Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c5
A questo proposito, è stato sottolineato, ad esempio, che la totale assenza di riconoscimento da parte dei Paesi europei dei matrimoni celebrati sul loro territorio in conformità al solo diritto islamico (cd. nikah-only marriages [30]
) può avere conseguenze negative per le persone musulmane in diversi ambiti: dalle politiche sociali, alle regole sul ricongiungimento familiare dei migranti, fino alle tutele riconosciute dal diritto statale al coniuge più vulnerabile nel momento in cui la relazione finisce. E ancora, si è osservato che escludere tassativamente la possibilità che il ripudio islamico possa produrre effetti per il diritto statale può in alcuni casi ritorcersi contro la donna ripudiata, ad esempio quando quest’ultima voglia risposarsi o far valere i propri diritti (patrimoniali) derivanti dallo scioglimento del matrimonio [31]
. D’altra parte, l’esclusivo ricorso alle norme statali in materia di matrimonio può portare anche a negare alle donne musulmane le tutele garantite loro dal diritto islamico, come ad esempio nel caso mahr: il dono che il marito deve fare alla moglie in ragione del matrimonio. Poiché infatti non esiste alcun istituto omologo al mahr nel diritto dei Paesi europei, la decisione
{p. 129}se e in che termini garantirne l’esecuzione forzata quando il marito non lo versi spontaneamente è di fatto rimessa alla sensibilità dei giudici investiti della controversia, con esiti a dir poco incostanti e incoerenti [32]
.
Per quanto evidentemente parziali e molto specifici, questi esempi indicano come, senza tener conto della complessità giuridica in cui sono immersi i soggetti che agiscono in contesti di interlegalità, non sia possibile garantire la piena tutela dei loro diritti. Forse anche per questa ragione, si stanno progressivamente affermando tra i giudici pratiche interpretative che attraversano i pretesi confini tra ordinamenti giuridici differenti [33]
, non solo nell’attribuzione di significato alle fonti del diritto ritenute rilevanti nel caso concreto ma anche, e prima ancora, in relazione alla stessa individuazione di tali fonti. Come osserva Baldassare Pastore, infatti, «il confronto tra plessi normativi (…) mette in moto meccanismi in forza dei quali l’operatore si trova ad applicare la regola tratta da una o l’altra fonte considerata maggiormente idonea a soddisfare le esigenze avanzate dal caso» [34]
, anche a costo di includere tra le premesse normative delle proprie decisioni «fonti extra ordinem» che operano soltanto «sulla base del principio di effettività» [35]
.
In altre parole, le esigenze di giustizia del caso concreto stanno divenendo il perno di una nuova «ideologia delle fonti del diritto», in conformità alla quale si vanno ridefinendo i tradizionali (meta-)criteri di applicabilità delle norme giuridiche [36]
. Si determina così una progressiva «dissocia{p. 130}zione tra l’insieme delle fonti formali e quello (più ampio, comprensivo di fonti informali) accettato dalla comunità dei giuristi» [37]
. Le nuove prassi giurisprudenziali legate alle sfide dell’interlegalità contribuiscono quindi significativamente – sebbene senza dubbio non ne siano l’unica causa – alla progressiva erosione del carattere chiuso, autonomo ed esclusivo degli ordinamenti giuridici che si intersecano negli spazi giuridici ibridi [38]
, mettendo profondamente in crisi la stessa concezione del diritto come ordinamento di derivazione kelseniana [39]
.{p. 131}

4. L’interlegalità come metodo e i nuovi orizzonti dell’interpretazione giudiziale: spunti di riflessione

Se è vero che «nessun ordinamento giuridico contemporaneo è completamente dipendente o completamente indipendente» [40]
, è necessario allora chiedersi come possa – e debba – il giudice individuare la norma del caso concreto in un contesto in cui il diritto applicabile «non deriva né può farsi dipendere in modo esclusivo da uno tra i singoli ordini giuridici o regimi che emergano come simultaneamente rilevanti in casi concreti» [41]
. Sebbene infatti la centralità del ruolo del giudice come interlegality hub sia ormai da tempo riconosciuta – tanto da chi si interroga sulla possibilità di un costituzionalismo globale [42]
quanto da chi prende in esame la questione dal punto di vista diametralmente opposto del pluralismo giuridico radicale [43]
– rimane ancora da capire se e in che termini i giudici {p. 132}possano superare i rigidi limiti delle teorie ordinamentali delle fonti del diritto senza ricadere nella tentazione della gerarchia o, all’opposto, abbandonarsi alla politica dei rapporti di forza tra ordinamenti.
In questa prospettiva, si intendono offrire alla discussione alcuni «pensieri sparsi», possibili spunti per riflessioni future, in dialogo con alcuni dei più recenti tentativi di elaborare un nuovo paradigma (teorico-giuridico e normativo) dell’interlegalità [44]
.
In particolare, mi pare importante sottolineare innanzitutto che, con riferimento all’individuazione del diritto applicabile, il paradigma dell’interlegalità sollecita un completo ribaltamento di prospettiva rispetto alle teorie ordinamentali del diritto di matrice kelseniana, passando da un approccio top-down ad uno bottom-up. In sostanza, anziché partire dalle norme dell’ordinamento giuridico all’interno del quale ciascun giudice esercita la propria giurisdizione per individuare, in base ad esse, il diritto applicabile ai fatti oggetto di giudizio, il paradigma dell’interlegalità muove invece dai fatti oggetto di giudizio per individuare, in base ad essi, quali norme di quali ordinamenti siano rilevanti per la costruzione del caso. La qual cosa può fare molta differenza, perché il processo circolare di condizionamento reciproco nell’ambito del quale si definiscono la quaestio facti e la quaestio juris di una controversia [45]
non può prescindere dal quadro {p. 133}normativo complessivo che si assume come riferimento [46]
, e tale quadro normativo può variare anche significativamente a seconda di quale delle due opzioni metodologiche – top-down o bottom-up – si scelga.
Prendere sul serio l’interlegalità significa quindi, per il giudice, tener conto di tutte le fonti potenzialmente rilevanti per la decisione del caso, anche in assenza di qualsiasi rinvio da parte dell’ordinamento giuridico nell’ambito del quale esercita la propria giurisdizione. Si tratta in altre parole di abbracciare la complessità, accettando che il diritto può essere descritto, oggi più che mai, come un «complesso di potenzialità latenti» [47]
, nel quale «a monte delle norme vi sono svariati materiali giuridici, eterogenei e dotati di diversa forza vincolante, che formano un insieme normativo in potenza da attualizzare» [48]
. In questa prospettiva, assumere la giustizia del caso concreto come criterio (uno dei criteri) che guida il giudice nella ricostruzione della norma da applicare non significa – come qualcuno teme – adottare un approccio equitativo o decidere il caso sulla base di considerazioni di
{p. 134}filosofia morale [49]
, quanto piuttosto ampliare l’orizzonte delle norme giuridiche di cui si ammette la rilevanza in relazione al caso concreto da decidere.
Note
[30] Nikah è la parola araba per matrimonio. Su questo tema si veda, ad esempio, la parte monografica del fascicolo 2018, n. 4 dell’«Oxford Journal of Law and Religion», a cura di R.C. Akhtar, R. Probert e A. Moors.
[31] M. Rizzuti, Ordine pubblico costituzionale e rapporti familiari: i casi della poligamia e del ripudio, in «Actualidad Jurídica Iberoamericana», 10, 2019, pp. 604 ss.: 619.
[32] Si rinvia, a questo proposito, a P. Fournier, Muslim Marriage in Western Courts. Lost in Transplantation, Farnham, Ashgate, 2010.
[33] Come sottolinea R. Cotterrell, Does Global Legal Pluralism Need a Concept of Law?, cit., p. 316, corsivo nel testo, l’interpretazione giuridica è «increasingly, interpretation across as well as within normative regimes».
[34] B. Pastore, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica contemporanea, Padova, CEDAM, 2014, p. 25.
[35] Ibidem, p. 32. A questo proposito, è stato osservato che «il carattere normativo di ciò che ha per fonte altri ordinamenti sfugge alla nostra decisione piuttosto che dipendervi» (G. Palombella, Interlegalità. L’interconnessione, cit., p. 322, corsivi nel testo).
[36] G. Pino, Teoria Analitica del diritto, I: Teoria della norma, Pisa, ETS, 2016, pp. 143-154. Secondo la definizione di Pino, i criteri di applicabilità sono le norme positive o «le convenzioni interpretative e argomentative praticate nella cultura giuridica di riferimento» che «hanno la funzione di indicare all’organo dell’applicazione quale [norma] dovrà applicare». I meta-criteri di applicabilità sono, invece, quei «criteri che riguardano il peso da attribuire ai singoli criteri di applicabilità, i loro reciproci rapporti di preferenza, ecc.». Pino puntualizza che «l’insieme dei criteri e dei meta criteri di applicabilità (…) rinvia (…) a una più generale concezione del diritto che viene condivisa o presupposta dagli operatori all’interno di una cultura giuridica e che può essere utilmente compendiata nella nozione di “ideologia delle fonti del diritto”».
[37] B. Pastore, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica, cit., p. 33. In termini simili, anche se non del tutto coincidenti, F. Modugno, È possibile parlare ancora di un Sistema delle fonti?, su www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2008, p. 19 osserva come «il preteso o presunto sistema delle fonti di un ordinamento statale di riferimento non è sufficiente (…) alla individuazione delle fonti di produzione normativa, poiché il sistema delle norme applicabili e applicate nell’ordinamento medesimo non corrisponde (è in genere più ampio, più esteso) di quello risultante dalla rigorosa applicazione delle norme sulla normazione».
[38] Come chiarisce F. Poggi, Concetti teorici fondamentali. Lezioni di teoria generale del diritto, Pisa, ETS, 2013, p. 236, richiamandosi a G. Itzcovich, Ordinamento giuridico, pluralismo giuridico, principi fondamentali. L’Europa e il suo diritto in tre concetti, in «Diritto pubblico comparato ed europeo», 1, 2009, pp. 34 ss.: 37-38, un ordinamento è autonomo se fonda la propria autorità solo su se stesso e decide da sé i criteri di appartenenza delle proprie norme; è esclusivo se esclude che le norme che non soddisfano tali criteri siano rilevanti per forza propria. Così inteso, l’ordinamento può considerarsi chiuso ed è quindi possibile tracciare, in relazione ad esso, una netta distinzione tra interno ed esterno. Cfr. G. Itzcovich, Ordinamento giuridico, cit., p. 39.
[39] Cfr. supra, nota 21.
[40] E. Cannizzaro e B. Bonafè, Beyond the Archetypes of Modern Legal Thought Appraising Old and New Forms of Interaction between Legal Orders, in M. Maduro, K. Tuori e S. Sankari (a cura di), Transnational Law, cit., pp. 78-96: 81, traduzione mia.
[41] G. Palombella, Interlegalità. L’interconnessione, cit., p. 330.
[42] Ad esempio, Sabino Cassese parla di una «funzione costituzionale dei giudici non statali» nel favorire il passaggio «dallo spazio giuridico globale all’ordine giuridico globale» (S. Cassese, La funzione costituzionale dei giudici non statali. Dallo spazio giuridico globale all’ordine giuridico globale, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2007, n. 3, pp. 609-626) ed evidenzia come le principali dottrine sulle quali oggi si basano tanto i processi di «integrazione» tra diritto nazionale, internazionale e sovranazionale, quanto i rapporti di «cooperazione» tra le diverse corti che operano in ciascuno di questi spazi giuridici, sono tutte frutto di elaborazione giurisprudenziale: così, ad esempio, il principio di sussidiarietà, la dottrina dei controlimiti, quella delle norme interposte, quella del margine di apprezzamento, quella della tutela equivalente, e così via (S. Cassese, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Roma, Donzelli, 2009, pp. 10-11).
[43] Così, ad esempio, Nico Krisch. Nella convinzione che i rapporti tra ordinamenti siano e debbano essere lasciati alla negoziazione politica, infatti, N. Krisch, Beyond Consitutionalism. The Pluralist Structure of Postnational Law, Oxford, Oxford University Press, 2010, pp. 293-294 individua nell’assenza di «interface rules» prestabilite una sfida, una situazione «caotica» e «non facile da gestire mediante gli strumenti tipici del ragionamento giuridico», ma al tempo stesso ricca di potenzialità per i giudici, perché permette loro «di assumere un ruolo di coordinamento – quello di arbitri o mediatori tra ordinamenti (orders) diversi, piuttosto che di avvocati di uno di essi» (traduzione mia).
[44] Il riferimento è ai saggi contenuti in J. Klabbers e G. Palombella (a cura di), The Challenge of Inter-legality, cit., in particolare a J. Klabbers e G. Palombella, Introduction. Situating Interlegality, cit., e a G. Palombella, Theories, Realities, and Promises of Interlegality: A Manifesto, in J. Klabbers e G. Palombella (a cura di), The Challenge of Inter-legality, cit., pp. 363 ss.
[45] Da un lato, infatti, è l’interpretazione prima facie dei fatti oggetto di giudizio, così come riferiti dalle parti, a indirizzare il giudice nell’individuazione della fattispecie astratta nella quale sussumere quella concreta; dall’altro, però, al tempo stesso, è la «pre-conoscenza» che il giudice ha delle norme potenzialmente applicabili a orientarlo nell’individuazione degli elementi di fatto ai quali dare rilievo. Sul «doppio legame fra quaestio facti e quaestio juris» si veda T. Mazzarese, Forme di razionalità delle decisioni giudiziali, Giappichelli, Torino, 1996, pp. 57-103.
[46] In questa prospettiva, A. di Martino e G. Palombella, Oltre l’architettura ordinamentale: il nuovo diritto composito della terza ondata, in «Giustizia Costituzionale», 2020, n. 1, pp. 225 ss.: 230 sottolineano che «il caso non coincide col concetto naturalistico di fatto (…), non è un mero fatto, ma partecipa della dimensione normativa e valutativa contenuta nelle norme che devono qualificarlo e che lo disciplinano». Nello stesso senso si esprime R. Bin, Ordine delle norme e disordine dei concetti (e viceversa), cit., p. 23 là dove scrive che «i “casi” (…) non sono gli “eventi” che si producono nel mondo reale, ma le ricostruzioni che l’interprete ne fa attraverso la qualificazione» giuridica. Significativo, a questo proposito, che l’antropologo Clifford Geertz critichi la «radicale dissociazione tra fatto e diritto» sottolineando che «la rappresentazione giuridica dei fatti è normativa fin dall’inizio» e che, se «fatti e diritto esistono ovunque», altrettanto non può dirsi per «la loro polarizzazione». Si veda C. Geertz, Local Knowledge. Further Essays in Interpretative Anthropology, New York, Basic Books, 1983; trad. it. Antropologia interpretativa, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 218-228.
[47] B. Pastore, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica, cit., p. 43
[48] Ibidem, p. 33.
[49] Preoccupate considerazioni in merito sono state espresse, anche recentemente, da M. Luciani, L’attivismo, la deferenza e la giustizia del caso singolo, in «Questione giustizia», 2020, n. 4, pp. 1 ss.