Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c3

Capitolo terzoIl lavoro come mestiere

1. La professionalità quale attributo autentico del lavoro

Ideologia e identità del lavoro convergono e culminano nella più nobile e motivata delle sue rappresentazioni: quella del mestiere, della professione. Mentre la professione è l’abito borghese del lavoro intellettuale, il mestiere è il lavoro manuale vestito a festa, proprio come in quelle foto di epoca dove i gruppi di operaj posano con cappello, baffoni e gilè, orgogliosi della propria rispettabilità proletaria [1]
.
Sotto queste vesti, il lavoro ha subito una metamorfosi prodigiosa e si è visto restituita la propria dignità, a prescindere dalla circostanza che fosse salariato, dipendente. Il lavoro come mestiere, come professione, è risultato il più vicino al lavoro come vocazione: è ciò che tradizionalmente ha reso possibile l’adesione, l’immedesimazione. Nella peculiarità degli specialismi, ogni professione e mestiere aveva infatti in sé qualcosa di conchiuso, un sapore, quasi un pegno di lavoro indiviso [2]
. Ne erano espressione le separatezze corporative non meno della solidarietà di categoria.
E anche adesso che si fa sbiadito persino il ritratto della professione, non solo del mestiere, la massificazione stessa del lavoro compie il miracolo di far risaltare la professionalità come faccia positiva par excellence. Essa simboleggia ancora la possibilità dello «strumento generale» [3]
di non farsi ridurre ad attività astratta, la sua capacità di trasformarsi in prodotti concreti con la cooperazione del lavoro sociale.
La professionalità resta infatti l’attributo autentico del lavoro. È la professionalità a costituire il canale {p. 98}giusto, la vera molla e il rivelatore inconfondibile dell’autorealizzazione di sé nel lavoro, che è poi tutt’uno col sentirsi classe produttiva di beni: di beni assai più che di merci. E siccome vige qui, oggi, un regime di proprietà privata dei mezzi di produzione, siccome è bello nonché giusto sperare e credere e volere che fabbricando domani beni e non più valori — id est plusvalore — l’umanità e la società mangino e stiano insieme lo stesso, anzi meglio, la professionalità diventa premessa di trionfo per il valore d’uso del lavoro medesimo, contro la sua reificazione.
Questa visione del lavoro che nella professionalità può trovare usbergo contro la riduzione ad astratta attività e merce, si basa su una equivalenza estremamente semplice e persuasiva: mercificazione = degradazione. È la trasformazione in merce, operata dal capitalismo, che ha degradato il lavoro. E l’ha degradato non tanto a causa di una sua alienazione originaria, ma per la materiale spoliazione di qualcosa che storicamente, prima, doveva pure possedere [4]
. Questo qualcosa che da un certo momento è stato sottratto al lavoro e al lavoratore, provocando una svalutazione dell’uno e infliggendo una perdita all’altro, è la loro professionalità. Su questo punto non ci sono dubbi, le opinioni concordano in maniera davvero confortante. È l’unica forma di egemonia specifica che P. J. Proudhon continui ad esercitare sulla destra come sulla sinistra del movimento operaio, e al di là di esso [5]
.
Solamente pochi nichilisti hanno l’improntitudine di spregiare quel bagaglio che si vien perdendo al punto da apprezzare tale perdita come una conquista, magari in nome dell’operaio-massa [6]
. «Il lavoro in frantumi fa la classe unita», afferma il giovane operaismo italiano degli anni ’60. Il cozzo contro la tradizione è violento, provocatorio. «In gran maggioranza, gli operai non difendono più il mestiere come fecero gli artigiani: sarebbe come se i capitalisti difendessero la libera concorrenza. Si è “elevato l’apporto professionale del lavoratore” solo nel senso che il lavoro vivo conserva per sé i brandelli di professione non incamerati dal lavoro mate{p. 99}rializzato. I contenuti professionali diventano omogenei, la loro gamma si restringe: c’è sempre meno di individuale nella forza-lavoro, sempre più di universale. (Per questo gli idioti cianciano di lavoro disumano, rimpiangendo chissà quali epoche di lavoro umano [7]
. È un ribaltamento un po’ dogmatico e quasi compiaciuto, in cui il concetto marxiano di lavoro astratto acquista evidenza sociologica e portata apocalittica: «Soltanto col lavoro anonimo si realizza la produzione di massa. E quando la qualifica singola è nulla e quella collettiva è massima, si può dire che soltanto allora — cioè ora — nasce una vera classe operaia» [8]
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Ma quella della sinistra operaista dei primi anni ’60 è una posizione esterna. (Estremistica, si stava già cominciando a dire, sebbene preludesse a una linea critica feconda nel dibattito sindacale sulle qualifiche) [9]
. Di contro ai nichilisti, si ergono i crociati della professionalità. Sono «due opposte posizioni estreme», che il fatale biennio 1968-69 esaspera e proietta fuori dalle riviste: gli uni considerano «l’estraneità all’organizzazione del lavoro la base di partenza necessaria per far sviluppare una coscienza politica antagonistica»; gli altri si propongono invece di «lottare per riprofessionalizzare l’operaio comune, seguendo il modello classico di rivoluzione» [10]
.
Per tutti gli altri vi è la deprecazione più corale per il fatto che il lavoro salariato si venga inesorabilmente degradando. Nessuno pare seriamente intenzionato a chiedersi quanti operai avevano un mestiere un secolo fa, o cinquant’anni fa; e quale professionalità fosse la loro. Sembra si viva solo di rimpianti: l’aria pulita, i giovani d’una volta, le inchieste di Philo Vance, il «Cavaliere della Rosa», il tornitore-Universal. E mentre risuona ancora l’eco della Quadragesimo anno — «La materia esce nobilitata dall’officina, mentre gli uomini vi si corrompono e vi si degradano»: A.D. 1931 — la professionalità acquista il sapore di una madeleinette.
E vi è altresì piena concordanza su quel cruciale turning point che fa precipitare la storia del lavoro separando due epoche del capitalismo e della civiltà.{p. 100}
Cioè sul passaggio segnato dal taylorismo. Pochissimi se la prendono con il fordismo: così tanto ribollente è il sentimento di indignazione, che la causa prima appare quasi come l’unica causa. E di Frederick Winslow, il colpevole, non si parla che con esecrazione e disprezzo estremi.
Io che certo non lo amo, come non amo von Clausewitz, continuo a stupirmi per l’odio che questo personaggio ha saputo tirarsi addosso, fino ad avere un posto — se va avanti così — nella storia della malvagità umana. Per la verità mi meravigliano anche la conoscenza sommaria e il pregiudizio culturale, il più delle volte accompagnati da citazioni sovrabbondanti e da commenti animosi [11]
, che rivelano oltretutto una scoperta tardiva del tema «organizzazione del lavoro», e in particolare del suo demone, l’ingegner Taylor.
Sotto il profilo storiografico, questo orientamento interpretativo dà luogo ad una vistosa torsione. Esso sorvola infatti sulla realtà concreta del lavoro pre-tayloristico, e sui suoi contenuti professionali. E lo fa nel modo più singolare: trasfigurando quel che ignora. Così, parrebbe che dopo gli eccessi denunciati con tanto giusto vigore da Engels, la classe operaia abbia incontrato nella sua storia modalità lavorative via via più qualificate, fino al distruttivo e regressivo impatto con i mezzi scientifici — altra versione: ascientifici — impiegati dal fondatore dei Principies. Sembra cioè che verso la fine dell’800, superati ovunque gli orrori dell’avvenuto decollo industriale, la «grande trasformazione» abbia comportato un accumulo tale di sedimenti professionali da rendere il proletariato, in buona parte, padrone del proprio mestiere, un po’ meno sfruttato, un po’ più tutelato, e già artefice, produttore. Questa all’incirca è la visione che ci viene trasmessa dall’iconografia sulle ormai consolidate unioni di mestiere; dalla tipologia delle figure operaie emergenti dal macchinismo; dall’apoteosi del Lavoro celebrata nell’Esposizione universale del 1911.
Ma questa visione corrisponde in effetti al punto di vista dell’aristocrazia operaia sulla storia sociale del la{p. 101}voro [12]
. Solo in quest’ottica è possibile immaginare un’ascesa abbastanza generalizzata della classe operaia, che dall’abbrutimento fisico del lavoro nella manifattura si sarebbe risollevata alla fine del secolo grazie alle doti tecniche richieste dalla grande industria. Solo in quest’ottica è possibile immaginare il sopravvento del taylorismo come un’aggressione proditoria al lavoro, esiziale per quella diffusa professionalità che lo sviluppo industriale avrebbe ormai richiesto e fornito su scala allargata. Chi ha studiato in profondità quel passaggio non conferma questa immagine: E. Hobsbawm sottolinea anzi la ristretta incidenza degli operai di mestiere nella composizione di classe; e S. Merli parla di una coscienza proletaria che è matura nonostante il livello non elevato di professionalità [13]
.
La lettura che dà Gramsci del passaggio taylor-fordiano è più complessa ed «epocale». Egli infatti vi vede «anche il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare, con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo»: cioè l’operaio della grande produzione di massa del XX secolo [14]
. Questa è la novità che Gramsci coglie nel fenomeno americano: «Si tratta solo della fase più recente di un lungo processo che si è iniziato col nascere dello stesso industrialismo, fase che è solo più intensa delle precedenti e si manifesta in forme più brutali, ma che essa pure verrà superata con la creazione di un nuovo nesso psico-fisico di un tipo differente da quelli precedenti e indubbiamente di un tipo superiore» [15]
. Stante il presentimento di una siffatta mutazione, quasi antropologica, nel lavoro umano e nella classe operaia, Gramsci non versa troppe lacrime sul fatto che il taylor-fordismo tenda a «spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia e dell’iniziativa del lavoratore». Maggior rimpianto mostra semmai per quella «umanità e spiritualità [che] era massima dell’artigiano, nel demiurgo, quando la personalità del lavoratore si rifletteva tutta nell’oggetto creato», e contro la quale «lotta il
{p. 102}nuovo industrialismo» [16]
della società americana (che vi era oltretutto più estranea di ogni altra): ma di fronte alla portata storica del nuovo, Gramsci non si attarda nel lamento per il mestiere perduto.
Note
[1] La forte identificazione dell’operaio qualificato con il mestiere «gli conferisce un’identità personale e un ruolo professionale rispettabili sia sul lavoro che nella comunità»: R. Blauner, Alienazione e libertà, Milano, Franco Angeli, 1971, p. 97.
[2] «Ogni mestiere è un’arte», scriveva H. De Man in quel capolavoro di interpretazione sociologica, così vicina e consentanea al movimento operaio, che è La gioia del lavoro, Bari, Laterza, 1931, p. 183. «L’unità di lavoro era l’uomo in quanto creatura intelligente», affermò dal canto suo W. Morris trasfigurando con nostalgia l’evo delle corporazioni: cfr. Come potremmo vivere, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 78.
[3] Cfr. C. Napoleoni, Sfruttamento, alienazione e capitalismo, «La rivista trimestrale», n. 7-8, settembre-dicembre 1963, p. 402. In questa definizione ci dovrebbe essere, a rigore, quel concetto di lavoro non alienato che nel saggio si rimprovera alla cultura di non avere ancora elaborato: vedi alle pp. 428-9.
[4] Non che vi sia soverchia chiarezza in proposito. Secondo H. Marcuse, ad esempio, il lavoro «viene così privato della positività a cui esso deve il suo compimento» in quanto «prassi specifica dell’esistenza umana nel mondo»: si veda il saggio del 1933, Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica, ora in Cultura e società, Torino, Einaudi, 1969, pp. 185 e 153.
[5] Il testo che più ha influito è probabilmente il sesto studio, «Il lavoro», de La giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa, Torino, UTET, 1968, opera ormai matura che gli valse una condanna.
[6] I testi d’obbligo sono ovviamente quelli di R. Alquati, che coprono il periodo 1961-66, ora raccolti in Sulla FIAT e altri scritti, Milano, Feltrinelli, 1975.
[7] L. R. (Romagnani), La qualifica ci divide, in «Classe operaia», n. 2, febbraio 1964. Un esempio: «Senza correre il rischio di cadere nell’enfasi, si può affermare che con l’organizzazione tayloristica il lavoro scende su di un piano inferiore rispetto a quello animale», G. Refrigeri, Lavorare domani, Roma, CEDIS, 1978, p. 39.
[8] L. R., La qualifica ci divide, cit.
[9] Cfr. B. Manghi, G. P. Cella, Analisi critica del sistema di qualifiche, in «Dibattito sindacale», n. 3, maggio-agosto 1970, ora in G. P. Cella, Divisione del lavoro e iniziativa operaia, Bari, De Donato, 1972, pp. 76 ss.; M. Regini, E. Reyneri, Lotte operaie e organizzazione del lavoro, Padova, Marsilio, 1971, pp. 71 ss. Le varie posizioni in Le qualifiche, in «Quaderni di Rassegna sindacale», n. 30, maggio-giugno 1971.
[10] G. P. Cella, E. Reyneri, Il contributo della ricerca alla analisi della composizione della classe operaia italiana, in L’operaio massa nello sviluppo capitalistico, in «Classe», n. 8, marzo 1974, p. 45.
[11] Dispiace dover fare questa constatazione anche per autori seri come H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Torino, Einaudi, 1978, e A. Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale, Milano, Feltrinelli, 1977.
[12] Questa opinione viene affacciata anche da giovani studiosi italiani: D. La Valle, Le origini della classe operaia alla FIAT, Roma, Coines, 1976; e G. Barile, R. Levrero, L’operaio massa nello sviluppo capitalistico, nell’omonimo fascicolo di «Classe», cit. (un saggio cui non giova il complesso di amore-odio nei confronti dell’operaismo). Cfr., per credere, la recente traduzione italiana di S. Gompers, Settant’anni della mia vita, Milano, Feltrinelli, 1979.
[13] E. J. Hobsbawm, L’aristocrazia operaia nella Gran Bretagna del XIX secolo, in Studi di storia del movimento operaio, Torino, Einaudi, 1972, pp. 317 ss.; S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, Firenze, La Nuova Italia, 1972, in part. il cap. V, vol. I, pp. 459 ss. Per gli Stati Uniti, cfr. G. Bock, P. Carpignano, B. Ramirez, La formazione dell’operaio-massa negli USA 1898-1922, Milano, Feltrinelli, 1976.
[14] A. Gramsci, Americanismo e fordismo, in Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Torino, Einaudi, 1949, p. 330.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem, p. 331.