Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c6
Non si può negare che all’obbiettivo di espandere l’occupazione femminile la legge n. 903/1977 dedichi qualche attenzione. Trattano di questo, infatti, alcune norme, nelle quali sono sicuramente ravvisabili intento e funzionalità pro
{p. 233}mozionali. Il raggiungimento dell’obbiettivo è affidato ad una prescrizione generale: il divieto di discriminazioni dirette e indirette [28]
nell’accesso al lavoro (art. 1), di cui sono destinatari gli uffici di collocamento (infra, par. 6) e i datori di lavoro pubblici e privati. Tale prescrizione è sorretta da tre categorie di norme promozionali:
  1. il controllo del giudice sulle discriminazioni di cui all’art. 1 è stimolato ‒ cioè promosso ‒ mediante la previsione di un procedimento in buona parte ispirato, per semplicità ed efficienza, alla positiva esperienza dell’art. 28 st. lav. [29]
    . A differenza però di quanto previsto dallo statuto, il ricorso ex art. 15 L. n. 903 può essere proposto solo dal «lavoratore» colpito da discriminazione. Il sindacato può farsi parte attiva soltanto se delegato dal lavoratore, cui è rimessa in definitiva ogni decisione circa l’opportunità di richiedere l’intervento del giudice;
  2. la fiscalizzazione degli oneri derivanti dall’art. 10 L. n. 1204/1971 (riposi delle lavoratrici madri);
  3. l’eliminazione (attuale: artt. 1 e 19; o eventuale: art. 5) delle norme di tutela di cui alla legge n. 653/1934, che rendono rigido il lavoro femminile, vietando l’utilizzazione delle donne in taluni settori e per talune mansioni, e delimitando l’orario di lavoro.
La gestione di questa materia è affidata prevalentemente alla contrattazione collettiva (anche aziendale), sulle cui spalle la legge n. 903 fa gravare la valutazione, nel quadro del principio formale di parità, di quale parità debba essere in concreto perseguita, sia nell’accesso al lavoro sia nello svolgimento dei rapporti di lavoro.
All’area promozionale della legge n. 903 appartiene anche l’art. 7: estensione al padre dei permessi per malattia della prole. Benché, come ho già detto, l’importanza della norma non sia da sopravvalutare ‒ almeno se si guarda all’esperienza di altri paesi [30]
‒, emerge in essa l’intenzione di promuovere una modificazione della ripartizione tradizionale dei ruoli familiari. Ma è un’intenzione che rischia di morire di solitudine: senza il supporto di servizi sociali adeguati, di cui allo stato attuale manca ogni previsione e speranza, il gravoso ruolo familiare delle donne non subirà serie modifi{p. 234}cazioni per qualche ora dedicata in più al lavoro e in meno ai figli [31]
.
In ogni caso, l’art. 7 non interessa in questo momento, perché l’oggetto immediato della promozione legale ha relazioni solo mediate con quell’obbiettivo di espansione dell’occupazione femminile, cui si riferiscono le altre norme sin qui richiamate.
Tralascio anche di occuparmi della parziale fiscalizzazione degli oneri sociali di cui all’art. 8 L. n. 903, che inserisce la legge sulla parità nei rapporti di lavoro in quella politica di sostegni e agevolazioni alle imprese, con cui la legislazione degli ultimi anni sta rispondendo al problema drammatico dell’aumento della disoccupazione (specie tra i giovani e le donne). Che i risultati di questa politica non siano fino ad ora molto incoraggianti si può affermare, senza che sia necessario darne la dimostrazione. Porterebbe invece lontano discutere il valore effettivamente promozionale (dell’occupazione, specie giovanile e femminile) sia della fiscalizzazione degli oneri sociali sia, più in generale, dell’incentivazione all’uso flessibile della manodopera: sono temi su cui si registrano ben pochi dissensi, e trattarli criticamente imporrebbe perciò valutazioni politiche sul consenso dei sindacati e dei partiti della sinistra storica, che non mi pare il caso di affrontare in questa sede [32]
.
Tralasciando la fiscalizzazione degli oneri di cui all’art. 8, peraltro troppo limitata per avere peso determinante nella ricostruzione del significato della legge n. 903, l’area promozionale (a fini di espansione dell’occupazione femminile) di questa legge risulta caratterizzata da due strumenti: il divieto di discriminare le donne nell’accesso al lavoro; l’eliminazione delle leggi protettive (l’intera legge n. 653/1934; l’art. 4 della legge n. 370/1934; l’art. 48 del D.P.R. n. 164/1954, che vietava il lavoro delle donne sui ponti sospesi nell’edilizia; l’art. 33 del D.P.R. n. 321 /1956, che vietava il lavoro delle donne ai cassoni ad aria compressa e nelle camere di decompressione). Della funzionalità di questi due strumenti sono responsabili, rispettivamente, il giudice e i sindacati.
Il divieto di discriminazione è, in sé, una prescrizione di tipo garantistico-tradizionale [33]
. Il suo valore promozionale{p. 235} può derivare solo dall’efficienza del suo funzionamento repressivo, o meglio dalla capacità della repressione di disincentivare le pratiche discriminatorie, specie quelle indirette, diffuse e insidiose.
In primo luogo, per attribuire valore promozionale al divieto di discriminazione, occorre risolvere in modo positivo le ambiguità della formulazione dell’art. 1, così da attribuire al giudice il potere di intervenire anche in ipotesi che la legge non fa rientrare tra quelle di discriminazione indiretta colpite da divieto. In secondo luogo, occorre verificare se il giudice, accertata l’avvenuta discriminazione, abbia il potere di imporre al datore di lavoro la conclusione coattiva del contratto con la donna discriminata, e, qualora la discriminazione consista nell’aver assunto un uomo perché uomo al posto di una donna, se l’ordine del giudice (di cessare il comportamento discriminatorio e rimuoverne gli effetti) debba ‒ o possa ‒ avere conseguenze negative per il lavoratore maschio [34]
.
Su tutti questi problemi tornerò più avanti: per ora mi preme sottolineare come il significato promozionale del divieto di discriminazione nelle assunzioni, affidato com’è alla gestione giudiziaria, non possa che essere affermato con cautela: se non altro, perché manca attualmente la possibilità di fare le necessarie verifiche [35]
.
Occorre inoltre considerare ‒ e tale considerazione delimita ulteriormente il significato promozionale del divieto, anche ove sia pienamente operante ‒ che le maggiori esclusioni delle donne dalle assunzioni hanno causa non in comportamenti discriminatori a loro carico, ma nella struttura del mercato del lavoro, dove la debolezza dell’offerta di lavoro femminile non è rimediabile con un divieto. A prescindere dalle ipotesi in cui sia discriminatoria la domanda, perché si escludono esplicitamente le donne [36]
, oppure perché si richiedono ai candidati per un determinato posto di lavoro requisiti che le donne normalmente (secondo una normalità statisticamente accertabile) non possiedono [37]
, il divieto di discriminazione opera quando l’offerta delle donne si presenti in condizioni di equivalenza con quella maschile, e l’esclusione sia determinata da motivi di convenienza economica, o cul{p. 236}turali e di costume, o di mero capriccio maschilista. Il divieto non opera quando, di fatto, non vi sia concorrenzialità possibile tra offerta femminile e maschile. La debolezza dell’offerta di lavoro femminile nemmeno è sanabile dal giudice, che può reprimere la discriminazione quando l’esclusione delle donne sia direttamente o indirettamente discriminatoria nel senso anzidetto, ma non può gestire una politica attiva della manodopera, privilegiando l’offerta delle donne piuttosto che quella degli uomini, rispetto ad una già scarsa domanda di lavoro [38]
.

4. La pretesa contraddizione fra tutela e parità.

Resta qualcosa da dire del significato promozionale della pressoché completa abrogazione delle norme di tutela. La legge n. 903 sembra considerare tale abrogazione un momento fondamentale e imprescindibile non solo per la realizzazione della parità formale fra uomo e donna in materia di lavoro, ma anche della parità sostanziale. Ciò, nella misura in cui la rimozione delle norme di tutela elimina la possibilità di esclusione e aumenta, perciò, le opportunità di lavoro per le donne.
Di fronte alla legge n. 653/1934, principale fonte della tutela, il legislatore ha tuttavia evitato di operare le scelte drastiche, che da talune parti si chiedevano [39]
. Infatti, l’abrogazione di una serie di disposizioni della legge del 1934 è il risultato solo implicito del giudizio di incompatibilità colla nuova legge, compiuto dal ministero del lavoro e dagli interpreti unanimi. Sono così caduti in via interpretativa i divieti di cui all’art. 6, riguardanti lavori o ritenuti pericolosi e insalubri (come i lavori sotterranei) o moralmente nocivi (come lo spaccio di alcolici e i mestieri girovaghi); i limiti per il trasporto e sollevamento di pesi (art. 11); la disciplina dell’orario di lavoro e i riposi intermedi (artt. 17 e 18); il regime delle visite mediche periodiche (art. 21); i provvedimenti a tutela dell’igiene, sicurezza, e moralità (art. 20).
La legge ha preso invece posizione espressa sul divieto di adibire le donne minorenni ai lavori faticosi, insalubri, peri{p. 237}colosi (art. 10 L. n. 653/1934, e relativa tabella approvata con R.D. 7 agosto 1936, n. 1720) e sul divieto di lavoro notturno per le donne di qualsiasi età (art. 12 L. n. 653/1934). Ambedue i divieti sono tanto evidentemente considerati discriminatori, che ne è prevista ‒ in qualche modo ‒ l’eliminazione. Nel primo caso, però, il divieto è immediatamente rimosso (art. 1, IV comma, L. n. 903); e la rimozione farebbe pensare ad un severo giudizio sul carattere discriminatorio del divieto. Così tuttavia non è, perché la legge prevede la possibilità che il divieto sia reintrodotto dalla contrattazione collettiva, per tutte le donne, dai sedici anni in là [40]
, relativamente ai lavori «particolarmente» pesanti.
Per il lavoro notturno, la previsione funziona in senso inverso: il divieto è conservato (ma a partire dalle ore 24, anziché dalle 22). Tuttavia, esso può essere rimosso dalla contrattazione collettiva, anche aziendale, «in relazione a particolari esigenze della produzione e tenendo conto delle condizioni ambientali del lavoro e dell’organizzazione dei servizi».
L’ipotesi che la legislazione protettiva sia una delle cause responsabili del fenomeno dell’espulsione delle donne dal lavoro si fonda sull’argomento della rigidità, che tale legislazione avrebbe introdotto nell’uso della forza lavoro femminile. La rigidità, conseguente ai limiti di orario, ai divieti di lavoro notturno e di adibizione a lavori definiti pesanti, pericolosi, insalubri, avrebbe comportato per le donne una riduzione delle opportunità di lavoro. Per i datori di lavoro tale rigidità si sarebbe tradotta in costi maggiori, e li avrebbe perciò incoraggiati a discriminare la manodopera femminile nelle assunzioni [41]
.
L’interpretazione in senso «discriminatorio» di quella legislazione viene avvalorata con la sottolineatura delle date, certamente suggestive, dato che le norme protettive risalgono quasi tutte al periodo fascista. Deve tuttavia essere segnalato il fatto che, almeno tra i giuristi, l’idea della «protezione» come causa di discriminazione ha cominciato a circolare nei commenti alla legge 9 gennaio 1963, n. 7 sul divieto di licenziamento per causa di matrimonio, e veniva allora avvalorata con i dati sull’occupazione femminile, in vertiginosa discesa appunto a partire dal 1963 (retro, cap. IV, par. 4).
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Note
[28] Infra, par. 6.
[29] Su cui v. fin da ora C. Rapisarda, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 15, pp. 828 seg.; qualche osservazione infra, par. 9.
[30] Il modello cui si è ispirato il legislatore italiano è quello svedese, su cui v. le osservazioni di Folke Schmidt, in B. Aaron, X. Blanc-Jouvain, G. Giugni, F. Schmidt, K. W. Wedderburn, Discrimination in Employment, Stockholm, 1978.
[31] Analoghe le osservazioni di Carinci, op. cit., p. 115.
[32] È generale il consenso sulla opportunità (o necessità) di procedere ad una completa fiscalizzazione degli oneri sociali derivanti dalla legge di tutela delle lavoratrici madri. Colla fiscalizzazione si realizzerebbe infatti una diminuzione del costo del lavoro femminile, che agevolerebbe l’espansione dell’occupazione manifesta o esplicita delle donne. Così, per tutti, F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, cit., p. 115. Che la protezione delle lavoratrici rappresenti un ostacolo serio all’occupazione delle donne specie nella fascia d’età dai 25 ai 35 anni, non è dubbio; tuttavia i «costi» della protezione non sono riducibili tutti ad oneri sociali, e quelli non riducibili non sono eliminabili senza peggiorare le condizioni di vita, già difficili, delle lavoratrici madri.
[33] Divieto di discriminazione e nullità degli atti discriminatori sono stati studiati in riferimento all’art. 15 st. lav.: v. T. Treu, Condotta antisindacale e atti discriminatori, Milano, 1974, spec. pp. 34 seg.; con specifico riferimento al profilo sanzionatorio, v. E. Ghera, Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato, in Le sanzioni nella tutela del lavoro subordinato, Atti del VI congresso nazionale di diritto del lavoro, Alba, 1-3 giugno 1978, Milano, 1979, pp. 38 seg.
[34] Su questi temi, v. il contributo di Rapisarda, loc. ult. cit.
[35] Per la mancanza di una casistica giurisprudenziale di un qualche rilievo, come già segnalato.
[36] Questo tipo di discriminazione è ancora largamente praticato dalle pubbliche amministrazioni, che, per stupidità burocratica, ritengo, stentano ad adeguare i bandi di concorso alle disposizioni della legge n. 903. V. in proposito i casi narrati ne «I diritti dei lavoratori», 1979, n. 29, pp. 21 seg. Peraltro, tali comportamenti della p.a. erano illegittimi già ai sensi della legge 9 febbraio 1963, n. 66, che abrogando finalmente l’art. 7 L. n. 1176/1919 e le leggi fasciste, aveva affermato il diritto delle donne ad accedere a tutte le professioni, cariche, impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere, categorie, senza limitazioni di mansioni e di svolgimento di carriera.
[37] Cfr. gli esempi riportati da S. Sciarra, Intervento, in La disciplina giuridica del lavoro femminile, pp. 99 seg.
[38] Per qualche osservazione in questo senso, v. Ghera, op. cit., pp. 43- 44.
[39] Radicali e M.L.D. avevano assunto la posizione più rigida sull’argomento. V., però, l’intervento di Adele Faccio, riportato in Parità uomo-donna, cit., pp. 117 seg.
[40] L’abbassamento a 16 anni del limite di età per l’adibizione ai lavori previsti dalla legge n. 977/1967 (artt. 5 e 14) sulla tutela del lavoro dei fanciulli è il risultato (discutibile) della interpretazione «eguagliante» data a quella legge dal ministero del lavoro nella circolare 92/78, cit.
[41] Oggetto di molte critiche è l’ormai abrogata tabella, approvata con R.D. 7 agosto 1936, n. 1720, che elenca settanta lavori faticosi, pericolosi, e insalubri, vietati alle donne minori di 21 anni. Benché l’evoluzione della tecnologia abbia rese obsolete alcune delle lavorazioni menzionate, e benché molti lavori faticosi o nocivi non siano inseriti tra quelli vietati, una buona quantità dei lavori elencati conserva caratteri di effettiva pesantezza e pericolosità. Ciò premesso, sembra un po’ ottimistica, di questi tempi, la tesi circolante in ambienti sindacali, per cui l’attribuzione alle lavoratrici delle mansioni pesanti e/o pericolose aprirebbe contraddizioni, e servirebbe dunque ad accelerare il processo di eliminazione di quelle mansioni che non dovrebbero essere ammesse per nessuno. Mi pare di questa opinione Lorini, op. cit., pp. 54 seg. Più prudente l’apprezzamento di E. Masucci, Intervento. in Parità tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., p. 84.