Federico Batini (a cura di)
La lettura ad alta voce condivisa
DOI: 10.1401/9788815410238/c3
La concentrazione richiesta dalla lettura, esclusiva ed escludente, oltre a richiedere un grande dispendio di tempo e di energie, mette a repentaglio l’incolumità di chi legge, isolandolo e rendendolo vulnerabile. Attività pericolosa e antieconomica, la lettura – qualunque sia il motivo che spinge a praticarla – è sempre «basata su un interesse utilitario», afferma Spinazzola [2001, 40], nel senso che «se io leggo un libro, lo faccio perché penso di trarne un vantaggio, un arricchimento della mia vita interiore, che mi ripaghi del tempo e delle energie spese leggendo».
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Tuttavia, sulla scorta delle riflessioni teoriche di Louise Rosenblatt [1994, 22-47] possiamo individuare almeno due distinti approcci alla lettura, che dipendono dalla natura e dalla conformazione dei testi, che contengono al loro interno o nel peritesto editoriale le istruzioni relative al loro possibile uso, ma anche se non soprattutto dalla situazione comunicativa, dagli interessi in gioco e dal sistema di valori e di credenze dell’io leggente: una lettura efferente, durante la quale l’attenzione di chi legge è focalizzata su ciò che dovrà rimanere dopo la lettura (e quindi, letteralmente, conduce fuori dal qui e ora della lettura) e una lettura estetica, che si realizza quando chi legge – oppure, nel nostro caso, ascolta – è interessato a ciò che accade durante la fruizione, nel qui e ora dell’esperienza che sta vivendo. Se lo studio, la ricerca di informazioni o, anche, il commento e l’interpretazione dei testi, sono pratiche che richiedono e sollecitano una lettura efferente, la lettura ad alta voce condivisa – specialmente se accompagnata da riti e atteggiamenti che contribuiscano a dare valore al momento della fruizione e all’immersione nella storia [Batini e Giusti 2021a; 2022] – richiede e sollecita una lettura estetica che trova il suo senso e la sua motivazione nel momento stesso dell’esecuzione.
Quando per descrivere una nostra esperienza di lettura ricorriamo alla metafora del viaggio o dell’immersione, è molto probabile che stiamo facendo riferimento a una lettura avvenuta in modalità estetica, durante la quale abbiamo sperimentato quella sensazione di spostamento o trasferimento che ci ha consentito di visualizzare personaggi e ambienti, di provare emozioni e, anche in presenza di emozioni negative come la paura, la rabbia o il disgusto, di valutare positivamente l’esperienza e di scegliere di rimanere lì dentro, ancorati al dispositivo testuale, attivamente impegnati in quell’opera di co-creazione [Raimondi 2007, 65] che ci mette di fronte all’imprevisto e ci spinge ad assumere un atteggiamento ispettivo, a fare ipotesi e cercare di avvalorarle rimanendo il più a lungo possibile nella realtà finzionale del mondo narrato [Jedlowski 2013, 21].{p. 109}
Non occorre essere individui speciali per compiere questo tipo di esperienza, né occorre aver ricevuto un particolare addestramento – diversamente dalla lettura in sé, in quanto decodifica e comprensione di un qualsiasi testo scritto, che richiede anni e anni di duro allenamento – poiché è strettamente correlata a una delle capacità fondamentali dell’essere umano, il decoupling (disaccoppiamento o sganciamento) [Barkow, Cosmides e Tooby 1992], che consiste nella «capacità di elaborare informazioni non legate alla contingenza, distanti dunque dal reale e allocate in uno spazio immaginale, finzionale, al fine magari di disattivarne le insidie nascoste, i pericoli reali» [Cometa 2017, 93], che ha origini antichissime nella storia dell’umanità e viene esercitata fin dalle prime fasi dello sviluppo, quando la bambina e il bambino, già intorno alla fine del secondo anno di vita, diviene capace di usare il gioco in forma simbolica, imparando dunque a «rappresentare realtà possibili» e poi, in forma sempre più strutturata e complessa, a raccontare storie [Smorti 2022, 52-53].
Il racconto che abbiamo iniziato a leggere – che sia stato o meno creato per questo scopo – ci ha dunque offerto degli appigli, ci ha trascinati lì dentro, costringendoci a impegnarci in un corpo a corpo che costa fatica, tempo, energie. Ora si tratta di capire perché siamo rimasti così a lungo là in basso, nelle viscere del mondo narrato, al punto da aver fatto perdere le nostre tracce a chi ci sta aspettando là fuori. Supponendo che quella lettura non ci sia stata ordinata e che non serva a ricavare informazioni utili allo svolgimento di una qualsiasi ulteriore attività, dobbiamo allora ipotizzare che, grazie a quelle capacità cognitive che sono state messe in moto dal dispositivo testuale, stiamo facendo una lettura estetica che ci gratifica durante il suo stesso svolgimento, proprio attraverso la mobilitazione di risorse comuni, che sono nella disponibilità di ciascun individuo della nostra specie e che vengono attivate in determinate situazioni, spesso, ma non necessariamente, in presenza di opere d’arte [Schaeffer 2015, 52-54]: pitture, statue, poemi, ma anche abiti, gioielli, romanzi, albi illustrati ecc.{p. 110}
Tutto inizia con una «inflessione particolare dell’attenzione» [Schaeffer 2009, 20], una modalità attenzionale orientata esteticamente, che si differenzia dalla standard per alcune caratteristiche che il filosofo e teorico della letteratura Jean-Marie Schaeffer [2015] ha puntualmente descritto a partire dalle argomentazioni di Nelson Goodman [1968] e dalle ricerche condotte nell’ambito della psicologia cognitiva e che possono essere sintetizzate con i concetti di superinvestimento attenzionale [Schaeffer 2015, 77] – ovvero la disponibilità a intensificare gli sforzi di attenzione – e di «polifonia», cioè la possibilità di implicare e di far interagire differenti livelli, strati e modalità di focalizzazione dell’attenzione [ibidem, 90-99]. Più precisamente, senza addentrarsi nelle sue documentate argomentazioni, Schaeffer sembra confermare le tesi di Rosenblatt sull’esistenza di differenti modalità di attenzione, più o meno esteticamente orientate, che si traducono in comportamenti e strategie cognitive differenti, tutte socialmente marcate, che vengono scelte da ciascun individuo in base ai contesti e ai propri bisogni. Impegnarsi in un’esperienza estetica, quindi, equivale ad adottare uno stile attenzionale particolare che Schaeffer [ibidem, 104] definisce divergente e che, in opposizione allo stile convergente, che minimizza i costi attenzionali per andare subito a ricavare le informazioni pertinenti, si caratterizza per una categorizzazione ritardata e per un maggiore dispendio di energie, che si rende particolarmente necessario soprattutto nel caso della lettura della poesia [Schaeffer 2011, 83-87].
Gli sforzi richiesti dall’esperienza estetica non sono poi alleggeriti dal fatto che l’attenzione sia legata a esperienze emotive intense e, in termini energetici, altrettanto dispendiose. Si tratta, anche in questo caso, di risorse che vengono impiegate dal soggetto – l’io leggente – e che contribuiscono a rendere possibile un’attenzione sempre più intensa e ad aumentare di conseguenza il dispendio complessivo di energia richiesta all’organismo per rimanere ancorato al testo. Capita, durante la lettura, di assistere a un’improvvisa attivazione fisiologica che incide sulla frequenza cardiaca, sul ritmo respiratorio, la pressione sanguigna, ma anche sulla mimica facciale, sulla postura, fino a provocare riso o pianto, ma {p. 111}senza mai tradursi in comportamenti e in reazioni utili a fronteggiare problemi o situazioni in cui sarebbe necessario agire. Nella vita di tutti i giorni, infatti, le emozioni preparano l’azione, mentre nell’esperienza estetica, pur mantenendo intatta la loro forza, non si traducono in comportamenti [Schaeffer 2015, 164]. Ma se al di fuori del contesto estetico, infatti, il costo dell’investimento attenzionale e dell’attivazione emotiva vengono ricompensati dall’utilità strumentale dell’attenzione e delle emozioni, che contribuiscono a rendere reattivo il soggetto, perché mai durante l’esperienza estetica la persona dovrebbe proseguire un viaggio considerato allo stesso tempo dispendioso e inutile, fonte potenziale di stress e di emozioni negative?
Per comprendere meglio a chi giovi questo spreco di energie che l’individuo deve affrontare mentre orienta esteticamente la sua attenzione nei confronti di un’opera d’arte come un romanzo – che d’altronde potrebbe essere letto anche non esteticamente, senza tanto dispendio di risorse cognitive ed emotive, per andare alla ricerca delle risposte a un esercizio di analisi del testo o per ricavare le informazioni necessarie a rimanere aggiornati sugli usi e costumi del proprio tempo – dobbiamo introdurre il concetto di piacere, un termine apparentemente semplice e condiviso da molte teorie estetiche, con cui si tende a spiegare il senso ultimo di un’esperienza estetica pienamente riuscita. Rimane da risolvere il problema di come sia possibile applicare la categoria di piacere a un’esperienza spiacevole come la frustrazione o la rabbia provate dall’io leggente di fronte ad alcune pagine del suo romanzo.
Intanto, specifica ancora Schaeffer [ibidem, 197], nell’ambito dell’esperienza estetica si deve parlare di un piacere che viene prodotto dall’attività attenzionale nel momento stesso in cui si sta svolgendo e non a posteriori, dopo la sua conclusione. Un po’ come accade durante la degustazione di cibo o bevande, la modalità estetica dell’attenzione, per essere sostenibile dall’organismo, deve essere accompagnata da una costante valutazione positiva dei costi sostenuti. Questa valutazione – che interagisce in modo complesso e inestricabile con il contesto di vita in cui avviene l’espe{p. 112}rienza estetica e con le altre condizioni che determinano il benessere o il malessere del soggetto, si fonda dunque su una misurazione istantanea, non necessariamente accessibile alla coscienza – è indispensabile ma non sufficiente a spiegare la complessità dell’apprezzamento estetico, che è correlato ad almeno tre variabili: la fluenza, la curiosità e l’interesse [ibidem, 221-250], da intendersi sempre all’interno di un processo circolare, autoteleologico, secondo cui l’attenzione è esercitata per sé stessa e non per ottenere una qualche ricompensa esterna all’esperienza estetica.
Ciò non significa, ovviamente, che questo tipo di esperienza non produca cambiamenti nei soggetti e che non abbia come conseguenza degli apprendimenti significativi. Premesso che le opere letterarie, come ogni opera d’arte, possono essere portatrici di valori e di conoscenze che non dipendono dalla loro fruizione estetica, è necessario a questo punto del ragionamento tenere a mente che l’esperienza estetica – e in particolare quella simulazione immersiva sperimentata da chi partecipa alla lettura ad alta voce condivisa di un albo illustrato o di un romanzo – è di per sé un’attività cognitiva che produce degli apprendimenti non dichiarativi, impliciti [Schaeffer 2011; trad. it. 2014, 80], capaci di modificare l’apparato percettivo dell’io leggente [Todorov 2007; trad. it. 2008, 70] con modalità e processi cognitivi analoghi a quelli messi in atto durante l’apprendimento esperienziale [Giusti 2020b]. Una forma di apprendimento che può essere praticata da ogni essere umano, purché abbia iniziato fin dai primi giorni di vita a interagire con gli altri e faccia parte di una comunità che attribuisce valore alla condivisione di storie, all’ascolto reciproco e all’esercizio sistematico dell’attenzione in modalità estetica.

4. Un’esperienza di collaborazione

Se nell’ambito degli studi letterari si tende a pensare che la realizzazione acustica di un’opera letteraria non faccia parte della struttura dell’opera [Schaeffer 2015, 96], osservando il fenomeno dal punto di vista dell’esperienza estetica
{p. 113}dobbiamo ammettere che la voce, la situazione comunicativa e i modi stessi dell’ascolto diventano inseparabili, e che la loro interpretazione è dunque pertinente e necessaria alla comprensione del fenomeno.