Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c4
Per lo stesso motivo, anche il richiamo all’aequitas come criterio in grado di guidare la ricerca di «uno strato di giuridicità che arbitra, armonizza o seleziona tra più legalità contrapposte» [57]
esige cautela [58]
. Certo, il pathos della minimiz{p. 115}zazione dell’ingiustizia che muove i teorici dell’interlegalità sembra pretendere dall’odierno interprete uno scrutinio di ragionevolezza di tutto il diritto esistente – in nome di un principio di convenientia tra fatti e forme giuridiche che invita necessariamente a travalicare in chiave universalistica il raggio delle singole unità sistematiche «terrestri» – in certa misura comparabile con la ratio dell’aequitas medievale. E tuttavia non bisogna dimenticare quella che Sbriccoli definisce «l’unità monolitica dei valori etici e giuridici che costituiva la base di tutta la struttura del diritto medievale», senza la quale l’equazione tra giustizia, ragionevolezza e verità di cui l’aequitas si pone come suprema garanzia non sarebbe mai tornata [59]
. A rendere possibile quella osmosi continua tra cielo e terra (tra effettività e validità); a consentire in altre parole all’aequitas di porsi come parametro fondamentale, ora di difesa, ora di sviluppo dell’unità del sistema in tutte le sue articolazioni, mantenendosi contemporaneamente in assoluta aderenza al mutamento sociale, è in fin dei conti – potremmo dire con Schmitt – il fatto che il tutto si compie sul terreno neutrale, «spoliticizzato» in quanto sottratto alla contesa delle opiniones, dell’unità dei valori etico-religiosi cristiani [60]
. Su un’analoga compattezza valoriale – temo –, l’interprete contemporaneo del diritto globale, figlio di un mondo tanto frammentato da non sembrare più in grado di
{p. 116}esprimere un principio d’ordine autenticamente condiviso, non può più volente o nolente fare affidamento.
Con questi ed altri problemi l’interprete dell’odierna interlegalità deve fare i conti. Guardare alla vicenda medievale può rivelarsi importante, allora, per rammentarci di come in una società a bassissima produzione legislativa una scienza consapevole del proprio ruolo e della propria funzione sociale abbia saputo corrispondere al compito supremo di ordinare giuridicamente il proprio mondo adoperando tutti gli strumenti a disposizione (come l’interpretatio, l’aequitas), tenendo conto dei vincoli e sfruttando gli spazi di autonomia che le circostanze consentivano. Il venir meno delle certezze giuridiche del mondo «di ieri» impone al giurista contemporaneo lo sforzo di recuperare un’analoga consapevolezza. Le soluzioni ai problemi dell’oggi, però, non potranno che corrispondere all’altezza delle capacità, dei limiti e degli ideali che nostro tempo richiede.
Note
[57] Cfr. Palombella, Interlegalità, cit., p. 331.
[58] Il concetto di aequitas nel medioevo è di tale rilevanza che in questa sede non si può neppure sfiorare. Per limitarci ad indicazioni essenziali, cfr. F. Calasso, Il diritto comune come fatto spirituale, in Id., Introduzione al diritto comune, Milano, Giuffrè, 1951, pp. 166 ss.; Id., Medioevo del diritto, cit., pp. 469 ss.; Id., Equità. Premessa storica, in Id., Storicità del diritto, Milano, Giuffrè, 1966, pp. 365-376; J. Vallejo, Ruda equidad, ley consumada. Conceptión de la potestad normativa (1250-1350), Madrid, Centro de Estudios Constitucionales, 1992; Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., pp. 175-182.
[59] Cfr. Sbriccoli, L’interpretazione dello statuto, cit., p. 97. Che continua: «Così, quelli che sono i limiti della identificazione di ciò che risponde a razionalità nella nostra cultura giuridica (necessità di una base comune di incontro e di accordo, instabilità del consenso), diventano i punti forti dell’aequitas come parametro di ragionevolezza nella società medievale, provvista in alto grado di due essenziali caratteristiche: forte omogeneità nella sua cultura giuridica e totale integrazione dei valori (oggi disparati) del diritto, dell’etica, della politica» (ibidem, p. 99).
[60] Cfr. C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle politicizzazioni, in Id. Le categorie del politico, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 167-193.