Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c1
Conviene ricordare al riguardo che, nel parere del 1920, l’oggetto prevalente dell’attenzione del collegio era la (allora) delicata questione dell’accesso delle donne all’insegnamento nelle scuole (specie di grado superiore). Autorizzando il ministero della pubblica istruzione ad inserire nel regolamento esclusioni delle donne dall’insegnamento (in talune scuole e/o di talune materie, a discrezione del ministero), il
{p. 36} consiglio di stato interveniva pesantemente in un settore nel quale l’offerta di lavoro delle donne del ceto medio era consistente [94]
. Negare alle donne il diritto di insegnare significava, in primo luogo, limitare l’incidenza della legge del 1919 sulla composizione del personale docente e, in definitiva, sul livello di occupazione maschile nelle scuole. In secondo luogo, lasciare alla discrezionalità dell’amministrazione il giudizio sull’attitudine delle donne ‒ in quanto donne ‒ all’insegnamento, voleva dire legittimare la «meditata» opinione del ministero, secondo il quale «la formazione della mente e del carattere del cittadino devono compiersi nella scuola media di secondo grado in ¡specie attraverso certi insegnamenti, e questi non possono essere affidati alla donna, la quale non dà adeguato affidamento per le sue qualità fondamentali, che non sono modificabili da tirocinio e cultura» [95]
.
In sostanza, introducendo la distinzione tra capacità giuridica, eguaglianza, diseguaglianza di fatto delle donne, e autorizzando la pubblica amministrazione a sancire l’inattitudine concreta delle donne (perché donne) ad impieghi ed uffici cui erano giuridicamente capaci, il consiglio di stato innalzava a principio di diritto la più triviale concezione della naturale inidoneità delle donne a svolgere lavori socialmente qualificati [96]
.
Tale costruzione era destinata a durare nel tempo. Come è noto (e meglio vedremo più oltre: infra, cap. II), la concezione dell’inferiorità naturale sarebbe stata ripresa e approfondita dai fascisti; prima con i discorsi che Mussolini dedicò alla questione femminile [97]
, poi, più concretamente, con la legislazione che procedette dall’interdizione alle donne dell’insegnamento della storia, filosofia, economia nelle scuole superiori, fino alla progressiva espulsione delle lavoratrici dai ruoli della pubblica amministrazione. Quanto i fascisti fecero contro le donne, lo fecero col consenso evidente di una burocrazia reazionaria e «composta di maschi»; consenso che, almeno per quanto riguarda il consiglio di stato, doveva resistere alla caduta del fascismo e all’entrata in vigore della costituzione: ne troveremo traccia ancora nelle decisioni che, nei primi anni ‘50, affermavano il carattere programmatico dell’art. 37 cost. (infra, cap. IV, par. 2).{p. 37}
Rispetto alla legge sulla capacità giuridica, sorte diversa, peggiore e ancora più effimera ebbe il riconoscimento del diritto di voto. La storia parlamentare del suffragio alle donne si interseca strettamente con la storia della presa del potere da parte dei fascisti; la storia del progressivo svuotamento, fino alla vanificazione, di quello che era stato un grande obiettivo rivendicativo dei movimenti femminili legati ai popolari e ai socialisti [98]
è storia interna della sconfitta della sinistra italiana e del rapido consolidarsi della politica femminile del fascismo.
Possiamo brevemente ricordare che la camera aveva approvato a grande maggioranza, nel luglio del 1919, un progetto di legge sul voto non politico alle donne; di lì a due anni, avendo il senato respinto il progetto ed essendosi profondamente modificate le condizioni politiche, «quella prima conquista restò l’ultima trincea» [99]
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Un progetto di legge sul voto amministrativo alle donne venne ripresentato dai fascisti nel 1923, subito dopo la conclusione del 10 congresso dei fasci femminili [100]
, nel quale Mussolini aveva impegnato il governo a concedere ad alcune categorie di donne il voto non politico. Nel progetto fascista, l’elettorato femminile era scelto con attento riguardo ai meriti «patriottici» e al censo. Le donne che avrebbero potuto votare (ma non essere elette a sindaco, assessore, presidente dell’amministrazione provinciale, deputato provinciale, componente della G.p.a., ed altre numerose cariche come, ad es., membro della commissione per la requisizione dei quadrupedi) dovevano appartenere ad una delle seguenti categorie: decorate di medaglia al valor militare o per altre benemerenze civiche; madri o vedove (purché caste: non risposate, né concubine) di caduti in guerra; che avessero l’esercizio effettivo della patria potestà o della tutela, purché non analfabete; che avessero conseguito il diploma del corso elementare obbligatorio; che pagassero nel comune imposte dirette non inferiori a quaranta lire e che sapessero leggere e scrivere [101]
.
Il progetto venne approvato il 15 maggio 1925: ma fu «l’ultima farsa»; nel 1929, con la legge sulla riforma podestarile, che abolì l’ordinamento elettivo per i comuni e le{p. 38} province, nessun italiano, uomo o donna che fosse, poté più votare [102]
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Con le amare vicende del dopoguerra, e nel momento del passaggio dal sistema liberale al regime fascista, si concluse anche la prima (lunga e complessa) fase della legislazione sul lavoro delle donne: con la legge 6 aprile 1922, n. 471, l’Italia ratificò la convenzione di Washington (1919) nella quale erano stati fissati: il limite minimo di età per L’ammissione al lavoro (quattordici anni); il divieto di lavoro notturno per le donne di qualsiasi età; l’astensione obbligatoria dal lavoro per le gestanti e le puerpere [103]
. Con la legge di ratifica, si iniziava quel periodo di «normalizzazione» legislativa, dopo lo sconvolgimento che la guerra aveva portato nell’occupazione femminile e nelle leggi sul lavoro delle donne, che sarà organicamente compiuto nel ventennio successivo.
Note
[94] Secondo quanto riferiva A. Kuliscioff, nella relazione al congresso nazionale socialista (21-25 ottobre 1910), Proletariato femminile e partito socialista, in «Critica sociale», XX, nov. 1910, ora in «Donne e politica», IV, die. 1973, n. 20, nel 1910 le maestre e le professoresse erano già 62.643, contro 34.346 colleghi uomini. Commenta S. Puccini, Condizione della donna e questione femminile, cit., p. 26, che l’insegnamento doveva diventare un’occupazione prevalentemente femminile per due ragioni: perché è un lavoro da sempre mal retribuito; perché l’insegnamento (specie elementare) non rappresenta una brusca frattura rispetto ai tradizionali compiti femminili e consente di percepire un salario integrativo del bilancio familiare.
[95] Cfr., nel cit. parere Cons. stato, 20 maggio 1920, le motivazioni ai quesiti formulati dal ministero della p.i.
[96] Concezione triviale, ma certo non nuova e neppure estranea al patrimonio di idee della élite politico-culturale italiana all’inizio del secolo. Basta confrontare, nel libro di G. Gambarotta, Inchiesta sulla donna, cit., le opinioni degli intellettuali intervistati sull’inferiorità naturale della donna.
[97] Nel 1925, a commento dell’approvazione della legge 15 maggio 1925 sul voto amministrativo alle donne, Mussolini aveva affermato: «non divaghiamo a discutere se la donna sia superiore o inferiore; constatiamo che è diversa. Io sono piuttosto pessimista [...] io credo ad esempio che la donna non abbia potere di sintesi e che, quindi, sia negata alle grandi creazioni spirituali». Il passo, molto famoso, è citato anche da M. A. Macciocchi, La donna ‘nera’. ‘Consenso’ femminile e fascismo, Milano, 1976, p. 46, che gli attribuisce il pregio di esprimere chiaramente la concezione mussoliniana («mistificazione misogina») della donna come «coniglia da riproduzione».
[98] Il partito comunista dichiarava invece di non occuparsi della questione del voto alle donne, «di cui vanno forse chiacchierando altri partiti. Questione superata dai comunisti, i quali ben altra concezione hanno della vera eguaglianza fra tutti i lavoratori d’ambo i sessi, i quali sanno che nel loro regime la donna con l’uomo parteciperà a tutti gli uffici e collaborerà alla costruzione e alla vita della nuova società comunista». La citazione di Amedeo Bordiga (intervento pubblicato nella «Tribuna delle donne», «L’ordine nuovo», 7 aprile 1921), è riportata da F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., p. 138. Sulle opinioni dei comunisti italiani intorno all’emancipazione delle donne, v. C. Ravera, Breve storia del movimento femminile, cit., pp. 110 seg.; la Ravera fornisce un ampio resoconto delle idee di emancipazione (come pieno inserimento nel lavoro produttivo e liberazione dalla schiavitù della casa) che la «Tribuna delle donne» e il quindicinale «Compagna» diffondevano fra le donne comuniste.
[99] F. Pieroni Bortolotti, op. cit., p. 140: l’a. è tornata di recente sulla vicenda del suffragio femminile: Femminismo e partiti politici in Italia 1919-1926, Roma, 1978.
[100] Sui fasci femminili, v. il sintetico giudizio di C. Ravera, op. cit., p. 132. Sulla organizzazione dei fasci v. G. Giannini Alessandri, La difesa della razza nel regime fascista, cit.; ma le informazioni fomite da quest’a. sono poco attendibili, perché viziate dall’intento propagandistico.
[101] Sul progetto di legge elettorale fascista per il voto amministrativo alle donne, v. M. A. Macciocchi, La donna ‘nera’, cit., pp. 43 seg.; le pur utili informazioni che l’a. ci fornisce sono purtroppo annegate in un commento insopportabilmente ridondante, giocato sul tasto del rapporto sado-masochista tra le donne e il duce.
[102] Cfr. M. G. Manfredini, Evoluzione della condizione giuridica della donna nel diritto pubblico, in L’emancipazione della donna in Italia, cit, p. 185.
[103] Sulla politica di promozione della tutela delle lavoratrici perseguita dall’O.I.L., a partire dal 1919 (anno di fondazione) e improntata, almeno all’inizio, alla considerazione della debolezza ed inferiorità delle donne, v. E. Sullerot, La donna e il lavoro, cit., pp. 135 seg.; ivi alcune giuste osservazioni sulle conseguenze della legislazione «protettiva», sull’inopportunità del divieto assoluto del lavoro notturno e sulle ragioni delle difficoltà incontrate dalle donne per ottenere il riconoscimento di un’effettiva parità salariale. Sulla condizione femminile negli anni venti, in Europa e negli Stati Uniti, v. A. Camparini, Questione femminile e terza internazionale, Bari, 1978, pp. 53 seg.