Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c6
Considerazioni non dissimili da quelle fin qui svolte valgono per la seconda eccezione alla regola della parità di trattamento (nell’accesso, ma anche nello svolgimento del rapporto di lavoro). L’art. 5 della legge n. 903 ha confermato per le donne di qualsiasi età il divieto di lavoro notturno, che risulta nella nuova disciplina più rigido che nella normativa precedente (artt. 12, 13, 14 L. n. 653/1934; L. 2 agosto 1952, n. 1352, di ratifica della convenzione O.I.L. n. 89; D.M. 5 luglio 1973) [81]
. Ai fini della applicazione del nuovo divieto, la «notte» è il periodo che va dalle ore 24 alle ore 6: rispetto alla disciplina precedente, la notte si è accorciata di un’ora. Il lavoro notturno è vietato, secondo la dizione dell’art. 5, nelle «aziende manifatturiere, anche artigianali»: l’uso di tale locuzione, tanto diffusa in passato quanto ignota al linguaggio legislativo, svela l’intento di restringere il divieto ad una parte soltanto delle aziende industriali. Tuttavia, la definizione dell’ambito di applicazione del divieto risulta incerta: ad avviso del ministero del lavoro, vale a tal fine la classificazione dell’I.S.T.A.T., che esclude dalle aziende manifatturiere, oltre a quelle che producono servizi, anche le imprese estrattive e quella per la costruzione e installazione di impianti [82]
. Alcuni commentatori della legge non condividono l’opinione del ministero, e giustamente ne sottolineano la scarsa aderenza alla ratio dell’art. 5 e l’incongruità [83]
. Non si può ad esempio trascurare che una lunga tradizione legislativa ha
{p. 258} vietato alle donne i lavori sotterranei nelle cave e miniere. Questo divieto è stato rimosso, ma sarebbe francamente eccessivo pretendere ora, in base ad una malintesa parità, di adibire le donne al lavoro sotterraneo anche notturno.
Il lavoro notturno nelle aziende manifatturiere, cioè produttrici di beni, è consentito: a) alle donne che svolgono mansioni direttive; b) alle addette ai servizi sanitari aziendali. Queste ultime vengono equiparate, nel trattamento, alle donne che svolgono lo stesso tipo di attività negli ospedali e in altre strutture sanitarie, per cui il divieto non è mai stato operante. Quanto alle prime (che, secondo l’interpretazione corrente, non sono solo le dirigenti, ma anche le impiegate con funzioni direttive) [84]
, il legislatore sembra essersi preoccupato della incidenza negativa, che il divieto di lavoro notturno può esercitare sull’accesso delle donne agli alti livelli della gerarchia professionale. Consentire ad una categoria di donne, numericamente scarsa ed economicamente forte, flessibilità maggiore negli orari di lavoro, è cosa sicuramente giusta. Ciò non toglie che, anche per queste donne, il lavoro notturno ponga problemi non indifferenti di affaticamento fisico e di organizzazione domestica [85]
.
Con una prescrizione più ristretta ma anche più rigida che nel passato, la legge n. 903 sembra a prima vista avere espresso un fermo giudizio negativo sul lavoro notturno, escludendo così l’ipotesi che il tradizionale divieto di adibirvi le donne abbia natura ed effetti discriminatori. La lettura del II comma dell’art. 5, però, smentisce subito questa impressione. Il divieto sancito dal I comma può, infatti, essere diversamente disciplinato e persino rimosso «mediante contrattazione collettiva anche aziendale, in relazione a particolari esigenze della produzione e tenendo conto delle condizioni ambientali del lavoro e dell’organizzazione dei servizi». Il legislatore incoraggia, per questa via, la rapida eliminazione del divieto, senza assumersi la responsabilità di scelte che, inevitabilmente, non saranno pacifiche [86]
.
Il ruolo attribuito alla contrattazione collettiva (di cui stavolta si identifica uno dei possibili livelli, ma non le parti) è anomalo in questo caso, così come nel caso previsto dal IV comma dell’art. 1. Ma, nel caso del lavoro notturno, i sinda{p. 259}cati hanno un ben più ampio potere di derogare per contratto aduna norma di ordine pubblico (o, per tradizione classificata fra quelle di ordine pubblico). L’unico limite è segnato dal III comma dell’art. 5, che prescrive l’inderogabilità del divieto per le lavoratrici madri, dall’inizio della gravidanza al settimo mese di età del bambino. Non costituiscono limiti invece le esigenze della produzione, per quanto «particolari», e neppure le condizioni ambientali e dei servizi, delle quali i sindacati dovranno tenere conto. La legge sembra suggerire un bilanciamento dei contrapposti interessi delle lavoratrici e delle aziende; ma l’ampiezza del potere di derogai è tale da sottrarre ad ogni controllo giudiziale il merito delle scelte fatte (o degli equilibri raggiunti).
L’art. 5 è stato accolto con soddisfazione dai sindacati dei lavoratori. Solo dopo le prime esperienze di accordi sul lavoro notturno (perché questi, sì, sono stati fatti), hanno cominciato a manifestarsi dissensi e incertezza sulla gestione della norma [87]
. Sta forse crescendo la consapevolezza di quanto gravi siano le responsabilità che il legislatore ha disinvoltamente scaricato sulle spalle dei sindacati.
Resta da affrontare, per concludere, qualche questione tecnica di quello che ho definito l’anomalo rinvio alla contrattazione collettiva. Le anomalie sono almeno tre: I) il sovvertimento del corretto rapporto tra legge e contratto collettivo; II) l’efficacia del contratto collettivo rispetto alla generalità dei lavoratori ricompresi nell’ambito di applicazione del contratto medesimo; III) la mancata definizione degli agenti contrattuali.
Secondo le regole che determinano la gerarchia delle fonti nel nostro ordinamento, il contratto collettivo efficace erga omnes è fonte di grado inferiore alla legge ed ai regolamenti. Quanto al contratto collettivo di diritto comune, esso non è fonte in senso tecnico, benché regoli una serie indefinita (generale) di rapporti, ma è un contratto di diritto privato: la sua efficacia è basata infatti sul consenso e non sull’autorità.
Durante il periodo fascista, e proprio nella legge di tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, era prevista la deroga contrattuale ad una norma di ordine pubblico: il limite mas{p. 260}simo di orario poteva essere derogato ‒ cioè elevato ‒ dal contratto collettivo corporativo. Si trattava anche allora di un’ipotesi eccezionale, la cui giustificazione formale era la garanzia della rappresentanza legale degli interessi collettivi da parte dei sindacati stipulanti (così almeno sosteneva Mussolini, nella relazione alla legge) [88]
.
La rappresentanza legale e necessaria dei lavoratori è stata fortunatamente eliminata; l’estensione erga omnes dei contratti collettivi (L. 14 luglio 1959, n. 741) è stata solo una vicenda transitoria, e comunque rispettosa del principio costituzionale della libertà sindacale. I rapporti fra legge e contratto sono rientrati così in una condizione di normalità, governata da due regole consolidate: a) il contratto può integrare la legge, se questa fa rinvio alla contrattazione collettiva, e nei limiti del rinvio; b) anche in mancanza di espresso rinvio, il contratto collettivo può derogare la legge, ma solo con disposizioni di «miglior favore» per i lavoratori. In questo secondo caso, la deroga non comporta alcun sovvertimento nella gerarchia delle fonti, restando salva l’autorità della legge verso la generalità dei suoi destinatari.
Benché queste regole avessero già subito qualche incrinatura ad opera degli artt. 4 e 6 dello statuto dei lavoratori [89]
, gli artt. 1 IV comma e 5 II comma della legge n. 903 ne segnano il radicale rovesciamento. Nelle norme citate, infatti, la legge n. 903 disciplina la sua propria violazione. Nel primo caso (art. 1, IV comma), il potere di deroga attribuito ai sindacati ‒ tutti, eccetto quelli di comodo [90]
‒ esorbita dai limiti delle condizioni più favorevoli ai lavoratori. La legge, come ho cercato di spiegare, sancisce un generale divieto di discriminazione, nel presupposto (vero o falso che sia, qui non interessa) che la parità di trattamento nell’accesso al lavoro (come anche nello svolgimento del rapporto) costituisca la garanzia del diritto al lavoro delle lavoratrici. Sancita la parità, e rimossi i preesistenti divieti legali, la legge n. 903 delega il contratto collettivo di diritto comune (nazionale, provinciale, di settore o aziendale) ad introdurre «deroghe», cioè limiti, al diritto al lavoro delle donne. Che, di fatto, per una donna sia preferibile non essere adibita a mansioni «particolarmente» pesanti è più che probabile. Ma che il limite{p. 261} (contrattuale) ad un diritto sancito dalla legge sia una condizione (contrattuale) di miglior favore è escluso. Qui non si tratta della deroga ad un limite quantitativo (per esempio: orario massimo) in senso più favorevole al lavoratore; qui si tratta della violazione di un suo diritto soggettivo.
Peggio ancora vanno le cose nel li comma dell’art. 5: valgono anche qui le considerazioni fatte, con l’aggravante che in questo caso la norma di legge prevede addirittura la sua stessa abrogazione per contratto.
Quanto poco l’attribuzione di un potere «legislativo» ai sindacati rispetti le prerogative del parlamento è evidente, specie se si tiene conto che, ai sensi dell’art. 16, II comma, L. n. 903, la violazione del divieto di lavoro notturno è un reato, punito con ammenda. Come invece si riescano a combinare le disposizioni degli artt. 1 IV comma e 5 II comma con la nullità delle clausole contrattuali in contrasto colla legge (art. 19 11 comma L. n. 903) rimane un mistero. C’è da chiedersi in base a quale criterio la magistratura potrà decidere la nullità di una disposizione contrattuale in materia di lavori pesanti e/o di lavoro notturno, quando la legge ha già autorizzato i sindacati a contrattare la «deroga» (cioè la violazione) delle sue norme.
Ha già dimostrato Tiziano Treu che i contratti collettivi, di cui all’art. 1 IV comma e all’art. 5 II comma L. n. 903, hanno di necessità efficacia per tutti i lavoratori ricompresi nel loro ambito di applicazione [91]
. Il buon senso, prima ancora della prescritta parità di trattamento, impedisce di distinguere tra lavoratrici iscritte e non iscritte ai sindacati stipulanti.
Come è noto, l’introduzione, surrettizia o strisciante, della efficacia generale dei contratti collettivi c.d. post-corporativi è divenuta una pratica costante nella legislazione degli ultimi anni: dalla legge sul lavoro a domicilio a quella sull’occupazione giovanile, per fare qualche esempio. L’efficacia generale riguarda la parte salariale dei contratti, la cui estensione ultra partes si considera, da sempre, uno strumento di tutela dei lavoratori contrattualmente più deboli. I dubbi sulla violazione dell’art. 39 cost. permangono: ma ha peso l’argomento in contrario, fondato sull’art. 36 cost. e sulla{p. 262} lunga esperienza della sua applicazione giurisprudenziale [92]
. Nel caso della legge n. 903 siamo però di fronte non a materia retributiva, ma a disposizioni che limitano i diritti, e incidono sulle condizioni di vita delle lavoratrici. Qui, nessun commentatore della legge è riuscito a trovare un argomento buono a superare l’evidenza della violazione dell’art. 39 cost. [93]
.
Qualcuno potrebbe meravigliarsi del fatto che ancora ci si preoccupi degli obsoleti commi II e seguenti dell’art. 39, quando il sistema sindacale, edificatosi al di fuori e malgrado la costituzione, ha raggiunto i livelli di efficienza che conosciamo. Tuttavia, la gravità dei problemi, messi sul tappeto dagli artt. 1 IV comma e 5 li comma L. n. 903, richiede una riflessione sulle regole del gioco costituzionale e sul loro rispetto. Una di queste regole è che il sindacato, nel nostro ordinamento, è privo della rappresentanza legale della categoria. Il fondamento volontario dell’associazione sindacale non garantisce solo il pluralismo; garantisce anche che i sindacati «maggiormente rappresentativi» non impongano le proprie scelte (e la propria contrattazione) a chi della maggioranza non faccia parte, e non abbia dunque alcun potere di controllo vuoi sugli apparati dirigenti dei sindacati, vuoi sul loro operato. Nel nostro sistema extracostituzionale (ma anche nell’art. 39 cost.), l’organizzazione sindacale è libera, e l’efficacia del contratto collettivo si basa sul consenso, sia pure mediato dalla rappresentanza.
Tornando ai due casi regolati dalla legge n. 903, si può dire che l’accordo aziendale stipulato dal consiglio di fabbrica ‒ eletto e revocabile dai lavoratori occupati nell’azienda ‒ ha un’efficacia generale formalmente non eccepibile. Rimane però da risolvere il problema, già segnalato, della lavoratrice che non venga avviata o assunta a causa di un accordo sulle mansioni precluse alle donne; accordo non applicabile, o non ancora applicabile, nei suoi confronti.
Poco resta ancora da dire sulla questione degli agenti contrattuali, non indicati dagli artt. 1 IV comma e 5 II comma L. n. 903 [94]
. Per le ragioni che ho appena esposto, ritengo che, ove anche il legislatore avesse detto «contratto collettivo stipulato dai sindacati maggiormente rappresenta
{p. 263}tivi», oppure «contratto collettivo aziendale, stipulato dalla rappresentanza sindacale aziendale», le due norme avrebbero sollevato egualmente molti dubbi di costituzionalità.
Note
[81] La disciplina preesistente (da ultimo il D.M. 5 luglio 1973) prevedeva che il ministro o l’ispettorato del lavoro, su motivata richiesta delle aziende, potessero modificare l’orario del lavoro notturno precluso alle donne. L’art. 12 L. n. 653/1934 conosceva inoltre numerosissime eccezioni, ora eliminate dalla generale prescrizione dell’art. 5, I comma, L. n. 903.
[82] V. la cit. circolare n. 92/78 del 29 dicembre 1978.
[83] R. Bortone, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 5, p. 806.
[84] Ancora R. Bortone, op. cit., p. 807, che riferisce un noto e consolidato orientamento giurisprudenziale; poiché nella specie si tratta tuttavia di fare eccezione ad un divieto, la cui sanzione è ancora utile a salvaguardare le condizioni di vita e di salute delle donne, mi pare opportuno che la qualità direttiva delle funzioni sia caso per caso prudentemente valutata, per circoscrivere l’eccezione al divieto alle sole ipotesi nelle quali il limite di orario costituisca un effettivo pregiudizio allo svolgimento delle funzioni in condizioni di pari dignità professionale con gli uomini.
[85] R. Bortone, loc. ult. cit.
[86] L. Ventura, La legge sulla parità, cit., p. 302.
[87] Cfr. L. Morozzo, Tra legge e realtà l’iniziativa sindacale, cit.
[88] Retro, II, par. 2, nota 55.
[89] A me pare che i problemi sollevati dagli artt. 4 e 6 dello statuto dei lavoratori siano in buona misura diversi, benché anche queste due norme pongano questioni di non irrilevante portata in ordine all’efficacia dell’accordo stipulato dalle r.s.a., di necessità generale (ma non secondo U. Romagnoli, in G. Ghezzi, F. Mancini, L. Montuschi, U. Romagnoli, Statuto dei lavoratori, supplemento del Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna - Roma, 1972, sub art. 4, p. 19). Partendo dal presupposto dell’efficacia generale, G. Pera, in C. Assanti e G. Pera, Commento allo statuto dei lavoratori, Padova, 1972, sub art. 4, pp. 32 seg., ritiene dubbia la costituzionalità degli artt. 4 e 6 st. lav. Per un riepilogo del dibattito intorno a questi temi v. P. Ichino, Funzione ed efficacia del contratto collettivo di diritto comune nell’attuale sistema delle relazioni sindacali e nell’ordinamento statale, in «Rivista giuridica del lavoro», 1975, I, pp. 485 seg. A differenza degli artt. 1, IV comma e 5, II comma, L. n. 903, gli artt. 4 e 6 st. lav. attribuiscono alle r.s.a. un potere di negoziare entro un ambito circoscritto e controllabile, vale a dire l’obbiettiva giustificazione della installazione degli impianti di controllo a distanza e delle visite personali di controllo; il limite del potere negoziale è lo stesso limite dell’esercizio legittimo, da parte dell’imprenditore, dei suoi poteri organizzativo e di controllo. Rileva le differenze T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 1, pp. 792 seg., nell’ambito di un discorso molto problematico e denso di interrogativi, ma privo di risposte.
[90] Così T.Treu, loc. ult. cit.; L. Ventura, op. cit., p. 304.
[91] T. Treu, loc. ult. cit.
[92] È sufficiente rinviare alle schematiche osservazioni di G. Giugni, Diritto sindacale, Bari, 1979, pp. 153 seg., e alla analisi della copiosissima giurisprudenza curata da M. L. De Cristofaro, La giusta retribuzione, Bologna, 1971, pp. 25 seg.
[93] Fa eccezione G. Simoneschi, La donna e il lavoro: dalla tutela alla parità, cit., p. 37, secondo cui «il ruolo della contrattazione collettiva non è quello di una norma di deroga con efficacia erga omnes [...] quanto quello di esprimere il criterio secondo il quale stabilire se ricorrano o no le condizioni previste dalla norma primaria». Ma non risulta chiaro dove Simoneschi riesca a vedere le «condizioni» previste nella norma primaria, stante la formulazione generica degli artt. 1, IV comma e 5, II comma.
[94] La mancata indicazione degli agenti contrattuali (i sindacati maggiormente rappresentativi di un qualche livello) distacca questa legge dalla tradizione legislativa di questo decennio: lo rileva T. Treu, loc. ult. cit.