Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c4
La situazione complessiva dell’occupazione non consentiva di isolare il problema femminile, cioè di individuare nell’emarginazione delle donne la messa in moto di un processo costante di riduzione dell’occupazione, che, privilegiando la forza lavoro maschile, avrebbe reso meno rischioso l’attacco ai livelli occupazionali, e scaricato sul nucleo familiare (e quindi sulle donne) anche i costi della mancata attuazione delle riforme.
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Se dunque i problemi del lavoro femminile restavano ancora assorbiti in quelli generali dei lavoratori, occorre dire che l’accordo del 1960 sulla parità salariale, frutto di lunghe trattative (e sostenuto dalle lotte delle lavoratrici) risolveva la questione della discriminazione retributiva in un modo coerente alle premesse, da cui il sindacato era partito, e agli obiettivi, che si proponeva di raggiungere. L’accordo introduceva infatti un inquadramento professionale non più riferito al sesso, ma basato su categorie differenziate dai diversi parametri retributivi; le lavoratrici delle ex-categorie donne erano collocate nelle categorie inferiori del nuovo inquadramento. La manodopera femminile risultava tutta ingabbiata nelle quattro categorie più basse. Erano eliminati, di conseguenza, gli aspetti macroscopici della disparità salariale (come la contingenza ed i superminimi erogati in base al sesso e all’età), ma restava aperta la discriminazione maggiore, fondata sull’attribuzione alla forza lavoro femminile di un valore inferiore a quello della forza lavoro maschile.

2. La parità salariale secondo il padronato, la giurisprudenza, e la dottrina: lavoro e rendimento.

L’insufficienza dell’accordo sulla parità salariale doveva apparire presto evidente: oltre alle frequenti violazioni, i sindacati denunciavano il tentativo padronale di introdurre nei contratti nuove distinzioni fra lavori maschili, femminili, e promiscui; di creare cioè dei sottolivelli (sottoremunerati) in cui inquadrare le donne; cosicché queste si sarebbero trovate collocate ‒ per il minor valore professionale attribuito alle nuove mansioni femminili ‒ ai livelli più bassi delle categorie spettanti in base all’accordo.
L’iniziativa padronale mirava a vanificare la parità salariale, negando, mediante la predefinizione delle mansioni femminili, la parità di inquadramento bene o male affermata dall’accordo [14]
. E tale iniziativa ebbe successo nella contrattazione collettiva dei settori di tradizionale occupazione femminile [15]
, agevolata dal consenso sindacale alla separazione fra donne e uomini, cioè all’attribuzione di un sesso alle{p. 135} mansioni; agevolata, più in generale, dal consenso dei sindacati [16]
allo «sventagliamento» delle qualifiche (e conseguente polverizzazione salariale), considerato ancora valido strumento di difesa della professionalità dei lavoratori e di restringimento dei margini della manovra paternalistica dei padroni.
Per giustificare la discriminazione nell’inquadramento delle lavoratrici venivano portati due argomenti: la scarsa qualificazione professionale; il minor rendimento (dovuto soprattutto alla minore disponibilità sul luogo di lavoro e all’assenteismo, causati dal doppio carico di lavoro). A questi argomenti, fondati su diffusi pregiudizi, indotti dalla reale debolezza della forza lavoro femminile [17]
, non si trovava molto da opporre. Certo, le organizzazioni sindacali sottolineavano la preoccupante condizione del lavoro femminile, e si opponevano (quando si opponevano) al tentativo di inquadrare le donne a livelli ancora inferiori rispetto alle categorie ‒ già basse ‒ loro spettanti in base all’accordo del 1960. Ma si restava ancora lontani dall’affrontare l’effettiva parità di inquadramento, perché non si individuavano strade di intervento a favore delle lavoratrici che non fossero esterne alla fabbrica, cioè a monte di quella organizzazione del lavoro, nella quale appariva «inevitabile» che le donne (meno qualificate e meno produttive) fossero utilizzate nelle mansioni di minor valore, e di conseguenza «inevitabile» anche che esse fossero collocate nei livelli più bassi (e meno remunerati) della scala professionale.
Lo spazio per la parità di inquadramento non si poteva aprire, prima che si fosse prospettata la necessità di rifondare il rapporto tra qualifica ed organizzazione del lavoro, mettendo in discussione la legittimità di uno schema di classificazione subordinato alla divisione del lavoro esistente. Fino a che, nei sindacati, il discorso sulle qualifiche è rimasto ancorato alla valutazione delle «capacità» professionali o alla «valutazione obiettiva» delle mansioni, si è accettata una classificazione dei lavoratori basata sulla gerarchia dei valori professionali voluta dai padroni [18]
. E, fino a che si è accettata quella gerarchia, le mansioni attribuite e la qualificazione professionale hanno decretato l’inferiorità delle donne.{p. 136}
Gli argomenti utilizzati dal padronato, per ottenere (nella contrattazione successiva) una limitata attuazione della parità sancita dall’accordo del 1960, trovavano una precisa ‒ ma non singolare ‒ coincidenza negli argomenti che già da tempo un consistente settore degli operatori del diritto utilizzava per interpretare (riduttivamente) l’art. 37 cost.
Si può ricordare, riassumendo, che la giurisprudenza si era orientata, in un primo momento, per la programmaticità dell’art. 37 [19]
: anche per il lavoro femminile, la magistratura non faceva eccezione alla regola di tradurre in proposizione giuridica l’indirizzo politico dei governi dell’epoca [20]
. L’orientamento giurisprudenziale si era progressivamente modificato [21]
, fino all’affermarsi di un generale consenso alla precettività dell’art. 37; ma la precettività della norma non era sempre considerata sufficiente per garantire alle lavoratrici la parità salariale. Posti di fronte al problema della legittimità delle clausole contrattuali (individuali e collettive) che tale parità negavano, alcuni giudici sostennero (trovando appoggio nella dottrina) che la parità di lavoro, di cui all’art. 37 cost., dovesse essere intesa come parità di rendimento [22]
. La norma costituzionale (precettiva) non avrebbe cioè implicato una rigida equiparazione retributiva fra donne e uomini, ma avrebbe sancito soltanto il diritto delle donne ad essere retribuite in modo proporzionale alla quantità e qualità del lavoro svolto. L’art. 37 doveva essere interpretato, in altri termini, come corollario dell’art. 36 cost., e non come autonoma affermazione di un diritto delle donne alla parità salariale. La parità si sarebbe di conseguenza resa necessaria (ai sensi degli artt. 36 e 37 cost.) solo quando, svolgendo mansioni eguali a quelle dell’uomo, la donna avesse prodotto anche un identico risultato: ma, essendo la differenza di rendimento delle donne statisticamente accertata e confermata dalla comune esperienza (sic), le clausole contrattuali contenenti per eguali mansioni un trattamento economico diversificato per sesso non avrebbero dovuto considerarsi illegittime, perché fondate appunto sulla giusta presunzione della minore capacità e del minore rendimento delle lavoratrici.
Se si pensa che queste tesi sono state formulate negli anni{p. 137} ‘60, non c’è che da rallegrarsi della benefica influenza che gli avvenimenti successivi hanno esercitato anche sul pudore dei giuristi. Occorre tuttavia precisare che le predette tesi non erano frutto di generico antifemminismo. In sostanza, quegli autori (magistrati e dottrina) deducevano dalla reale condizione di inferiorità sociale delle lavoratrici l’inferiorità naturale delle donne, limitandosi a sottolineare quanto irragionevole fosse la pretesa di esse (categoria inferiore) ad essere pagate quanto gli uomini (categoria superiore): con ciò legittimando l’esistente divisione del lavoro, senza urtare la sensibilità dell’insieme dei giuristi, per buona parte convinti, allora, della fondatezza della deduzione (anche se dissenzienti sul punto specifico dell’interpretazione del principio costituzionale di parità).
Dimostrando nella circostanza maggiore lungimiranza di altri, la cassazione aveva provveduto a censurare l’orientamento giurisprudenziale che ho succintamente riportato. Fin dalle prime cause, in cui era stata chiamata a giudicare, e con maggiore chiarezza nelle sentenze più recenti [23]
, la S.C. ha affermato che la parità di lavoro, di cui all’art. 37 cost., deve essere intesa, sulla scorta di quanto disposto dall’art. 36 cost., come parità di qualifica e mansioni, e non come parità di rendimento. L’art. 37 ‒ ha osservato la cassazione ‒ sancisce il principio, assoluto e inderogabile, della parità giuridica tra lavoratore e lavoratrice, trasferendo nel settore del lavoro il generale principio di eguaglianza di cui all’art. 3 cost.; del resto, la costituzione non avrebbe potuto accogliere alcuna presunzione di minore capacità o rendimento della donna, senza negare, con ciò stesso, il diritto della donna all’eguaglianza giuridica e alla parità di trattamento. Per determinare in concreto quando la lavoratrice abbia diritto alla parità salariale, occorre guardare, ad avviso della S.C., alla qualità e quantità del lavoro prestato, cioè al «valore tipico» della prestazione, come predeterminato dalla qualifica (in relazione alle mansioni); di conseguenza, ogni discriminazione nel trattamento economico, a parità di qualifica e mansioni, deve considerarsi illegittima. Con questi argomenti la cassazione dichiarava la nullità delle clausole contrattuali (collettive) che prevedevano differenze retributive fon{p. 138}date esclusivamente sulla diversità di sesso.
L’autorevole intervento della cassazione sottraeva al dibattito giuridico sulla parità salariale un argomento suggestivo, utilizzato ampiamente anche dal padronato [24]
; l’eliminazione del criterio del rendimento rendeva credibile un’interpretazione dell’art. 37 che lasciava pressoché impregiudicata la questione della parità salariale. Infatti, col riferimento alla parità di qualifica e mansioni, si trasformava la norma costituzionale da norma informatrice della disciplina contrattuale in norma di ratifica della disciplina contrattuale: essendo che, dopo l’accordo del 1960, il problema apertosi nella contrattazione collettiva non era più quello della discriminazione retributiva fondata sul sesso, ma, come ho detto poco sopra, quello della disparità retributiva derivante dalla discriminazione nell’inquadramento. E su questo problema (non meno grave del precedente) la definizione del diritto alla parità salariale data dalla cassazione (e riproposta senza modifiche in dottrina) non lasciava alla norma costituzionale alcuno spazio di intervento, sottraendo al giudizio di legittimità ogni discriminazione salariale che fosse fondata, anziché espressamente sul sesso: a) sulla sottovalutazione delle mansioni «tipicamente» femminili; b) sulla sistematica adibizione delle lavoratrici a mansioni inferiori [25]
.
Essendosi privati da sé i giudici della possibilità di correggere le deviazioni della contrattazione collettiva dal principio costituzionale di parità, e dimostrandosi (fino a ieri) i giuristi poco interessati al tema della discriminazione, la questione della parità salariale rimaneva tutta affidata alle cosiddette parti sociali; tanto che se ne può seguire lo svolgimento nella contrattazione collettiva (nazionale e aziendale). Uno svolgimento alterno e travagliato, come alterna e travagliata è stata la scelta sindacale in ordine al sistema di classificazione dei lavoratori, nel quale, a partire dall’accordo del 1960, si è risolta, pressoché integralmente, anche la questione della parità salariale.
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Note
[14] Più male che bene, nel giudizio di Guerzoni (della CGIL), I problemi aperti dall’applicazione degli accordi di parità, in Parità di retribuzione, cit., pp. 261 seg. Gli atti di questo convegno promosso dalla Società umanitaria registrano numerose denunce di violazione dell’accordo del 1960.
[15] Specialmente nei settori tessili: cfr. E. Giambarba, L. Menghelli, L’evoluzione contrattuale delle classificazioni 1945-1970, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1971, n. 30, Le qualifiche, pp. 25 seg.; P. Fortunato, A. Molinari, Esperienze e risultati di categoria: i tessili, ivi, pp. 146 seg.
[16] La strategia sindacale delle qualifiche è stata oggetto di discussione e studio. Per un bilancio dei risultati e delle prospettive della contrattazione collettiva delle qualifiche, si può rinviare al vol. di Aa. Vv„ Ascesa e crisi del riformismo in fabbrica, Bari, 1976.
[17] Gli studi sulle cause strutturali della debolezza della forza lavoro femminile sono ormai numerosi. Si possono segnalare: M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Bologna, 1973, pp. 122 seg.; G. Mottura, E. Pugliese, Agricoltura, mezzogiorno e mercato del lavoro, cit., pp. 314 seg.; L. Frey, Riesame dei problemi deli occupazione femminile, in Sviluppo economico italiano e forza lavoro, a cura di P. Leon e M. Marocchi, Padova, 1973, pp. 163 seg.; M. P. May, Mercato del lavoro femminile: espulsione o occupazione nascosta?, in «Inchiesta», 1973, n. 9, pp. 27 seg.; L. Balbo, Le condizioni strutturali della vita familiare, ivi, pp. 10 seg.; M. P. May, Il mercato del lavoro femminile in Italia, in «Inchiesta», 1977, n. 25, pp. 56 seg.; F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, Bologna, 1977; L. Frey, R. Livraghi, G. Mottura, M. Salvati, Occupazione e sottoccupazione femminile in Italia, Milano, 1976; L. Frey, R. Livraghi, F. Olivares, Nuovi sviluppi delle ricerche sul lavoro femminile, Milano, 1978.
[18] S. Garavini, I mutamenti nei ruoli professionali e nei rapporti di lavoro, in Ascesa e crisi, cit., pp. 15 seg.
[19] L’orientamento era diffuso soprattutto nella giurisprudenza del consiglio di stato: v. ad es. Cons. stato, sez. V, 16 maggio 1952, n. 801, in «Foro amministrativo», 1952, 1, 2, 205; Cons. stato, sez. VI, 3 febbraio 1954, n. 59, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1954, 464; Cons. stato, sez. VI, 7 aprile 1954, n. 255, in «Foro italiano», 1954, III, 231, secondo cui l’art. 37 non avrebbe garantito un’assoluta e meccanica parità, dovendo essere il principio di parità adeguato alle «naturali differenze fra i due sessi» (cioè alla minore capacità lavorativa e resistenza delle donne). Qualche decisione in tal senso si ritrova anche nella giurisprudenza di merito (ordinaria): App. Ancona, 20 giugno 1958, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1958, 500; App. Napoli, 21 gennaio 1959, ivi, 1959, 76. La prima decisione in senso contrario è del Trib. Milano, 30 giugno 1955, favorevolmente commentata da U. Natoli, Sulla precettività dell’art. 37 della costituzione, in «Rivista giuridica del lavoro», 1955, II, pp. 371 seg. L’a. svolge in questa nota anche qualche ragionevole osservazione sul rapporto tra diritto al lavoro ed essenziale funzione familiare della donna.
[20] Così T. Treu, I governi centristi e la regolamentazione dell’attività sindacale, in Problemi del movimento sindacale, cit., p. 568.
[21] La precettività dell’art. 37 cost., già affermata dalla giurisprudenza di merito, venne ribadita dalla cassazione, sent. 26 giugno 1958, n. 2283, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1958, 372.
[22] Cons. stato, sez. V, 3 giugno 1961, in «Consiglio di stato», 1961, 1139; Trib. Udine, 23 giugno 1962, in «Giustizia civile», 1963, 1, 674; Trib. Firenze, 6 aprile 1963, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1963, 437; App. Firenze, 10giugno 1964, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1964, 205; App. Firenze, 13 maggio 1964, ivi, 1965, 140, con nota favorevole di G. Bellagamba, Parità di retribuzione e parità di rendimento, Pret. Roma, 23 luglio 1966, in «Foro italiano», 1966, I, c. 2142; App. Firenze, 4 marzo 1966, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1966, 149. In dottrina: D. De Luca Tamajo, La donna nell’ordinamento giuridico del lavoro, in «Rivista giuridica del lavoro», 1956, 1, pp. 19 seg.; Esposito, La giusta retribuzione femminile, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1958, pp. 258 seg. La dottrina prevalente era tuttavia orientata in senso contrario: v. L. Riva Sanseverino, Sulla traduzione positiva del principio di «parità di retribuzione per parità di lavoro», in «Justi- tia», 1959, pp. 277 seg.; E. Di Berardino, Parità di retribuzione e parità di lavoro, in «Rivista giuridica del lavoro», 1962, II, pp. 47 seg.; F. Guidotti, La parità di retribuzione per il personale femminile, in «Rivista di diritto del lavoro», 1957,1, pp. 344 seg.; G. Giugni, Mansioni e qualifiche nel rapporto di lavoro, Napoli, 1963, p. 127.
[23] Cass., 17 marzo 1970, n. 707, in «Foro italiano», 1970, I, c. 1669; Cass., 15 luglio 1968, n. 2538, ivi, 1969, I, c. 471; Cass., 18 aprile 1969, n. 1231, ivi, 1969,1, c. 1745, con nota di M. V. Ballestrero, Sulla parità di retribuzione, cit., e ivi i riferimenti alla precedente giurisprudenza della S. C.
[24] Trent’anni di lotte, cit., pp. 23 seg. Ma l’argomento, prima usato per negare la parità salariale e poi, più in generale, come giustificazione ideologica della riduzione dei livelli di occupazione femminile, sembra oggi passato a svolgere una duplice funzione di copertura: da un lato consente infatti di sottostimare la reale disoccupazione femminile; dall’altro lato contribuisce a presentare come «naturale» la situazione dell’occupazione femminile, ritardando la presa di coscienza del fatto che questa si presenta ormai come un momento fisiologico del capitalismo italiano. Così Furnari, Mottura, Pugliese, Occupazione femminile e mercato del lavoro, cit., p. 27.
[25] Sul punto, cfr., le riflessioni di T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, cit., pp. 69 seg.