Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c4
Il secondo aspetto di continuità col passato è ravvisabile nella qualità della tutela, che la legge n. 860 assicurava alle lavoratrici madri. La legge limitava essenzialmente il proprio intervento all’ultimo periodo della gestazione e alle prime settimane del puerperio, affidando la protezione della maternità al rapporto privatistico tra datore di lavoro e lavoratrice: come stanno a dimostrare anche le disposizioni sulle camere di allattamento e sugli asili nido [52]
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nel riconoscimento alla donna del diritto ad astensioni retribuite dal lavoro, ovvero nella garanzia di priorità accordata alla funzione materna. La legge non si proponeva invece di intervenire né sulle condizioni di lavoro, né sui servizi sociali, indispensabili per consentire alle donne, anche al di là del breve periodo della gravidanza e del puerperio, di essere contemporaneamente lavoratrici e madri. In questo mancato intervento riformatore (nella legge n. 860 in sé e nei mai emanati provvedimenti che avrebbero dovuto accompagnarla) sta la maggiore continuità col passato: avere famiglia continuava a voler dire, per tante donne, essere costrette alla disoccupazione o all’occupazione marginale.
Le questioni più strettamente legate all’affermazione piena del diritto al lavoro delle donne (ambiente e condizioni di lavoro; servizi sociali, specie per l’infanzia) dovevano restare accantonate per lungo tempo: almeno fino a quando nelle rivendicazioni delle lavoratrici non è emersa, chiara e pressante, la richiesta di una tutela che non fosse più protezione della lavoratrice madre dal lavoro, ma intervento sociale sul problema (sociale) della maternità.

4. Diritto al lavoro e funzione familiare della donna nelle dottrine dei giuristi. Il dibattito sui licenziamenti per causa di matrimonio.

Pressoché coeva al dibattito sulla parità salariale ed alla sua (relativa) soluzione contrattuale, legata strettamente ai problemi aperti dalla legge n. 860/1950 sulle lavoratrici madri, un’altra questione di notevole rilevanza pratica e teorica occupò le associazioni femminili, i sindacati, i giuristi. Nei tardi anni ‘50 le clausole di nubilato ed i licenziamenti a causa di matrimonio furono al centro di un’intensa discussione che coinvolgeva i grandi temi del lavoro e della «essenziale» funzione familiare delle donne. L’esito delle discussioni e delle iniziative parlamentari fu l’approvazione, avvenuta però con sensibile ritardo, della legge 9 gennaio 1963, n. 7 [53]
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Che l’origine della questione fosse remota, lo abbiamo visto (retro, cap. Il, par. 5): durante il ventennio fascista,{p. 150} clausole di nubilato (cioè dimissioni forzate) e licenziamenti per causa di matrimonio erano molto diffusi; e non era servita certo la propaganda demografica del regime ad impedire che il «dovere sociale» del matrimonio significasse, per le donne, la perdita del lavoro e quindi del salario. Alle grandi trasformazioni politiche del dopoguerra, all’entrata in vigore della costituzione, erano sopravvissute sia le clausole contrattuali e regolamentari con cui i datori di lavoro (pubblici e privati) usavano cautelarsi contro il matrimonio delle lavoratrici, sia, soprattutto, la prassi di licenziare le lavoratrici «passate a nozze». L’esistenza delle clausole di nubilato e l’uso massiccio dei licenziamenti (motivati per matrimonio, ovvero non motivati ma in occasione di matrimonio) erano stati più volte denunciati dalle lavoratrici. «Denunce cocenti e drammatiche ‒ notava l’on. Giuseppina Re [54]
‒ ma sempre anonime», poiché le giovani donne, preoccupate di mantenere la segretezza, giustamente temevano le reazioni dei datori di lavoro, nelle mani dei quali restava comunque lo strumento amplissimo ed incontrollabile del licenziamento ad nutum, vale a dire la possibilità di licenziare la lavoratrice coniugata in qualsiasi momento e senza motivazione. Era anche noto quanto si fosse andato diffondendo ‒ in assenza di una disciplina limitativa, introdotta solo nel 1962 [55]
‒ l’uso di stipulare, con le donne, contratti a termine di durata brevissima. Il contratto a termine (brevissimo) consentiva ai datori di lavoro di tenere sotto controllo anche lo stato civile delle lavoratrici: alla scadenza del termine, per quelle che nel frattempo si erano sposate, il contratto non veniva rinnovato. E questo era un altro modo di licenziare, senza licenziare, per causa di matrimonio.
La disponibilità, per i datori di lavoro, di strumenti giuridici come il recesso ad nutum (che consentiva di non motivare il licenziamento) ed il contratto a termine (che consentiva di non licenziare) impediva alla stragrande maggioranza dei casi di licenziamento per causa di matrimonio di venire alla luce. Il fenomeno, la cui dimensione era conosciuta solo per approssimazione, rimaneva pressoché ignoto agli operatori del diritto. Forse non c’era di che dolersene: l’unico caso affrontato dalla magistratura non aveva infatti avuto esito{p. 151} favorevole per la lavoratrice. Con una decisione del 1952, il consiglio di stato aveva affermato la legittimità del ripristino, da parte di un ospedale psichiatrico, del divieto di contrarre matrimonio per il personale femminile addetto all’assistenza dei malati. Il divieto era contenuto nella L. 26 maggio 1930, n. 706: legge mai abrogata, affermava il consiglio di stato (che nel periodo era anche convinto del valore solo programmatico dell’art. 37 cost.), e non abrogabile ad opera di circolari ministeriali [56]
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Per contrastare questi orientamenti era stato presentato dalla sen. Merlin un progetto di legge (28 giugno 1953): ma la discussione in parlamento era stata rinviata sine die [57]
. Certamente allarmato dal dilagare del fenomeno dei licenziamenti per causa di matrimonio nelle aziende private, negli enti pubblici, e specialmente nel settore bancario, era quindi intervenuto il ministero del lavoro, con una circolare (20 maggio 1955, n. 16892), nella quale si pronunciava per l’illegittimità delle clausole di nubilato. Ad avviso del ministero, tali clausole tendevano a «privare una delle parti contraenti, e precisamente la più debole, del fondamentale ed inalienabile diritto di realizzare a pieno la propria libertà e capacità giuridica», e costituivano inoltre «un’elusione del divieto di licenziamento fissato dalla legge n. 860 del 1950» per la tutela delle lavoratrici madri [58]
. La circolare non riuscì a sortire gli effetti che il ministero si era proposto. Del resto, il dissenso che alcuni giuristi si erano affrettati a manifestare dimostrava ‒ per le ragioni di cui dirò subito ‒ che il problema, grave in sé e aggravato dalla mancanza di una generale disciplina limitativa dei licenziamenti, non poteva essere risolto senza un’apposita legge [59]
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A partire dal 1958, il dibattito sui licenziamenti per causa di matrimonio crebbe di livello e dimensione. Si moltiplicarono infatti le denunce delle lavoratrici, e, su queste, si innestarono delle vertenze sindacali. Si moltiplicarono anche le iniziative parlamentari, prima della sinistra, poi anche governative [60]
. Non è casuale che solo allora la questione si ponesse all’attenzione di tutti: la fase iniziale del boom economico registrava un rilevante aumento dell’occupazione femminile e, con esso, l’intensificarsi dei licenziamenti delle don{p. 152}ne che contraevano matrimonio. In quella fase di espansione dell’economia italiana, le donne trovavano lavoro con relativa facilità. Ma il padronato, pubblico e privato, si riservava di selezionare l’occupazione femminile, eliminando la parte ritenuta più onerosa e meno produttiva, cioè le donne sposate e perciò candidate, con buone probabilità, ad essere madri [61]
. Quanto fosse vivo tra i datori di lavoro il timore per l’eventuale aumento dei costi (piuttosto che per la diminuzione del rendimento e l’aumento dell’assenteismo da sempre imputati alle donne sposate), lo dimostra il fatto che delle clausole di nubilato e dei licenziamenti per causa di matrimonio erano prevalentemente destinatarie le impiegate; lavoratrici, per le quali ‒ a differenza di quanto avveniva per le operaie ‒ la L. n. 860/1950, art. 17, faceva gravare interamente sul datore di lavoro l’onere economico del trattamento di maternità.
Almeno fra i molti fautori di una legge sui licenziamenti per causa di matrimonio, la discussione, che precedette l’emanazione della legge, era dominata dall’ottimismo sulle prospettive di espansione dell’occupazione femminile. Nessuno dubitava che le donne avrebbero avuto un peso crescente nelle attività produttive. Perciò ci si preoccupava per il consumo troppo rapido della forza lavoro e per una selezione tra le occupate, che privilegiava le giovanissime e respingeva le meno giovani nel chiuso della famiglia [62]
. Sarebbe toccato alle vicende della cosiddetta congiuntura smentire l’ipotesi che fosse la condizione di coniugate a pesare negativamente sull’occupazione delle donne [63]
. Ma, per quel periodo di diffusa fiducia nelle capacità progressive e nella durata indefinita dello sviluppo economico, era inevitabile che i problemi del lavoro femminile si ponessero come problemi delle occupate. Ed era anche inevitabile che, essendo carente l’analisi dei problemi specifici del lavoro femminile, dei quali pure i licenziamenti per causa di matrimonio costituivano un grave sintomo, si pensasse di poter consolidare l’occupazione delle donne reprimendo per legge le discriminazioni verso le lavoratrici sposate.
Ottimismo sul futuro del lavoro femminile e carenza di analisi caratterizzarono anche il dibattito giuridico. I riferi{p. 153}menti alla condizione femminile non potevano mancare: ma se si pensa che era la prima grossa occasione per discutere l’attuazione dell’art. 37 cost. nei luoghi di lavoro, si resta sorpresi dalla qualità degli argomenti portati per sostenere l’illegittimità dei licenziamenti per causa di matrimonio (e le clausole di nubilato). Molto dipende dal fatto che quei licenziamenti erano trattati come un aspetto (per alcuni singolare, per altri patologico) della più generale questione dei licenziamenti. Questione drammatica, perché erano quelli gli anni nei quali il padronato, ormai sicuro della propria vittoria sui luoghi di lavoro, colpiva la forza contrattuale dei lavoratori usando, insieme, la repressione delle avanguardie operaie di fabbrica e le riduzioni di personale [64]
. La causa di matrimonio fu utilizzata dai giuristi come occasione per rimettere in discussione la libertà di licenziare sancita dal cod. civ.: non solo perché il problema dei licenziamenti delle lavoratrici era immediatamente connesso a quello del recesso ad nutum, su cui da tempo il dibattito era aperto; ma perché era chiaro a tutti che una soluzione del problema delle lavoratrici coniugate, per quanto limitata e settoriale, avrebbe scalfito, per la prima volta, l’illimitato potere di licenziare, strumento decisivo dell’offensiva padronale dell’epoca. Perno della discussione era dunque l’art. 2118 c.c. La libertà di recesso era l’argomento più forte portato dai sostenitori della piena legittimità delle clausole di nubilato e dei licenziamenti per causa di matrimonio [65]
. Stante il fatto che, ai sensi dell’art. 2118 c.c., il datore di lavoro non era tenuto a motivare il licenziamento, e visto il consenso della prevalente dottrina e della giurisprudenza sulla insindacabilità dei motivi di licenziamento [66]
, non era dunque incoerente sostenere che il matrimonio della lavoratrice non potesse fare eccezione alle regole generali.
Per contestare la tesi della legittimità dei licenziamenti per causa di matrimonio occorrevano argomenti tecnici (come la precettività delle norme costituzionali applicabili nella materia) [67]
, e specialmente considerazioni di ordine morale, capaci di smuovere la coscienza dei benpensanti. L’insuccesso dell’iniziativa, promossa anni addietro, per affermare la nullità dei licenziamenti di rappresaglia politica e sindaca
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, aveva insegnato che, fino a quando l’art. 2118 c.c. fosse rimasto in vigore, nessun richiamo ai principi costituzionali avrebbe indotto la giurisprudenza a sindacare i motivi del licenziamento [69]
. Per questo, forse, i sostenitori della illegittimità dei licenziamenti posero l’accento più sulla salvaguardia del tradizionale ruolo domestico della donna che sull’affermazione del diritto al lavoro e all’eguaglianza nel lavoro.
Note
[52] Le camere di allattamento e gli asili nido aziendali, per inadempienza dei datori di lavoro, erano rimasti sulla carta; i pochi funzionanti, inoltre, non davano garanzie sufficienti sotto il profilo igienico e dell’assistenza e, per la loro collocazione aziendale, risultavano di scarsa utilità per tutte quelle lavoratrici, la maggioranza, che abitassero lontano dal luogo di lavoro.
[53] Riferimenti alla legge e una rassegna della giurisprudenza sui licenziamenti per causa di matrimonio e sulle clausole di nubilato sono in M. Maffei e A. Vessia, op. cit., pp. 347 seg. Un ampio panorama del dibattito (anche giuridico), che ha preceduto l’emanazione della legge n. 7/1963, in Società umanitaria, I licenziamenti a causa di matrimonio, Firenze, 1962; Libro bianco sui licenziamenti per causa di matrimonio in Italia, a cura dell’UDI, Roma, 1961.
[54] G. Re, Cause economiche e sociali del fenomeno, in I licenziamenti a causa di matrimonio, cit., p. 72.
[55] La nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato è stata introdotta con la legge 18 aprile 1962, n. 230. Si tratta di una disciplina fortemente restrittiva, oggetto di una recente reinterpretazione critica, di cui offre un ampio saggio il vol. Il lavoro a termine, Atti delle giornate di studio di Sorrento, 14-15 aprile 1978, Milano, 1979; v. anche A. Converso, L. Panzani, P. Pini, N. Raffone, Il rapporto di lavoro a tempo determinato. Disciplina privata e pubblica, Milano, 1979.
[56] Cons. stato, sez. V, 16 maggio 1952, n. 801, in «Foro amministrativo», 1952,1, 2, c. 205. In materia di regolamenti ospedalieri l’orientamento interpretativo venne successivamente modificato: v. le decisioni delle G.P.A. e dello stesso Cons. stato, riportate da M. G. Manfredini, Il problema giuridico del matrimonio quale causa di licenziamento delle lavoratrici, in I licenziamenti a causa di matrimonio, cit., p. 58.
[57] V. ancora Manfredini, op. cit., pp. 61 seg.
[58] Sulla circolare ministeriale, v. Maffei e Vessia, op. cit., p. 349. L’argomento della frode alla legge sulle lavoratrici madri venne largamente ripreso dalla dottrina: L. Riva Sanseverino, Casi «clinici» in materia di lavoro femminile, cit.; U. Prosperetti, Aspetti giuridici del lavoro della donna, in « Rivista di diritto del lavoro», 1958,1, pp. 323 seg.; G. Trioni, Matrimonio e licenziamento, in «Rivista di diritto matrimoniale e dello stato delle persone», 1958,1, pp. 757 seg.; N. Cicchetti, Procreate ma non sposatevi, in «Rivista giuridica del lavoro», 1960, I, pp. 42 seg.
[59] A favore della tesi della piena legittimità delle clausole di nubilato e dei licenziamenti a causa di matrimonio si pronunciarono: C. Giannattasio, Clausole di nubilato in contratto di lavoro, in «Diritto dell’economia», 1956, pp. 1046 seg.; D. R. Peretti Griva, Sulla legittimità della clausola di nubilato, ivi, 1959, pp. 359 seg. Secondo L. A. Miglioranzi, Clausole di nubilato nel contratto di lavoro, in «Il diritto del lavoro», 1957,1, pp. 69 seg., la clausola di nubilato non doveva essere considerata in sé contraria all’ordine pubblico, ma in talune ipotesi apposta in frode alla legge sulle lavoratrici madri.
[60] G. Re, Cause economiche e sociali del fenomeno, cit., pp. 72 seg.
[61] Il giudizio sulla coincidenza necessaria fra matrimonio e maternità doveva essere, oltre che diffuso, convalidato dai fatti. Nel 1962, Giuseppe Pera, già allora sicuro interprete della comune opinione, scriveva: «nell’anno dalla celebrazione del matrimonio, di norma si verifica il presupposto di fatto per poter invocare la legge protettiva delle lavoratrici madri» (Divieto di licenziamento delle lavoratrici a causa di matrimonio, in «Il diritto del lavoro», 1962, I, p. 358). Segno della scarsa diffusione dei contraccettivi?
[62] V. in questo senso le affermazioni di G. Re, op. cit., pp. 77 seg. Tutto il dibattito riportato nel cit. vol., I licenziamenti a causa di matrimonio, muove dal presupposto della non più arrestabile espansione dell’occupazione femminile.
[63] Cfr. infra, cap. V, par. 3, l’analisi delle ragioni della caduta dell’occupazione e dei tassi di attività femminile.
[64] G. Della Rocca, L’offensiva politica degli imprenditori nelle fabbriche, in Problemi del movimento sindacale in Italia, cit., p. 615.
[65] Così Giannattasio e Peretti Griva nelle opp. citt.; nello stesso senso: Trib. Roma, 10 aprile 1958, in «Rivista giuridica del lavoro», 1958, II, p. 286 (che tuttavia ammetteva l’illiceità del recesso per illiceità della causa); Trib. Bergamo, 17 marzo 1960, in «Corti Brescia, Venezia, Trieste», 1960, p. 521.
[66] Rinvio, sul punto, a quanto ho scritto in I licenziamenti, Milano, 1975, pp. 7 seg., 27 seg., e ivi riferimenti alla dottrina e alla giurisprudenza. La tesi dell’insindacabilità dei motivi di licenziamento fu sostenuta dalla cassazione anche nell’ipotesi del licenziamento politico motivato come tale: Cass., 19 luglio 1951, n. 2024, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1951, p. 174; Cass., 24 luglio 1951, n. 2113, ivi, 1951, p. 179; Cass., 16 giugno 1953, n. 1761, ivi, 1953, p. 264; Cass., 28 ottobre 1959, n. 3158, in «Rivista di diritto del lavoro», 1960, II, p. 266.
[67] Si riferivano agli artt. 3,4, e 41, comma II, cost., Manfredini, op. cit., pp. 38 seg.; C. Smuraglia, Licenziamento di lavoratrici che contraggono matrimonio e clausole di nubilato nei contratti di lavoro, in I licenziamenti a causa di matrimonio, cit., pp. 201 seg.
[68] Sull’onda delle polemiche per il licenziamento del dirigente comunista Giovanni Battista Santhià (lo licenziò la FIAT, con espressa motivazione politica) i giuristi rinnovarono i propri sforzi per dare interpretazioni limitative dell’art. 2118 c.c.: v. Atti del convegno sulla tutela delle libertà nei rapporti di lavoro, Torino 20-21 novembre 1954, Milano, 1955; U. Natoli, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, Milano, 1955, pp. 53 seg.
[69] V. infatti quanto affermava C. Smuraglia, op. cit., p. 219: «spesso la fondatezza giuridica degli argomenti non costituisce un valido ed efficace baluardo contro i soprusi dei datori di lavoro e contro le resistenze da parte di chi preferisce stare arroccato sulle posizioni più tradizionali»; il riferimento alla magistratura era ovvio.