motorizzazione si può espandere senza che l’aria si sporchi.
Non ce la si scrolla di dosso la contraddizione, dando la colpa al capitalismo se la produzione di massa ha mandato il lavoro in frantumi. Ford non ha lanciato il modello T per spezzare il lavoro. Ha spezzato il lavoro per lanciare il modello T. Spiega lui stesso che l’alternativa erano le auto di lusso e da corsa [70]
: quelle sì che avrebbero preservato il nucleo di operai d’alta qualifica, tornitori capaci di fare pezzi quadri, battilastra dal tocco magico, aggiustatori al millesimo di millimetro com’è stato mio padre. Certo, sarebbe stato bellissimo se si fossero potute fabbricare le vetture utilitarie con il lavoro di quegli operai che fornirono a Gramsci il prototipo del produttore consiliare. Invece è venuta la catena, è comparso il lavoro astratto. Prometeo è stato messo in ceppi.
Quel che Marx aveva immaginato per via logica, lo si è verificato in sede sociologica: «l’operaio comune sostituisce l’operaio di mestiere dovunque s’installa la produzione di grande serie» [71]
. Lungo mezzo secolo, questo processo di sostituzione si è diffuso su scala mondiale e forse è arrivato al culmine un po’ dappertutto. Esso ha mutato non meno il carattere del lavoro salariato che la composizione della classe operaia; ha rimpiazzato vecchi protagonisti con soggetti nuovi, ma soprattutto ha sconvolto valori e motivazioni. Qui in Italia ce ne siamo forse accorti tardi, non tanto perché la nostra struttura industriale era arretrata, quanto per il fatto che c’era un’avanguardia operaia dove per lungo tempo l’alta qualificazione aveva coinciso con l’alta politicizzazione. Ma ormai da un decennio s’è dovuto prendere atto anche qui, in via definitiva, non solo che «le caratteristiche {p. 115}della produzione di massa sembrano aver fortemente influenzato l’atteggiamento dell’operaio verso il lavoro», ma che «nella maggior parte dei casi tale influenza è avvenuta in senso negativo» [72]
. Se non si sono avverate le fosche profezie sulla regressione antropologica degli operai massificati, è proprio perché essi hanno cercato di difendersi dal lavoro e di affermarsi come classe.
Se questa nostra era dell’operaio comune non è dunque il regno della barbarie; se la standardizzazione del lavoro ha assai più promosso contadini che degradato artigiani (non cancellando del resto mansioni qualificate e funzioni professionali, anzi creandone e ricreandone), allora dobbiamo tenerne conto sino in fondo. E domandarci: a chi possiamo credibilmente promettere oggi il mestiere di ieri, indicare la professionalità di domani, per la propria autorealizzazione nel lavoro? Come è stato osservato, «un lavoro che permetta l’auto-espressione di chi lo svolge […] costituisce un fine in sé, non soltanto un mezzo per assicurarsi la sopravvivenza» [73]
. Appunto. Mentre fra il grosso dei lavoratori vengono aumentando di peso le motivazioni estrinseche al lavoro [74]
, è possibile riproporre il fattore professionalità come sua motivazione intrinseca?

4. L’inerenza fra qualificazione tecnica e maturità politica

Un punto debole delle geremiadi sulla degradazione del lavoro sta nel carattere di indefinita continuità che a tale processo viene attribuito. Pare una china che il lavoro salariato contemporaneo possa solamente discendere [75]
. Eppure, quel che è difficile affermare per il passato — cioè che la dequalificazione prosegua ininterrotta da quasi un secolo o anche più — dovrebbe onestamente essere impossibile dire per l’avvenire. Né del resto la qualificazione del lavoro [76]
potrebbe essere più ineluttabile del suo contrario: sono processi con fasi [77]
. E poi, già il buon senso insegnerebbe a diffidare di qualsivoglia tendenza al continuum, quando si tratta di{p. 116} fenomeni storico-sociali, specialmente se ne vengono previsioni di declini senza speranza. (O anche di ascese senza problemi: ma solamente i riformisti più creduloni e gli industrialisti più radicali immaginano un tale divenire per la professionalità).
Quanto alle componenti non riformiste del movimento operaio, siamo di fronte a due varianti di un medesimo fatalismo. Una potremmo definirla inerziale: la rottura verificatasi con il taylorismo ha dato impulso a un movimento di degrado che prosegue inarrestabile. Un’altra si potrebbe chiamare gravitazionale: l’attacco continuo dell’innovazione tecnologica accelera incessantemente la caduta ma accresce altresì gli attriti provocati.
In quest’ultima variante si ha una drammatizzazione di tendenze. La spoliazione del lavoro procede più inesorabile dal momento che il dominio del capitale incorpora ormai tutto, però il potenziale d’inceppamento del sistema si accumula perché l’alterità di classe fa crescere il rifiuto e si estende a strati nuovi [78]
. È la visione un po’ allucinata di un capitalismo antropomorfico e luciferino, intrisa di determinismo tecnologico, che in questi ultimi anni si è materializzata e manifestata in uno scenario di disperazione e di violenza degno del Tallone di ferro.
Nella prima variante c’è invece un pessimismo contenuto. Fra l’impoverimento provocato dalla dequalificazione professionale e l’arricchimento tentato con la rivendicazione sindacale, si svolge un Sysiphusarbeit tipicamente senza fine. Questa visione, che condanna un’organizzazione del lavoro la quale, essendo capitalistica, offende e spreca una risorsa preziosa, reca infatti con sé una forte volizione conflittuale che fa da deterrente alternativo.
Fra coloro i quali sentono il degradarsi del lavoro come un processo fatale, connaturato al modo di produzione capitalistico, maggiormente travagliata e contraddittoria è dunque la posizione di chi vuole ciononostante contrastarlo e combatterlo. Ecco perché la lotta sindacale diretta al cambiamento dell’organizzazio
{p. 117}ne del lavoro può essere presentata a volte come risolutiva. Chi si attende invece che ne consegua una capacità di deflagrazione tale da spaccare il meccanismo dello sfruttamento, accetta con incurante lucidità quel corso obbligato. E quindi, nelle lotte che aggrediscono e sconvolgono l’organizzazione del lavoro non intravede il nuovo modo di produrre bensì la fine del lavoro salariato.
Note
[58] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, in Sociologia delle religioni, Torino, UTET, 1976, I, p. 141.
[59] A. Tilgher, Homo faber, Roma, Libreria di scienze e lettere, 1929, p. 57.
[60] S. Garavini, in Sindacato e questione giovanile, Bari, De Donato, 1977, p. 23.
[61] G. Berta, Marx, gli operai inglesi e i cartisti, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 42.
[62] Così S. Bologna, in Operai e stato, Milano, Feltrinelli, 1972, pp. 15-16. In questo studio sulla composizione di classe nella Germania rivoluzionaria, viene sottolineato l’aziendalismo delle avanguardie qualificate, già rilevato con acutezza da G. Briefs, Sociologia industriale, a cura di D. De Masi, in «Sociologia dell’organizzazione», n. 1, giugno 1973, p. 94. Cfr. altresì Regini e Reyneri, op. cit., p. 89, dove è messa in risalto anche per l’Italia la propensione dei militanti operai più qualificati «ad identificarsi nell’azienda».
[63] P. Gobetti, La rivoluzione liberale, Torino, Einaudi, 1964, p. 102.
[64] A. Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 587.
[65] K. Korsch, Consigli di fabbrica e socializzazione, Bari, Laterza, 1970, p. 34.
[66] S. Mallet, Introduzione alla nuova edizione de La nuova classe operaia, Torino, Einaudi, 1970, p. 47. Aveva davvero ragione Mothé (almeno su questo punto), a dire che il manovale specializzato «sarà sempre colui sul quale ci si impietosisce», mentre è sull’operaio qualificato che si conta per «organizzare la società futura»: Gli operai, cit., p. 17. Sulla riappropriazione del lavoro come espressione razionale di una coscienza di sé attraverso «la logica della produzione», cfr. P. Bernoux, La resistence ouvrière à la rationalization: la réappropriation du travail, in «Sociologie du travail», n. 1, gennaio-maggio 1979, pp. 76 ss.
[67] A. Gorz, Il socialismo difficile, Bari, Laterza, 1968, lo vede come un Principe tecnologico che «ottimizza il lavoro» (p. 40) e che «padroneggia le innovazioni» (p. 67). Vedi soprattutto La nuova classe operaia, cit., e le osservazioni di A. Pichierri a Mallet per il cattivo uso degli schemi di Touraine, in L’evoluzione del lavoro operaio alla Renault, cit., p. XIX.
[68] A. Touraine, op. cit., p. 267, dove si ricorda con sarcasmo che Ford stesso si diceva antesignano di questo «nuovo artigianato».
[69] P. Rolle, op. cit., p. 260.
[70] H. Ford, La mia vita e la mia opera, Bologna, Apollo, 1925, soprattutto il cap. III, pp. 51-15.
[71] A. Touraine, op. cit., p. 266. Cfr. il famoso passo sulla «fabbrica automatica» nel capitolo su macchine e grande industria: K. Marx, Il capitale, Libro I2, Roma, Editori Riuniti, 1956, p. 126
[72] Walker, Guest, op. cit., p. 169.
[73] Blauner, op. cit., p. 105.
[74] Basti citare la fondamentale ricerca di J. H. Goldthorpe, D. Lockwood, F. Bechofer, J. Platt, Classe operaia e società opulenta, Milano, Franco Angeli, 1973, di cui vedi le pp. 92-5 e l’introduzione di G. Romagnoli alla riduzione italiana.
[75] Proudhon parla di «logica fatale» e adopera la medesima nozione di degradazione, che trasmette all’operaio stesso: op. cit., pp. 684-6.
[76] Jánossy, op. cit., p. 247-8, ritiene che la divisione del lavoro trasformi qualitativamente la struttura delle conoscenze, migliorandole cioè senza per questo accrescerle.
[77] Cfr. M. Freyssenet, Le processus de dequalification-surqualification de la force de travail, Paris, Centre de Sociologie urbaine, 1974.
[78] I principali filoni di questa interpretazione sono richiamati nella discussione sul libro di K. H. Roth, L’altro movimento operaio, Milano, Feltrinelli, 1976, in M. G. Meriggi (a cura di), Il caso Karl-Heinz Roth, Milano, Edizioni di Aut-Aut, 1978.