Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c6
Con l’unificazione del soggetto «lavoratore», la legge n. 903 tende a realizzare quella parità di trattamento economico e normativo, già sancita dall’art. 37 cost., ma sin qui ben poco attuata. La legge ha dunque carattere di adempimento costituzionale, perché si muove nell’ottica dell’art. 37, pure sottoponendolo ad una rilettura che riequilibra il rapporto fra lavoro e ruolo familiare; rapporto squilibrato, nella norma costituzionale, che qualifica con l’aggettivo «essenziale» la funzione familiare della donna. La legge inoltre supera il riferimento della costituzione alle sole lavoratrici occupate,
{p. 243} per sancire un pari diritto al lavoro delle donne (anch’esso previsto dalla costituzione, all’art. 4, I comma, ma smentito dai fatti).
Che una legge sia intervenuta a riaffermare il principio della parità di trattamento è cosa che merita di essere incondizionatamente approvata: perché la parità è un valore non obsoleto, e la sua pratica, difficile affermazione si gioverà anche della legge n. 903; perché la parità è sicuramente rivendicata dalle donne. Ma, per approvare l’ottica unificante della parità, occorre definire con chiarezza di quale parità si tratti. A mio avviso, per avere un senso che non sia quello di annegare ogni specificità della condizione femminile, e per avere una portata che non esorbiti i contenuti dell’eguaglianza rivendicata dalle donne, la parificazione nel lavoro deve consistere nella eliminazione di ogni disparità di trattamento che sia attualmente o potenzialmente lesiva dei diritti e degli interessi delle donne. Intendere la parità come eliminazione delle disparità di trattamento pregiudizievoli per le donne, ma non come eguagliamento assoluto e meccanico della condizione giuridica delle lavoratrici a quella dei lavoratori, significa tuttavia delimitare la portata della legge n. 903 proprio sull’unico terreno sul quale essa opera, vale a dire l’eguaglianza formale. Se questo fosse il senso (forse più limitato, ma forse anche più ragionevole) della parità di trattamento sancita dalla legge n. 903, questa legge non avrebbe immesso nel sistema della legislazione sul lavoro alcun principio nuovo, destinato a rivoluzionare la condizione giuridica delle lavoratrici e a rimuovere ogni forma di tutela specifica e/o privilegiata. Piuttosto, la legge avrebbe operato una correzione di rotta rispetto agli interventi legislativi del passato, giusta specialmente nella prospettiva di un intervento legislativo di transizione.
Abbiamo visto come e perché la legge n. 903 abbia invece bruciato la terra che stava alle sue spalle. Delle leggi protettive si sono salvate solo quella sulle lavoratrici madri (con le modificazioni significative ed anche opportune già segnalate) e quella sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio (il cui significato mi pare tuttavia largamente riassorbito dal generale divieto di discriminazione:{p. 244} art. 13 L. n. 903 e art. 15 st. lav.).
Di fronte ad una pratica giudiziaria che rivela un’utilizzazione men che modesta della legge da parte delle donne occupate e non; di fronte a risultati contrattuali che svelano le gravi difficoltà in cui si dibattono i sindacati [53]
; mi pare necessario insistere ancora sulla tesi che sono andata sin qui svolgendo. La parità di trattamento sancita dalla legge, per quanto rigidamente intesa, non è incompatibile né con la permanenza né con la reintroduzione di norme (contrattuali e legali) di tutela, che riguardino esclusivamente le lavoratrici [54]
. Nell’immediato le condizioni sociali e familiari, che rendono più pesante il lavoro e più fragile l’occupazione delle donne, meritano di essere tenute in considerazione, privilegiando un’interpretazione e soprattutto una gestione gradualistiche della parità. In un futuro, per ora remoto, in cui fosse pienamente recuperata l’eguaglianza sostanziale delle donne di fronte al lavoro, l’eguaglianza non eliminerebbe tuttavia quei tratti di diversità, che possono richiedere un intervento legislativo e contrattuale separato. Alla fine, la tutela dei lavoratori più esposti all’intensificazione del lavoro e alla disoccupazione non costituisce, da sempre, una sanzione della loro inferiorità, ma uno strumento di emancipazione da questa loro condizione.
Se dunque il principio della parità di trattamento, che domina oggi la condizione della donna lavoratrice, non è in sé incompatibile con il principio della protezione, ed escluso, per le ragioni anzidette, che ogni disposizione protettiva sia per ciò stesso discriminatoria, resta da vedere come e con quali strumenti la legge n. 903 garantisca in concreto la parità di trattamento. Resta anche da vedere se le disposizioni della legge consentano un’interpretazione ed una gestione utili e ragionevoli della parità.

6. Il divieto di discriminazioni nell’accesso al lavoro.

La lunga riflessione critica, svolta nei paragrafi precedenti, è servita, spero, a chiarire le scelte di politica del diritto che sorreggono la legge 9 dicembre 1977, n. 903. Come si è{p. 245} visto, la legge ha sconvolto il panorama della preesistente disciplina giuridica del lavoro femminile, senza che questi esiti «rivoluzionari» possano essere ascritti tutti al merito del nostro legislatore. Il quale legislatore, peraltro, non ha usato tutta farina del suo sacco: nei temi affrontati, la legge sulla parità si ispira infatti alle esperienze di altri paesi; nelle soluzioni prescritte, la legge ripete, in misura apprezzabile, le direttive 10 febbraio 1975 e 9 febbraio 1976 della C.E.E. [55]
.
Sulle scelte politiche che caratterizzano questo nuovo intervento legislativo in materia di lavoro femminile, e sulle implicazioni della (brusca) parificazione formale delle donne, ho espresso le mie riserve e preoccupazioni. Ma la formulazione di un giudizio critico sulla legge nel suo complesso non esaurisce il compito che mi ero proposta. Non foss’altro che per la loro portata innovativa, le disposizioni, alle quali i commentatori (giuristi, sindacalisti, politici) assegnano maggior peso, meritano una breve, ma puntuale analisi. L’analisi serve non solo a verificare un giudizio che fino a questo momento ho basato su riferimenti solo sommari alle disposizioni della legge, ma anche a fare emergere, di esse disposizioni, i contenuti positivi ‒ su cui ho finora taciuto ‒ e le potenzialità d’uso, sin qui scarsamente rivelate dalla pratica applicazione della legge.
Punto di partenza obbligato di questa analisi sono le norme che regolano, in modo nuovo e paritario, l’accesso al lavoro (artt. 1, 5, 15, 19). I dubbi che ho espresso sulla reale efficienza promozionale (verso l’occupazione femminile) non valgono a sminuire l’importanza di queste norme, né risolvono le delicate questioni interpretative che la loro utilizzazione propone.
L’art. 1, la norma più lunga, più complessa, e di maggiore rilievo (potenziale), nell’intera legge n. 903, ruota intorno alla prescrizione del divieto di discriminazioni, fondate sul sesso, nell’accesso al lavoro. Per chiarire il senso dei due termini della prescrizione ‒ discriminazione e accesso al lavoro ‒ il legislatore ha impiegato cinque commi, riuscendo solo parzialmente nel proprio intento.
Il divieto di ogni discriminazione nell’accesso al lavoro ha una portata generalissima, e riguarda il lavoro subordina{p. 246}to sia privato (dentro e fuori dell’impresa, incluso il lavoro a domicilio) sia pubblico. Il I comma dell’art. 1 estende infatti il divieto a tutti i settori o rami di attività ed a tutti i livelli della gerarchia professionale [56]
, «indipendentemente dalle modalità di assunzione». Quest’ultimo inciso serve a ricomprendere nel divieto sia i modi di costituzione dei rapporti di lavoro privati, previsti dalla disciplina del collocamento (assunzioni dirette, richieste numeriche, e nominative), sia le assunzioni per concorso e per chiamata, previste dalle leggi e dai regolamenti nel settore pubblico.
Il divieto di discriminazioni per sesso nell’accesso al lavoro garantisce la parità di trattamento fra uomini e donne quanto a criteri e modalità di assunzione; non si traduce invece in una garanzia, per le donne, quanto a opportunità di lavoro [57]
. Benché la legge n. 903 non ignori del tutto il problema, l’applicazione del divieto di discriminazioni alla formazione e all’orientamento professionale (art. 1, III comma) non costituisce infatti una di quelle «discriminazioni positive», che da più parti si richiedevano per agevolare il processo, certo lungo e difficile, di parificazione sostanziale delle donne di fronte al lavoro.
È noto che una delle cause dell’attuale discriminazione del lavoro femminile (cioè della preferenza accordata al lavoro maschile) è il livello di qualificazione professionale delle donne, mediamente inferiore, meno specialistico, e meno tecnico rispetto a quello degli uomini. Ora, per quanto il settore della scuola (in generale e della scuola professionale in specie) richiedesse un intervento antidiscriminatorio per eliminare, ad esempio, anacronismi come gli istituti tecnici femminili, o assurdità come la divisione per sesso delle applicazioni tecniche nella scuola dell’obbligo, è evidente che lo sviluppo di una nuova professionalità femminile richiede ben altro che la revisione in senso egualitario dei programmi scolastici e formativi. Risiedono nel profondo delle strutture economiche e sociali del paese le ragioni della più bassa scolarità femminile, della concentrazione delle ragazze nelle scuole magistrali e negli istituti tecnici e professionali del terziario, della scarsa presenza femminile negli istituti tecnici industriali. Esistono anche forti condizionamenti culturali che{p. 247} orientano le donne verso mestieri presentati come prolungamenti delle attività familiari. Lo si registra fino al livello dell’università, dove le donne (che pure sono il 40% degli studenti) si concentrano nelle facoltà che hanno come sbocco professionale ‒ magari illusorio ‒ l’insegnamento, considerato pressappoco come un lavoro part-time, e perciò «scelto» dalle donne che si preoccupano (non a torto) di poter continuare a lavorare dopo il matrimonio e malgrado la maternità [58]
.
Della formazione professionale, dunque, la legge si è occupata solo marginalmente, sancendo un divieto di discriminazione che lascia per buona parte irrisolti i grandi problemi della professionalità femminile. Al di là del breve cenno alla formazione professionale, la legge n. 903 tace del tutto sulle ragioni principali della discriminazione contro il lavoro delle donne, vale a dire la rigidità dell’offerta di lavoro femminile, causata dal permanere del ruolo sociale, appunto rigido e subalterno, della donna. La mancata previsione di strumenti idonei a riequilibrare il mercato del lavoro, il completo silenzio della legge sui servizi sociali, non sono certo compensati dalla fiscalizzazione degli oneri sociali di maternità (art. 8), troppo limitata, se è vero che la riduzione del costo del lavoro effettivamente promuove l’occupazione femminile. Neppure è lecito assegnare valore compensativo alla estensione al padre del diritto di assentarsi dal lavoro per assistere il bambino (art. 7); istituto poco utilizzabile, e di fatto poco utilizzato, finché all’interno della coppia le posizioni rimangano dispari, a svantaggio della donna [59]
. E la cronica inadempienza dello stato in materia di servizi sociali non aiuta certo le donne a liberarsi dei pesi familiari per riguadagnare la parità nel privato.
Se dall’ambito di operatività delle norme antidiscriminatorie sono rimaste fuori le cause strutturali della discriminazione del lavoro femminile (peraltro non rimediabili in una logica di intervento meramente parificatoria), la portata teoricamente generale del divieto di discriminazioni fondata sul sesso risulta, per quanto rilevante, praticamente circoscritta.
La prescrizione si dirige in due direzioni essenzialmente: a) la modalità e i criteri di assunzione (nel senso ampio di as
{p. 248}sunzione definitiva) [60]
; b) l’accesso ai vari settori e rami di attività, e, al loro interno, alle varie qualifiche e mansioni.
Note
[53] Rinvio ancora al corsivo di M. Carpani, op. cit., e alla distinzione fra «consenso teorico» sulla legge e pratico dissenso sulle cose da fare.
[54] L. Ventura, op. cit., p. 267, afferma che l’attuale abolizione delle tutele specifiche del lavoro femminile prelude alla introduzione di norme generali di tutela del lavoro maschile e femminile insieme.
[55] Le direttive C.E.E. 10 febbraio 1975 e 9 febbraio 1976 sono riportate in appendice a «Rivista giuridica del lavoro», Quaderno n. 1, Questione femminile e legislazione sociale, 1° luglio 1977, pp. 151 seg. Un ampio panorama della legislazione di altri paesi in «Bullettin of Comparative Labour Relations», n. 9/1978, stampato a Deventer, Olanda; ivi dettagliate informazioni sulla condizione delle lavoratrici e sulla disciplina giuridica del lavoro femminile in: Belgio, Canada, Francia, D.D.R., Ungheria, Nord-Irlanda, India, Giappone, Olanda,
[56] La legge ripete la locuzione contenuta nell’art. 3 della direttiva C.E.E. 9 febbraio 1976. Nella sua formulazione, l’art. 1 L. n. 903 (divieto di discriminazioni nell’accesso al lavoro) riprende le indicazioni contenute nella cit. direttiva C.E.E.
[57] In tal senso v. le osservazioni critiche di T. Treu, La donna che lavora e l’ordinamento giuridico, in «Inchiesta», n. 25, gennaio-febbraio 1977, p. 52. a proposito del progetto di legge governativo. Le modificazioni e le aggiunte apportate in parlamento non hanno eliminato le gravi deficienze del provvedimento, quanto a garanzie delle pari opportunità di lavoro per le donne.
[58] A. Buffardi, Formazione e professionalità femminile, in Aa. Vv., Organizzazione del lavoro e professionalità femminile, cit., pp. 21 seg.
[59] L’insufficienza dell’art. 7 è rilevata da R. Paolini, Una legge sulla parità di trattamento, cit., p. 66.
[60] Il riferimento alla definitiva assunzione vuole ricomprendere nell’accesso al lavoro anche il periodo di prova: cfr. L. Ventura, La legge sulla parità, cit., pp. 280 seg.