Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c4
Facendo un passo avanti, escluderei senz’altro dalla comparazione lo scenario altomedievale. È vero infatti che l’estrema frammentazione del paesaggio europeo che si apre a valle del crollo della struttura statale romana mette capo ad un particolarismo giuridico tanto accentuato da stimolare (con tutti i caveat di cui sopra) un qualche raffronto con un pluralismo messo in scena dall’odierna globalizzazione (dove fattualità ed effettività tornano a farla da padrone) [45]
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{p. 111}Ed è pur vero che queste piattaforme giuridiche a matrice consuetudinaria e fattuale finiscono col tempo per interagire tra loro superando i limiti tracciati dal principio stesso di personalità del diritto [46]
. Ciò che manca (ed è invece proprio ciò che gli studi in tema di interlegalità vanno cercando) è uno specifico trattamento ermeneutico della pluralità, quell’incessante campo di tensione tra validità ed effettività entro cui si svolge tutto il «dramma» dell’interpretatio medievale (del cd. medioevo «sapienziale»). Improntate al più schietto naturalismo, quando non contrassegnate da vero e proprio primitivismo giuridico [47]
, le soluzioni escogitate dalla prassi altomedievale finiscono infatti per plasmarsi sui fatti, sulle strutture naturali ed economiche del reale, nella più totale autonomia rispetto a schemi e forme astratte alle quali dover rendere conto.
Non mi sembra calzante inoltre – nonostante gli studi sul formante giurisprudenziale del diritto globale ed europeo vi facciano sovente richiamo, quale meccanismo che nel processo di ibridazione degli ordinamenti giuridici contemporanei verrebbe a conoscere una sorta di «seconda vita» [48]
– neppure il riferimento all’istituto della lex alii loci, ossia quella prassi giudiziaria del tardo diritto comune che distendendosi in avanti fino ad un Settecento molto inoltrato si interrompe solo al cospetto delle grandi codificazioni ottocentesche [49]
. Certo, tecnicamente possiamo dire di avere a che fare con un fenomeno di «connessione» tra regimi giuridici differenti. Ci troviamo del resto in un ambiente ancora illuminato dalla luce del diritto comune (sebbene il cantiere della modernità {p. 112}sia già al lavoro da tempo), dove l’idea dell’unità essenziale e della matrice razionale del diritto permette ancora dinamiche di osmosi tra plessi normativi (di ius proprium) che all’occorrenza si aprono e comunicano tra loro. E tuttavia, il presupposto di attivazione del ricorso alla lex/ratio di un altro ordinamento – il fatto cioè che tanto nell’ordinamento proprio che in quello comune il caso non risulti decisus [50]
– sembra tradire una preoccupazione di carattere sistemico che rappresenta proprio la zavorra teorica della quale la nozione di interlegalità vorrebbe oggi disfarsi.
L’elenco degli amici più o meno «falsi» potrebbe continuare. L’immagine di un medioevo riaffiorante lungo le principali linee di frattura della modernità attraversa molta della letteratura giuridica novecentesca sulla «crisi» (dello Stato, delle fonti, della legge, ecc.), fin quasi a diventare luogo comune, quando non vero e proprio ripescaggio strumentale a specifiche esigenze retoriche del presente [51]
. Occorre dunque nuovamente guardarsi dalle troppo facili analogie, dalla tentazione di collegare singoli fotogrammi del divenire storico in assenza di una sorvegliata storicizzazione del contesto nel quale ogni frammento del passato si deve inscrivere. Ciò vale a maggior ragione a proposito di un tema cruciale come quello relativo al ruolo e alla funzione dell’interpretazione: uno snodo teorico che il rinnovato protagonismo delle istituzioni giudiziarie nell’età della globalizzazione (dentro, ma soprattutto fuori dei confini statali) rende affollatissimo di suggestioni ancien non sempre calzanti [52]
. Insomma, quali elementi della interpretatio {p. 113}medievale si prestano maggiormente a fungere da momento comparativo per una più precisa definizione della nozione di interlegalità? Anche in questo caso l’articolata scacchiera di bianchi e neri evidenzia, accanto a possibili analogie, alcune differenze insormontabili. Ne segnalo sinteticamente due [53]
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Un primo aspetto su cui può valer la pena richiamare l’attenzione attiene alla dimensione essenzialmente interpretativa nella quale tutta la vicenda giuridica medievale si svolge. In un mondo in cui l’unico vero legittimo creatore di diritto è Dio, tutti divengono interpreti: prìncipi, giudici, dottori, consuetudini [54]
. Il diritto non è sentito – Grossi docet – come un qualcosa che si possa creare (o distruggere), ma come una realtà che preesiste al potere, un dato che attiene alla ontologia profonda del reale e che occorre soltanto portare alla luce, dichiarare, manifestare. È la concezione del diritto come ordo, come dimensione radicale e oggettiva, autonoma rispetto alla sfera d’azione della volontà politica a portarsi dietro come logica conseguenza la possibilità di collocare in una chiave squisitamente interpretativa – e così legittimare – ogni fase di sviluppo storico del diritto. Ordine dunque {p. 114}come presupposto e punto d’arrivo di un’ermeneutica infinita dove tutto si muove pur lasciando inalterato tra diritto e realtà sociale un medesimo determinato equilibrio [55]
. Ebbene, in chiave comparativa mi sembra questo un orizzonte nel quale l’odierno interprete dell’interlegalità fatica non poco ad essere collocato. La modernità mi pare abbia tracciato da questo punto di vista una cesura quantomai profonda. L’ordine non può darsi più per presupposto, ma diviene un traguardo da raggiungere, un qualcosa che deve essere «costruito» [56]
. È difficile insomma liberarsi da quella che rappresenta altresì una delle grandi consapevolezze del Novecento, ossia che la scoperta del carattere necessario e fisiologico del conflitto richiede un corrispondente sforzo progettuale nel senso della indicazione di un’idea fondamentale di società e di giustizia in grado di ordinare il moto caotico degli interessi organizzati. Idea che non potendosi più pensare come incisa nella natura delle cose, non sembra altrimenti capace di funzionare da bussola orientativa di ogni sforzo ermeneutico se non come esito di un’opzione politico-giuridica di natura «costituzionale».
Per lo stesso motivo, anche il richiamo all’aequitas come criterio in grado di guidare la ricerca di «uno strato di giuridicità che arbitra, armonizza o seleziona tra più legalità contrapposte» [57]
esige cautela [58]
. Certo, il pathos della minimiz{p. 115}zazione dell’ingiustizia che muove i teorici dell’interlegalità sembra pretendere dall’odierno interprete uno scrutinio di ragionevolezza di tutto il diritto esistente – in nome di un principio di convenientia tra fatti e forme giuridiche che invita necessariamente a travalicare in chiave universalistica il raggio delle singole unità sistematiche «terrestri» – in certa misura comparabile con la ratio dell’aequitas medievale. E tuttavia non bisogna dimenticare quella che Sbriccoli definisce «l’unità monolitica dei valori etici e giuridici che costituiva la base di tutta la struttura del diritto medievale», senza la quale l’equazione tra giustizia, ragionevolezza e verità di cui l’aequitas si pone come suprema garanzia non sarebbe mai tornata [59]
. A rendere possibile quella osmosi continua tra cielo e terra (tra effettività e validità); a consentire in altre parole all’aequitas di porsi come parametro fondamentale, ora di difesa, ora di sviluppo dell’unità del sistema in tutte le sue articolazioni, mantenendosi contemporaneamente in assoluta aderenza al mutamento sociale, è in fin dei conti – potremmo dire con Schmitt – il fatto che il tutto si compie sul terreno neutrale, «spoliticizzato» in quanto sottratto alla contesa delle opiniones, dell’unità dei valori etico-religiosi cristiani [60]
. Su un’analoga compattezza valoriale – temo –, l’interprete contemporaneo del diritto globale, figlio di un mondo tanto frammentato da non sembrare più in grado di
{p. 116}esprimere un principio d’ordine autenticamente condiviso, non può più volente o nolente fare affidamento.
Note
[45] Una lucida messa a fuoco della globalizzazione dal punto di vista storico-giuridico in P. Grossi, Globalizzazione, diritto, scienza giuridica e Id., Aspetti giuridici della globalizzazione economica, ora entrambi in Id., Società, diritto, Stato. Un recupero per il diritto, Milano, Giuffrè, 2006, rispettivamente pp. 279-300 e 301-312.
[46] Una casistica di queste interazioni, che si vengono ad affermare in via di prassi, ad es. in F. Calasso, Medioevo del diritto, I: Le fonti, Milano, Giuffrè, 1954, pp. 184-185.
[47] Ancora Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., pp. 61-72.
[48] Cfr. ad es. Vogliotti, Tra fatto e diritto, cit., p. 283; A. Somma, Metodi e scopi della comparazione giuridica nelle decisioni delle corti, in G. Alpa, Il giudice e l’uso delle sentenze straniere. Modalità e tecniche della comparazione giuridica. La giurisprudenza civile, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 97 ss.
[49] Sul punto, cfr. G. Gorla, Il ricorso alla legge di un «luogo vicino» nell’ambito del diritto comune europeo, in «Il Foro italiano», 96, 1973, n. 5, pp. 89 ss.
[50] «Quando nella lex loci e nel diritto comune non si trova “decisus” il caso sub iudice, o in genere controverso, si ricorre ad una lex alii loci o extera nella quale quel caso si trovi “decisus”: non però come ad una legge vincolante per i sudditi, ma come ad una doctrina magistralis o ad un responsum prudentium» (ibidem, p. 92).
[51] Un campionario di questi riferimenti novecenteschi al medioevo in Grossi, Unità giuridica europea, cit., pp. 45-47.
[52] Una ricostruzione convincente di queste dinamiche in M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Bologna, Il Mulino, 2000 e Id., Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Bologna, Il Mulino, 2002. Per una ricognizione degli itinerari otto-novecenteschi sul diritto giurisprudenziale, cfr. invece il volume monografico dei «Quaderni fiorentini», Giudici e giuristi. Il problema del diritto giurisprudenziale fra Otto e Novecento, 40, 2011. In un’ottica filosofico-giuridica, pienamente condivisibile l’analisi di B. Pastore, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica contemporanea, Padova, CEDAM, 2014.
[53] Non mi soffermo in questa sede – dandole nuovamente come avvertenze indefettibili – sulle riserve metodologiche relative all’uso della nozione di «legalità» come concetto passe-partout applicabile senza problemi anche al mondo giuridico medievale. Legalità è indubbiamente termine sovraccarico di idealità ed aspettative moderne (presuppone generalità, astrattezza ed eguaglianza, suppone come risolto il problema della differenziazione tra giuridico e non giuridico, ecc.) e appare pertanto inadatto a racchiudere la complessità sia dell’universo giuridico premoderno, che del contemporaneo. Cfr. da ultimo, P. Grossi, Oltre la legalità, Roma-Bari, Laterza, 2020, p. 35. Per la posizione dei curatori, si veda E. Chiti, A. di Martino e G. Palombella, Nel mondo delle legalità al plurale e dell’interconnessione, in questo volume, pp. 13-16.
[54] «È interpretatio l’attività normativa del principe e quella della comunità per il tramite della consuetudine, così come il rendere giustizia del giudice o l’edificare teorico del magister» (cfr. Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., pp. 162-163).
[55] «Si vede bene, infatti, come lo scopo (…) della interpretatio medievale sia quello di creare un rapporto tra diritto e realtà che conservi permanentemente un certo equilibrio: il che nel mutare inevitabile della realtà, comporta il mutare delle soluzioni giuridiche (…). In che cosa consiste questo equilibrio, e cosa lo caratterizza? Esso non è altro che il ripetersi ed il perpetuarsi di soluzioni giuridiche sempre relativamente omogenee (o identiche) tra loro, rispetto alla realtà in movimento: soluzioni cioè che saranno diversissime se guardate staticamente a confronto l’una con l’altra, ma che appariranno del medesimo tipo se viste in rapporto ai problemi che di volta in volta hanno risolto. A mutare di realtà, quindi, mutare di soluzioni, ma costanza di rapporto» (Sbriccoli, L’interpretazione dello statuto, cit., pp. 89-90).
[56] Cfr. da ultimo, I. Stolzi, Il secolo nuovo. Giuristi e tradizioni nell’Italia del Ventennio, in «Quaderni fiorentini», 49, 2020, pp. 267 ss., 269.
[57] Cfr. Palombella, Interlegalità, cit., p. 331.
[58] Il concetto di aequitas nel medioevo è di tale rilevanza che in questa sede non si può neppure sfiorare. Per limitarci ad indicazioni essenziali, cfr. F. Calasso, Il diritto comune come fatto spirituale, in Id., Introduzione al diritto comune, Milano, Giuffrè, 1951, pp. 166 ss.; Id., Medioevo del diritto, cit., pp. 469 ss.; Id., Equità. Premessa storica, in Id., Storicità del diritto, Milano, Giuffrè, 1966, pp. 365-376; J. Vallejo, Ruda equidad, ley consumada. Conceptión de la potestad normativa (1250-1350), Madrid, Centro de Estudios Constitucionales, 1992; Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., pp. 175-182.
[59] Cfr. Sbriccoli, L’interpretazione dello statuto, cit., p. 97. Che continua: «Così, quelli che sono i limiti della identificazione di ciò che risponde a razionalità nella nostra cultura giuridica (necessità di una base comune di incontro e di accordo, instabilità del consenso), diventano i punti forti dell’aequitas come parametro di ragionevolezza nella società medievale, provvista in alto grado di due essenziali caratteristiche: forte omogeneità nella sua cultura giuridica e totale integrazione dei valori (oggi disparati) del diritto, dell’etica, della politica» (ibidem, p. 99).
[60] Cfr. C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle politicizzazioni, in Id. Le categorie del politico, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 167-193.