Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c10
Nell’ormai celebre caso Rackete [69]
la Suprema Corte, nell’ambito del giudizio di convalida dell’arresto della comandante, ha ritenuto ipotizzabile la scriminante dell’adempimento del dovere di soccorso dei migranti [70]
rispetto alla
{p. 274}condotta di speronamento della motovedetta della guardia di finanza realizzata dalla comandante, dopo aver atteso per giorni l’indicazione del porto sicuro in cui far sbarcare i migranti soccorsi, per fare ingresso nel porto di Lampedusa nonostante la mancanza di autorizzazione delle autorità italiane. Rispetto a tale condotta è stata contestata la fattispecie di violenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 336 c.p.
In altri casi la Cassazione ha incidentalmente ammesso che la condotta di soccorso delle ONG, pur potendo astrattamente integrare un’ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ai sensi dell’art. 12 del t.u. immigrazione – quantomeno ove sia accompagnata dalla realizzazione di un contributo consapevole di agevolazione delle azioni illecite dei trafficanti – possa parimenti risultare doverosa ai sensi degli obblighi internazionali [71]
o scriminata sulla base dello stato di necessità, la cui applicabilità è fatta salva dall’inciso dell’art. 12, co. 2, «fermo restando quanto previsto dall’art. 54 c.p.» [72]
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Anche i giudici di merito hanno tendenzialmente riconosciuto rilevanza alla norma sovranazionale sul dovere di soccorso in mare e ne hanno esteso il contenuto al trasporto dei naufraghi in un luogo sicuro dove siano rispettati i relativi diritti fondamentali. La norma internazionale sul dovere di soccorso così interpretata è stata utilizzata dal giudice insieme ad altre norme poste a tutela dei diritti fondamentali e al principio di diritto consuetudinario di non-refoulement per riconoscere il diritto dei migranti ad essere soccorsi e condotti in un porto sicuro; nonché, conseguentemente, per ritenere realizzata in legittima difesa la condotta di coloro che difendano tale diritto contro il pericolo attuale di essere condotti verso un porto «non sicuro», quale è stato ritenuto la Libia sulla scorta di documenti forniti da organizzazioni non governative e dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati [73]
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In un’altra vicenda [74]
la rilevanza della norma sul dovere di soccorso «esteso» allo sbarco in un luogo sicuro ha consentito al giudice di ravvisare lo stato di necessità rispetto alla condotta di membri dell’equipaggio della nave di un’ONG qualificata ai sensi dell’art. 12 t.u. immigrazione. Nel caso di specie il reato di favoreggiamento era stato contestato ai soccorritori per aver compiuto il salvataggio dei naufraghi senza rispettare le indicazioni delle autorità competenti al coordinamento dei soccorsi: il soccorso in mare era avvenuto nella zona SAR (Search and Rescue) di competenza della Libia; in seguito la nave dell’ONG aveva chiesto l’indicazione del porto sicuro alle autorità italiane anziché a quelle maltesi nonostante il porto più vicino fosse Malta e non quello ita{p. 276}liano dove infine era avvenuto lo sbarco. L’estensione del contenuto del dovere di soccorso allo sbarco in un luogo sicuro alla luce delle norme di diritto internazionale ha permesso di affermare che gli indagati avessero agito per difendere i migranti dal pericolo attuale di un danno grave alla persona non altrimenti evitabile – requisito dello stato di necessità ai sensi dell’art. 54 c.p. – ossia l’affidamento dei migranti stessi alle autorità di soccorso libiche. L’intervento delle autorità libiche, infatti, avrebbe sì evitato il naufragio ma non avrebbe scongiurato – anzi, avrebbe proprio concretato – il pericolo per i migranti di essere condotti in un porto «non sicuro».
Accanto a tali pronunce non sono mancati peraltro giudizi in cui le norme internazionali sul soccorso in mare non sono state considerate pertinenti a regolare la condotta di salvataggio e ingresso nelle acque territoriali; nemmeno per orientare l’interpretazione della fattispecie incriminatrice o delle scriminanti e riconoscere che la consegna dei naufraghi migranti alle autorità di uno Stato che non è in grado di offrire un «porto sicuro» integra un’offesa ingiusta ai diritti del naufrago migrante [75]
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4.1. Possibili soluzioni del conflitto con le norme incriminatrici interne al di fuori dello schema dell’art. 51 c.p.

A fronte dello scenario delineato non pare possibile valutare la rilevanza penale della condotta non autorizzata di soccorso e ingresso nel mare territoriale e nei porti nazionali ignorando le norme internazionali sul dovere di soccorso in mare, né quelle collegate poste a tutela dei diritti della persona del naufrago migrante. Le pronunce che ne negano la rilevanza omettono di considerare che lo Stato, tramite l’azione di tutte le sue autorità, è obbligato dalle norme internazionali ad assicurare il soccorso e la tutela dei naufraghi; e che tali norme esprimono valori della cui tutela il giudice è chiamato a farsi carico pur se confliggenti con quelli sottesi alle norme incriminatrici.
Resta da riflettere sul profilo di rilevanza di tali norme e sugli strumenti a disposizione del giudice per coordinarle con le norme incriminatrici interne. Come già mostrato dalle soluzioni giurisprudenziali fornite, le possibilità di interazione delle norme sul soccorso in mare con la fattispecie incriminatrice e le conseguenti modalità di soluzione sono molteplici e variano non solo a seconda della fattispecie integrata ma anche delle concrete modalità di realizzazione della vicenda.
Il ricorso all’art. 51 c.p. per scriminare la condotta di ingresso non autorizzato nel porto italiano in soccorso dei migranti non pare soluzione appropriata a tutte le ipotesi di conflitto tra fattispecie incriminatrici interne e norme internazionali sul soccorso; almeno non rispetto a quelle in cui il conflitto tra le norme internazionali in esame e la fattispecie penale si manifesti già sul piano astratto e fintantoché si {p. 278}dubiti che le norme internazionali sul soccorso soddisfino i desiderata della norma impositiva di una situazione giuridica di dovere in capo all’individuo.
Rispetto all’ipotesi di imputazione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina si può forse escludere in radice un conflitto con le norme internazionali sul soccorso in mare; o comunque, ove pure ritenuto sussistente, tale conflitto sembrerebbe manifestarsi già sul piano astratto e quindi necessiterebbe di essere risolto con strumenti diversi dall’art. 51 c.p.
Pare possibile infatti, se non doveroso alla luce delle norme internazionali e costituzionali, interpretare l’art. 12 t.u. immigrazione in modo da escludere la tipicità della condotta non autorizzata di trasporto nelle acque territoriali e di ingresso nel porto nazionale posta in essere con la finalità umanitaria di condurre i migranti in un porto sicuro dopo il salvataggio; ovviamente, sempreché non sussistano degli accordi collusivi con i trafficanti. La questione è controversa e la giurisprudenza, come visto, interrogandosi sull’applicazione delle scriminanti dell’adempimento del dovere o dello stato di necessità, sembra invece configurare le condotte di soccorso come condotte tipiche di favoreggiamento [76]
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Di contrario avviso molte voci in dottrina. Un orientamento, ad esempio, esclude che possa ritenersi illegale l’ingresso realizzato a seguito delle operazioni di soccorso dal momento che, finché le relative doverose procedure non si siano concluse, ivi compreso lo sbarco in un porto sicuro, gli individui condotti in Italia sarebbero secondo le norme internazionali ancora «naufraghi» da soccorrere, non «migranti» entrati illegalmente nel territorio [77]
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Note
[69] Cass. pen., sez. III, 16 gennaio 2020, n. 6626, cit.
[70] L’art. 385 c.p.p. vieta l’arresto o il fermo quando «appaia» – secondo un giudizio di «verosimile sussistenza» come definito dalla Cassazione nel caso Rackete – che il fatto sia stato «compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima ovvero in presenza di una causa di non punibilità». Sulle diverse opzioni interpretative del concetto di apparenza, cfr. C. Scaccianoce, art. 385 c.p.p., in A. Giarda, G. Spangher, Codice di procedura penale commentato, Milano, Giuffrè, 2017, pp. 843 ss.
[71] Cass. pen., sez. I, 23 aprile 2018, cit., nel filone giurisprudenziale sul riconoscimento della giurisdizione italiana nei confronti dei trafficanti pure nel caso in cui l’ingresso nel territorio non sia realizzato direttamente dalla condotta dei trafficanti – soliti abbandonare le imbarcazioni alla deriva in acque internazionali – bensì dall’attività dei soccorritori, sulla base della teoria dell’autoria mediata. Secondo la Corte, occorre «discernere tra l’attività, meritoria e salvifica, messa in essere da chi si muove nell’ambito segnato dall’art. 12, comma 2, d.lgs. n. 286 del 1998 (…), nella cornice fissata dall’obbligo di salvataggio in mare scolpito dal diritto consuetudinario internazionale e richiamato da molteplici Convenzioni (…), e l’attività di chi – consapevolmente concorrendo con i trafficanti di essere umani – agisce nel senso di agevolarne le condotte illecite e consentire la loro concreta perpetrazione».
[72] Cass. pen., sez. I, 8 aprile 2015, n. 20503, secondo cui sussiste la giurisdizione del giudice italiano sulla condotta dei trafficanti di trasporto e procurato ingresso illegale nel territorio dello Stato di cittadini extracomunitari qualora i migranti siano abbandonati in acque internazionali, su natanti inadeguati a raggiungere le coste italiane, allo scopo di provocare l’intervento dei soccorritori che li conducono nelle acque italiane, «poiché la condotta di questi ultimi, che operano sotto la copertura dello stato di necessità – espressamente richiamata nell’incipit del d.lgs. 286/1998 art. 12, comma 2 – è riconducibile alla figura dell’autore mediato di cui all’art. 54 c.p., comma 3». Nello stesso senso, Cass. 28 febbraio 2014, n. 14510, cit.
[73] Trib. Trapani, 3 giugno 2019, vos Thalassa, in www.penalecontemporaneo.it, 24 giugno 2019, con commento di L. Masera, La legittima difesa dei migranti e l’illegittimità dei respingimenti verso la Libia (caso vos Thalassa).
[74] Trib. Ragusa, 16 aprile 2018, n. 1182, sul caso Open Arms nell’ambito del giudizio cautelare reale sul sequestro della motonave utilizzata per il soccorso.
[75] Trib. Catania, 27 marzo 2018, n. 2474, sullo stesso caso su cui si è pronunciato in seguito Trib. Ragusa, 16 aprile 2018, cit., in ragione del difetto di giurisdizione. Secondo il gip di Catania, nel vagliare l’applicazione della scriminante dello stato di necessità «se, poi, l’approdo in un porto della Libia significhi la ripresa di una situazione di vita problematica, soprattutto per le condizioni precarie (abitative e alimentari) dei campi profughi di quel Paese, tale circostanza, sotto il profilo della scriminante in questione, contrariamente all’assunto degli inquisiti, non assume rilevanza alcuna, poiché si tratta di un evento che la legislazione italiana e quella internazionale non hanno preso in considerazione». Cfr. anche C. app. Palermo, 24 giugno 2020, n. 1525, in www.sistemapenale.it, 21 luglio 2020, con commento di L. Masera, I migranti che si oppongono al rimpatrio in Libia non possono invocare la legittima difesa: una decisione che mette in discussione il diritto al non refoulement, che ribalta la decisione del Trib. Trapani, 3 giugno 2019, cit. Il giudice palermitano di secondo grado, peraltro, preferisce non affrontare la questione della sussistenza di «un diritto al ricovero immediatamente tutelabile da parte del migrante soccorso in mare», limitandosi a porre nel dubbio la bontà di tale ipotesi ricostruttiva. Nell’esaminare i requisiti della legittima difesa, ne esclude l’applicabilità per difetto della «necessità» dell’offesa in quanto il naufragio che aveva determinato il salvataggio avrebbe costituito «una condizione di pericolo intenzionalmente causata dai trafficanti e dai migranti». Lasciando in disparte tale criticabile affermazione, l’erroneità della costruzione emerge dal fatto che il pericolo che aveva indotto i migranti a minacciare l’equipaggio del Vos Thalassa determinato a ricondurli in Libia non era rappresentato dal naufragio ma proprio dalle condizioni di vita in violazione dei diritti fondamentali che avrebbero patito una volta riportati nei «porti insicuri» libici.
[76] Si veda supra e, in particolare, il caso riguardante il sequestro della nave Iuventa (su cui gip Trapani, 2 agosto 2017, n. 816 e Cass. pen., sez. I, 23 aprile 2018, n. 56138, cit.).
[77] In questo senso C. Pitea e S. Zirulia, «Friends, not foes»: qualificazione penalistica delle attività delle ONG di soccorso in mare alla luce del diritto internazionale e tipicità della condotta, in «SIDIblog», 2019, n. 6, pp. 74-86.