Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c4
Con l’entrata in vigore della legge n. 7/1963 si è aperta una nuova fase della vicenda dei licenziamenti per causa di matrimonio. Si deve ricordare, anzitutto, che la tanto auspicata (ma anche osteggiata) legge sui licenziamenti per causa di matrimonio è intervenuta proprio nel momento in cui si cominciava a registrare la caduta, rapidamente divenuta rovinosa, dell’occupazione femminile [85]
. Oggetto di dibattito negli anni del miracolo economico, a partire dal 1963 la questione dei licenziamenti per causa di matrimonio era destinata a scomparire dalla scena. Evidentemente, le donne non avevano più il problema di perdere il lavoro col matrimonio. Ma non era merito della legge: le donne, sposate e non sposate, erano ormai le prime ad essere licenziate e le ultime a trovare un lavoro. La legge n. 7/1963 era sicuramente tardiva. La concomitanza di due fatti dimostra, del resto, che il
{p. 159} divieto di licenziamento per causa di matrimonio non bastava (o non serviva) più a difendere l’occupazione femminile: a) malgrado l’aumentato numero dei licenziamenti di donne, e malgrado il carattere fortemente protettivo della legge n. 7, i casi di licenziamenti per causa di matrimonio arrivati in giudizio sono rimasti pochi; b) benché la legge sancisse principi nuovi per il nostro sistema di diritto del lavoro, la dottrina le ha dedicato scarsa attenzione.
Non voglio con questo dire né che la legge sia passata inosservata, né che sia rimasta del tutto inapplicata. Ma, se si confrontano le poche sentenze ed i pochi commenti dedicati alla legge con il grande numero di cause ed i fiumi di inchiostro sparsi sull’art. 18 dello statuto dei lavoratori, ci si rende conto che la nullità del licenziamento e la reintegrazione nel posto di lavoro, sancite dalla legge n. 7/1963, avevano una rilevanza pratica così modesta, da non stimolare né le lavoratrici a promuovere azioni in giudizio, né gli interpreti a produrre sforzi di sistemazione teorica [86]
. La modesta rilevanza pratica non ha tuttavia impedito che si manifestasse, in alcuni settori della giurisprudenza e fra i giuristi più sensibili agli orientamenti del padronato (che non aveva gradito, della legge, la rigidità dei vincoli posti al potere di licenziare), la tendenza a limitare la portata delle disposizioni più innovatrici della legge.
Una prima interpretazione riduttiva ha avuto ad oggetto la presunzione della causa di matrimonio. Al di là della discussione, un po’ futile, sulla natura assoluta o relativa della presunzione [87]
, l’attenzione si è concentrata sulla durata della presunzione, in relazione all’incidenza di essa sul limite temporale del divieto di licenziamento. Secondo un’opinione, confortata da qualche decisione giurisprudenziale [88]
, una volta scaduto il termine di un anno dalla celebrazione del matrimonio (termine entro il quale il licenziamento si presume disposto per causa di matrimonio), viene meno anche il divieto di licenziamento. La nullità del licenziamento per causa di matrimonio, prevista dalla legge, scade così a divieto temporaneo di licenziamento in occasione di matrimonio (analogo al divieto previsto dalla legge sulle lavoratrici madri). Secondo questa tesi, una volta decorso il termine, il li{p. 160}cenziamento ‒ temporaneamente inefficace durante il periodo di divieto ‒ riprende la sua efficacia: col risultato pratico di fare venir meno, per la lavoratrice che non sia stata riammessa in servizio, anche il diritto a percepire la retribuzione.
Per contestare tale interpretazione, è sufficiente fermarsi all’inequivoca lettera della legge. La nullità dei licenziamenti per causa di matrimonio non conosce limiti temporali, perché questi licenziamenti, che violano i diritti fondamentali delle lavoratrici, sono sempre vietati dalla legge. I limiti temporali riguardano invece, e soltanto, la presunzione della causa di matrimonio [89]
: il licenziamento intimato durante tale periodo è nullo, e non produce alcun effetto. Se il licenziamento è stato intimato dopo la scadenza dell’anno dalla celebrazione del matrimonio, sarà la lavoratrice, che intenda farne valere la nullità, a dover dimostrare che, al di sotto del motivo addotto dal datore di lavoro [90]
, si cela la causa di matrimonio.
Una seconda questione, connessa alla precedente, sulla quale si sono manifestati orientamenti interpretativi di tipo riduttivo, riguarda l’operatività del divieto di licenziamento, nel caso in cui le pubblicazioni di matrimonio siano state richieste dalla lavoratrice durante il periodo di preavviso. Secondo alcuni, malgrado che nel periodo di preavviso il rapporto di lavoro continui a tutti gli effetti, il licenziamento sarebbe valido ed efficace, perché intimato prima del verificarsi del fatto (richiesta di pubblicazioni) che ne determina la nullità [91]
.
La tesi, sicuramente scorretta, confonde nullità del licenziamento e presunzione della causa di matrimonio. Secondo la legge, infatti, la nullità del licenziamento motivato dal matrimonio della lavoratrice è del tutto indipendente dal momento in cui il licenziamento è stato intimato. Se l’intimazione avviene dopo la richiesta delle pubblicazioni e fino ad un anno dalla celebrazione del matrimonio, opera la presunzione: in questo caso, la lavoratrice ricorrente non è tenuta a provare che il licenziamento è stato disposto a causa del suo matrimonio. È allora evidente che, se si conviene (seguendo l’opinione prevalente) sulla continuità del rapporto di lavoro{p. 161} nel periodo di preavviso [92]
, si deve di necessità ammettere che il divieto di licenziamento opera durante tale periodo. Ciò che non può invece considerarsi operante è la presunzione della causa di matrimonio, perché il datore di lavoro ha, nel caso, manifestato e comunicato la propria volontà di recedere prima del verificarsi dell’evento a partire dal quale inizia il periodo coperto da presunzione. Di conseguenza, il licenziamento potrà essere dichiarato nullo: ma spetterà alla lavoratrice provare che il datore di lavoro era a conoscenza del suo progetto matrimoniale, e che a causa di questo progetto l’ha licenziata [93]
.
Questi tentativi di ridurre la portata della legge n. 7/1963, per quanto non estesi né fortunati, sono il segno tangibile della insofferenza di un certo ambiente giuridico verso le leggi di riforma. Le reazioni si sono dirette contro la tutela privilegiata accordata alle lavoratrici, a causa dell’intensità dei limiti al potere di recesso, per la prima volta imposti nel nostro ordinamento [94]
. Ne sono prova le eccezioni di incostituzionalità sollevate sull’art. 1, ultimo comma, L. n. 7/1963, tutte incentrate sull’argomento delle limitazioni eccessive che la norma avrebbe posto all’iniziativa economica privata, impedendo al datore di lavoro di superare la presunzione della causa di matrimonio, e creando così per le donne sposate l’ingiustificato vantaggio della conservazione del posto [95]
. La risposta negativa della corte costituzionale era scontata: per l’ovvia considerazione che il divieto di licenziamento, sostanzialmente sostenuto dalla presunzione della causa di matrimonio, è diretto a «salvaguardare la libertà e la dignità umana» dei soggetti, a favore dei quali è stato disposto [96]
. La corte ha dimostrato di essere sensibile agli argomenti a suo tempo portati dalla dottrina per affermare l’illegittimità dei licenziamenti per causa di matrimonio. E certo non poteva dimenticare che la costituzione, mentre garantisce a tutti i cittadini il diritto di contrarre matrimonio e di costituirsi una famiglia, alle donne attribuisce specificamente il diritto a condizioni di lavoro che consentano loro di svolgere le proprie funzioni familiari: diritto che fatalmente limita la libertà di iniziativa economica. La corte ha dunque confermato la piena legittimità delle norme im{p. 162}pugnate: ma ormai i limiti al potere di licenziamento facevano meno scandalo, perché era entrata in vigore la legge 15 luglio 1966, n. 604, che, pure con qualche incertezza, aveva introdotto una disciplina dei licenziamenti individuali, e sancito (art. 4) la nullità di tutti i licenziamenti discriminatori e di rappresaglia.
In assenza di una casistica di qualche rilievo, con la sentenza della corte costituzionale la discussione sulla legge che vieta i licenziamenti per causa di matrimonio si è praticamente chiusa. Alla legge, pure vigente, non si dedica ormai che una citazione distratta [97]
. Tuttavia, le vicende dell’applicazione della legge presentano come aspetto importante l’emergere di un argomento nuovo nella discussione sulla disciplina giuridica del lavoro femminile. Grossolanamente espresso, l’argomento si risolve nel seguente giudizio sulla legge n. 7/1963: «legge ispirata invero ad una insipiente demagogia, come lo dimostra tra l’altro il notevole aumento, dopo quella legge, della disoccupazione femminile (determinata, si intende, da varie cause, ma certamente anche da siffatto incongruo vincolismo legislativo!)» [98]
. Nelle formulazioni meno grossolane, l’eccesso di tutela come ingiusto vantaggio per le donne diviene l’eccesso di tutela come causa della disoccupazione femminile. Espresso in questi termini, l’argomento ha ottenuto un insperato successo: non immediatamente, perché le leggi dei primi anni ‘70 saranno ancora ispirate ad una logica di protezione delle lavoratrici e di irrigidimento nell’utilizzo della manodopera femminile. Sarà invece la logica dell’emergenza a dare all’argomento il sostegno di una conferma legislativa [99]
.
Note
[85] Come è noto, l’occupazione femminile esplicita si è ridotta, tra il 1961 e il 1966, di oltre un milione di unità. L’occupazione esplicita si è presentata in relativa stasi fino al 1971, è diminuita drasticamente nel 1972 (in relazione alle vicende dell’occupazione esplicita industriale, specie nei settori ad elevato grado di «femminilizzazione», come il tessile e l’abbigliamento), ha ripreso a crescere solo dal 1973 in poi, a causa di un limitato recupero dell’occupazione femminile industriale (+98.000 unità dal 72 al 76) e dell’espansione notevole dell’occupazione esplicita nel terziario (+500.000 unità in quattro anni, comprese soprattutto nelle fasce di età fra i 30 e i 34 anni e tra i 45 e i 50 anni). Il tasso di attività femminile è così risalito oltre il 20%, recuperando qualche punto rispetto al passato, ma si è accentuata la modificazione della struttura dell’occupazione femminile esplicita: l’occupazione terziaria rappresenta nel 1976 il 51,4% dell’occupazione femminile complessiva. Nello stesso periodo 1966-76 è tuttavia cresciuta la disoccupazione femminile esplicita, che coinvolge soprattutto le giovanissime, e non ha subito riduzioni la sottoccupazione implicita (stimata, per il 1975, in 2.600.000 unità, contro 1.772.000 unità nel 1971). Inoltre la stessa espansione dell’occupazione esplicita può nascondere aspetti di sottoccupazione esplicita, nel senso di lavoro comunque a condizioni precarie, discontinue, ecc., anche se incluso nelle forze di lavoro ufficiali. I dati e le stime sin qui riportati sono di L. Frey, Il lavoro femminile verso gli anni ‘80, Appendice I. Le donne e l’occupazione terziaria in Italia, in Frey, Livraghi, Olivares, Nuovi sviluppi delle ricerche sul lavoro femminile, cit., pp. 27 seg.
[86] Mi pare che l’unica osservazione di rilievo fosse la segnalazione dell’incoercibilità dell’obbligo di reintegrare la lavoratrice illegittimamente licenziata. Stante la incoercibilità, e vista la durata media dei processi, ad avviso di G. Pera, Divieto di licenziamento delle lavoratrici, cit., p. 359, la drastica soluzione adottata dal legislatore (pagamento della retribuzione fino alla data della effettiva reintegrazione) era destinata a risolversi in un blocco dei licenziamenti delle lavoratrici coniugate, almeno per tutto il periodo coperto dalla presunzione della causa di matrimonio. Ma, specie negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della legge, le donne non hanno goduto della prevista «stabilità di fatto».
[87] Retro, nota 81.
[88] App. Ancona, 22 ottobre 1966, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1967, p. 74; App. Milano, 30 giugno 1967, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1968, p. 510, favorevolmente commentata da A. Zanini, Valore dei limiti temporali nella presunzione del licenziamento «per causa di matrimonio», ivi, pp. 520 seg.
[89] Così M. Persiani, op. cit., p. 654; P. G. Corrias, op. cit., pp. 516 seg.; Trib. Milano, 23 gennaio 1967, in «Il diritto del lavoro», 1967, II, p. 315; di contrario avviso F. Traversa, Matrimonio e rapporto di lavoro, cit., p. 474.
[90] Dopo la L. n. 604/1966, è il datore di lavoro a dover fornire la motivazione del licenziamento e la prova della fondatezza del motivo addotto; l’onere probatorio della lavoratrice risulta inoltre quantitativamente ridotto dopo l’introduzione del nuovo rito del lavoro, per l’ampiezza dei poteri istruttori affidati al giudice.
[91] Trib. Milano, 23 giugno 1966, in «Monitore dei tribunali», 1966, p. 729; Trib. Milano, 18 luglio 1966, in « Rivista giuridica del lavoro», 1967, II, p. 90. Cfr. P. G. Corrias, op. cit., p. 515.
[92] V. per tutti F. Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, cit., pp. 282 seg.
[93] M. Persiani, op. cit., p. 655.
[94] Il rilievo è di M. Persiani, op. cit., p. 656.
[95] V. le ordinanze Trib. Como, 9 gennaio 1967, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1967. p. 137: Trib. Genova, 14 maggio 1968, ivi, 1968, p. 399.
[96] Corte cost., 5 marzo 1969, n. 27, cit., commentata criticamente da A. Zanini, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1969, pp. 25 seg.; G. Pera, Legittimità della tutela della lavoratrice contro il licenziamento disposto «a causa di matrimonio», in «Giurisprudenza costituzionale», 1968, pp. 374 seg.
[97] Mi riferisco alla dottrina che, recentemente, è tornata ad occuparsi della legislazione sul lavoro femminile: v. ad es. C. Assanti, La disciplina del lavoro femminile, cit., p. 29. Sulla eccessività della tutela predisposta nella L. n. 7/1963, torna invece con qualche insistenza G. Pera, Lezioni di diritto del lavoro, III ed., Roma, 1977, pp. 599-600.
[98] Zanini, Valore e limiti temporali, cit., p. 523.
[99] L. n. 903/1977 su cui infra, cap. VI.