Christoph Cornelissen, Gabriele D'Ottavio (a cura di)
La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/p1
Moritz Föllmer affronta un tema ancora poco esplorato dalla ricerca storica, eppure cruciale per la comprensione del nesso di relazione tra democrazia e modernità nell’esperienza weimariana – la tensione irrisolta tra le aspirazioni all’autonomia individuale e le spinte collettivistiche dell’epoca. Föllmer accentua la grande rilevanza che ebbero le aspirazioni all’autonomia individuale nella società tedesca del primo dopoguerra, sostenendo che esse si manifestarono con maggiore irruenza rispetto al passato, producendo tuttavia il più delle volte effetti contraddittori. Le ragioni profonde di questa spinta all’individualizzazione delle aspettative vengono ricondotte in parte ai processi di modernizzazione sociale e di liberalizzazione politica risalenti al XIX secolo, in parte alle conseguenze della cesura epocale segnata dall’esperienza storica della Prima guerra mondiale. In questo contesto viene ulteriormente sviluppato il tema tocquevilliano già richiamato nel contributo di Wirsching della democrazia come portatrice di una promessa di autodeterminazione individuale e delle sue intrinseche contraddizioni. Föllmer argomenta infatti che paradossalmente furono soprattutto le forze democratiche a incontrare le maggiori difficoltà a intercettare e soddisfare
{p. 22}le nuove istanze create dal nuovo assetto politico. Al tempo stesso l’autore introduce un ulteriore elemento di riflessione sostenendo che le spinte all’autonomia individuale non sempre si trovarono in contrasto con gli ideali collettivistici incarnati dai partiti antidemocratici. Il partito nazionalsocialista, ed è questa una delle tesi centrali avanzate da Föllmer, riuscì a inglobare il tema dell’individualizzazione delle aspettative all’interno della sua piattaforma ideologico-programmatica e a trarne grande beneficio in termini di consensi.
Kirsten Heinsohn si sofferma sul dibattito sulla parità di diritti delle donne che si sviluppò nella Germania weimariana. Al centro della sua analisi ci sono la Costituzione e le sue controversie legate alla sua interpretazione. L’autrice sottolinea la modernità di un testo costituzionale a suo giudizio idoneo per gettare i presupposti per un percorso di riforme e di cambiamento che tuttavia alla fine non trovò il consenso necessario per il suo compimento né nella maggioranza della classe politica rappresentata in Parlamento né nella società postbellica. Quest’ultima risultò infatti ancora fortemente ancorata ai modelli tradizionali dei ruoli di genere. La stessa Costituzione, sottolinea Heinsohn, presentava alcuni evidenti elementi di contraddizione: se da un lato furono introdotti alcuni riferimenti espliciti al principio della parità giuridica tra uomini e donne, a cominciare dal suffragio femminile, dall’altro lato la carta costituzionale riconfermò delle norme già vigenti soprattutto in ambito privatistico che minavano alla base tale principio. Questa contraddizione era il risultato di un’ambivalenza di fondo che si ritrova anche nelle posizioni espresse dalla maggioranza dei padri costituenti, i quali si schierarono a favore del riconoscimento dell’uguaglianza politica delle donne senza però costituzionalizzare la loro parità sociale e giuridica. Secondo Heinsohn, ancor più rilevanti furono gli ostacoli che il percorso di riforme e di cambiamento annunciato in ambito costituzionale incontrò nelle disposizioni politico-culturali dell’opinione pubblica e nel malessere sociale esasperato poi dallo scoppio della crisi economica. In questa battaglia politico-culturale per la parità di diritti delle donne finì per prevalere un orientamento conservatore, che si dimo{p. 23}strò refrattario a ogni ipotesi di sovvertimento delle gerarchie sociali definite dalla tradizione.
Christoph Cornelissen e Dirk van Laak allargano l’orizzonte dell’analisi, inquadrando l’esperienza storica di Weimar in un contesto più ampio e aperto alle sollecitazioni della storia globale e della storia transnazionale. I due autori propongono un approccio centrato sulle intersezioni e connessioni su scala planetaria, che consente di rivedere criticamente la vulgata storica secondo cui il periodo tra le due guerre sarebbe stato caratterizzato da una sostanziale «de-globalizzazione». Nel contesto della Repubblica di Weimar, argomentano Cornelissen e van Laak, il successo di questa vulgata va anzitutto messo in relazione con la «sindrome revisionista» che negli anni Venti e Trenta portò vari esponenti del mondo intellettuale e politico tedesco a esorcizzare il trauma della decolonizzazione subita dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale. In secondo luogo, i due autori indicano alcuni temi il cui studio dovrebbe consentire di de-provincializzare la comprensione storica della Repubblica di Weimar e di affrancarla da approcci e interpretazioni appiattiti sulla dimensione nazionale. In particolare, gli autori rivolgono la loro attenzione alle rappresentazioni coeve del nuovo ordine mondiale basate su una visione geopolitica planetaria intrinsecamente antagonistica, ai movimenti nazionalisti ispirati da pulsioni antiglobaliste e orientati a un revisionismo di fondo dell’ordine internazionale e, infine, al rilevante impatto sulla società tedesca e sui suoi modelli di percezione del mondo delle rivoluzioni infrastrutturali nel campo della mobilità e della comunicazione, dei consumi di massa e della mutata concezione di spazialità. Nel rapporto di tensione e nei vari cortocircuiti tra cosmopolitismo e fenomeni di regressione nazionalista è anche possibile rintracciare una tipica manifestazione della sopra richiamata «crisi della modernità classica» che era già stata teorizzata per il periodo weimariano e che negli ultimi anni è tornata di grande attualità nel dibattito sui cosiddetti «vincenti e perdenti della globalizzazione».
Vanessa Conze affronta da una prospettiva di storia delle idee il tema delle concezioni riguardanti l’Europa e il suo ordinamento che vennero elaborate negli anni della Repubblica di {p. 24}Weimar. L’approccio finora prevalente per affrontare questo tema, osserva Conze, è stato condizionato dalla tendenza a studiare le idee d’Europa degli anni Venti e dei primi anni Trenta principalmente come «antefatti» o «radici» del processo di unificazione europea avviato dopo il 1945. L’autrice si propone invece di illustrare la grande varietà di visioni del periodo weimariano per poi argomentare l’impossibilità di ricondurle ad un’unica matrice ideale, focalizzando l’attenzione soprattutto sulle idee che circolavano negli ambienti della borghesia e che sul piano politico-culturale erano accostabili al campo nazional-liberale e conservatore della società tedesca dell’epoca. La pluralità di movimenti e circoli che si fecero propugnatori di idee in tema di Europa offrono abbondanti evidenze empiriche che corroborano la validità dell’approccio proposto da Conze. Inoltre, l’autrice mostra come in questa fase prevalsero concezioni di un’Europa unita ispirate da sentimenti religiosi, posizioni anti-secolariste ed etnocentriche che, considerate a posteriori, appaiono inconciliabili con l’europeismo di ispirazione liberal-democratica divenuto dominante solo dopo la Seconda guerra mondiale. Nella maggior parte dei casi le diverse idee di Europa, che venivano associate a nozioni non interscambiabili come quelle di «Abendland», «Reich», «Paneuropa» e «Mitteleuropa», venivano declinate in chiave di contrapposizione sia all’internazionalismo di matrice bolscevica, sia alle tendenze alla massificazione provenienti dagli Stati Uniti, sia infine al modello costituzionale liberal-democratico.
Alessandro Cavalli si confronta con il tema dell’eredità problematica di Weimar, focalizzando l’attenzione sulla comunità epistemica dei sociologi tedeschi. L’autore propone una classificazione preliminare dei sociologi attivi in epoca weimariana in relazione alla posizione che essi assunsero successivamente nei confronti del nazionalsocialismo, distinguendo tra i fiancheggiatori del nuovo regime, i rifugiati nell’esilio interno e gli esiliati per ragioni razziali e/o politiche. La distinzione tra coloro che divennero più o meno esplicitamente apologeti del nazismo e gli esiliati, sostiene Cavalli, riflette una più generale diversità di atteggiamenti che i sociologi di lingua tedesca manifestarono nei confronti della modernità ancor {p. 25}prima della brusca interruzione dell’esperienza weimariana. I primi, qui considerati come degli anticipatori di tendenze culturali poi diventate prevalenti, erano schierati su posizioni di forte critica, se non di rigetto, nei confronti delle trasformazioni sociali prodotte dal capitalismo, dall’industrialismo, dal liberalismo, dal parlamentarismo e dal razionalismo e, in alcuni casi, contribuirono alla diffusione dell’antisemitismo. I secondi si erano invece mostrati sin da principio più ricettivi nei confronti della critica weberiana alla commistione tra lavoro di indagine scientifica e attività di intervento politico. Le differenti posizioni politiche, sostiene Cavalli, ebbero delle implicazioni anche sul modo in cui i principali esponenti della sociologia weimariana si confrontarono, da un lato, con alcuni problemi teorico-concettuali e metodologici connessi all’affermazione della disciplina, dall’altro con le intuizioni di Max Weber, il quale non fece in tempo a vedere la fine della repubblica, ma fu tra i pochi sociologi tedeschi che colsero anzitempo alcuni elementi di fragilità del nuovo ordinamento democratico.
Martin Sabrow esamina, infine, le caratteristiche e le principali evoluzioni della «cultura del ricordo» della prima repubblica tedesca, interrogandosi sulle ragioni della lunga rimozione dell’esperienza weimariana e della sua più recente riscoperta nel discorso ufficiale e nel dibattito pubblico e massmediale. Le ragioni di questo percorso, sostiene l’autore, vanno ricercate nelle complesse dinamiche dei processi di memorializzazione della storia tedesca: quindi nel ruolo della storiografia, nei condizionamenti politici e nel preponderante peso del presente nei meccanismi attraverso cui si struttura la memoria pubblica del passato tedesco. In particolare, Sabrow passa in rassegna le principali omissioni di una storiografia impegnata principalmente nello sforzo di comprendere e spiegare il fallimento della democrazia weimariana, per poi metterle in relazione sia con le esigenze politiche legate alla legittimazione delle due repubbliche tedesche nate nel contesto della Guerra fredda, sia con i processi di costruzione culturale di una memoria pubblica interamente costituita di eventi di segno negativo. Per Sabrow anche l’improvviso risveglio di interesse per Weimar {p. 26}va spiegato come il risultato del concatenarsi di una pluralità di fattori e di processi, tra i quali il potere di attrazione esercitato dalle ricorrenze e dagli anniversari tondi e soprattutto un più complessivo mutamento di prospettiva storica che sta portando a risignificare l’immagine storica della prima esperienza repubblicana sullo sfondo di un nuovo presente.
A cent’anni dalla sua nascita, la Repubblica di Weimar non può più essere considerata semplicemente come il «prius logico» del nazismo o come un intermezzo tra l’epoca guglielmina e il regime del Terzo Reich: la sua vicenda si colloca all’interno del lungo XX secolo ed è parte integrante della storia della democrazia e della modernità europea. In tal senso, la Repubblica di Weimar, come le altre democrazie in Europa, rappresentò il tentativo di realizzare dopo il 1918 una democrazia che fosse al contempo liberale e sociale. L’uguaglianza giuridica e politica, insieme alle nuove istituzioni dello Stato sociale, avrebbe dovuto garantire la più ampia partecipazione politica possibile di tutti i cittadini. È in questa prospettiva che dalla storia di Weimar si possono ricavare ancora oggi delle lezioni sullo sfondo delle molteplici crisi di quella che alcuni definiscono come «postmodernità» o «seconda modernità».
Note