Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c1

Capitolo primoLe origini della legislazione sul lavoro delle donne in Italia

1. La legge 11 febbraio 1886 sul lavoro dei fanciulli: esclusione delle donne dalla protezione legale.

Il primo esempio italiano di legislazione sociale [1]
‒ intesa questa come intervento dello stato nella contrattazione privata e nella pratica dei rapporti fra imprenditori e operai ‒ è la legge 11 febbraio 1886 sul lavoro dei fanciulli [2]
. Come si vedrà più avanti, si tratta di una legge importante anche dal nostro punto di vista: la mancata previsione di limiti allo sfruttamento delle donne (limiti progressivamente espunti, fino all’eliminazione, dai progetti approvati in parlamento) e, insieme, l’esemplare vicenda dell’approvazione di questa legge, sono il necessario punto di partenza per ogni indagine che abbia ad oggetto l’intervento legislativo in materia di occupazione femminile.
La legge del 1886 (integrata dal regolamento di attuazione) introduceva il divieto di utilizzare il lavoro dei minori di nove anni in opifici, cave e miniere; limitava a otto ore giornaliere l’orario di lavoro per i minori di dodici anni e a sei ore il lavoro notturno dei fanciulli dai dodici ai quindici anni; vietava l’impiego dei minori di quindici anni nei lavori pericolosi e insalubri. Questa legge, in cui praticamente doveva esaurirsi (fino alla fine del secolo) tutta la legislazione sociale italiana, era certamente «la plus pauvre, la plus incomplète, la plus défecteuse» delle leggi europee [3]
. In effetti, la legge del 1886 taceva sul lavoro festivo dei fanciulli (vietato dalla legge germanica del 1869 e dalla legge danese del 1873; limitato dalla legge francese del 1874 e dalla legge federale svizzera del 1877); fissava a nove anni l’età minima di ammissione al lavoro (mentre il limite era di 14 anni in Svizzera; di 12 anni in Germania e in Scozia; di 10 anni nell’Au{p. 12}stria-Ungheria, in Danimarca, in Spagna e in Francia, ma qui solo come eccezione al generale limite dei dodici anni); proibiva il lavoro notturno solo per i minori di dodici anni (quando già il lavoro notturno era proibito per i fanciulli e limitato per gli adolescenti dalle leggi vigenti in altri paesi europei); non regolava affatto il lavoro delle donne (la cui limitazione ‒ quanto alla durata massima dell’orario, al lavoro notturno, al periodo di astensione dal lavoro prima e dopo il parto ‒ era già prevista dai Factory Acts inglesi del 1860 e del 1874, dalla legge francese del 1874 e dalla legge federale svizzera del 1877) [4]
.
Già modesta nei contenuti, la legge italiana sul lavoro dei fanciulli ed il relativo regolamento [5]
  prevedevano, inoltre, numerose possibilità di eccezioni e deroghe ‒ per «necessità tecniche» [6]
‒ ai pochi limiti imposti allo sfruttamento dei fanciulli. La stessa nozione di «opificio» (stabilimento con motore meccanico o fuoco continuo o con almeno dieci operai) sottraeva inoltre alla disciplina legale non solo alcune delle industrie in cui il lavoro (specie dei minori) era più faticoso e pericoloso, ma soprattutto i laboratori e il lavoro a domicilio: cioè tutte quelle piccole industrie «grette, gelose, stazionarie, ostili a qualsiasi riforma, povere di mezzi, di lumi e sempre di buon volere, che sfuggono di necessità all’occhio vigile del governo, né offrono alcuna di quelle guarentigie che sogliono invece presentare gli stabilimenti organizzati su un’ampia scala» [7]
.
Quanto alle industrie in cui la legge avrebbe dovuto essere applicata, la violazione (anche per omessa denuncia dell’impiego dei fanciulli) era frequente; non era infrequente neppure l’elusione, essendo invalso tra gli industriali l’uso di decentrare gli stabilimenti in parti separate con meno di dieci operai [8]
.
Le violazioni dei pochi limiti allo sfruttamento dei fanciulli introdotti dalla legge del 1886 erano rese più agevoli dalla mancata istituzione del corpo speciale di ispettori delle miniere e degli stabilimenti (ai quali, a norma dell’art. 5, avrebbe dovuto essere affidata la vigilanza sull’applicazione della legge). Questo risultato era un frutto delle pressioni degli industriali, che avversavano da sempre le norme sulla vi{p. 13}gilanza per l’applicazione della legge; in esse, gli industriali vedevano «un’illegittima interferenza e intrusione dell’autorità nella libertà di lavoro e di conduzione dell’impresa, quando non accusavano l’intervento degli ispettori di violazione di domicilio e respingevano come avvilente e ingiuriosa qualsiasi sanzione nei loro riguardi» [9]
.
Quanto al governo, non aveva ritenuto di dover dare ascolto all’opinione di quelli che ragionevolmente pensavano non essere la fabbrica un domicilio privato, ma «una agglomerazione di persone raccolte a scopo di lavoro, e come tale soggetta all’ispezione di chi è incaricato di sopravvedere alla salute e alla sicurezza pubblica» [10]
. Neppure aveva ritenuto (il governo) di seguire l’esempio fornito dalla legislazione di altri paesi europei, dove l’istituzione degli ispettori era stata suggerita dalla considerazione che all’inesecuzione della legge poteva porsi rimedio solo mediante «inspecteurs spéciaux, rétribués par l’Etat [...] et qui seraient chargés de veiller à la stricte exécution de cette loi, qui émporte tant à l’avenir et à la prospérité des populations industrielles» [11]
.
La povertà dei limiti posti allo sfruttamento dei fanciulli, e ancor più la debolezza dell’apparato sanzionatorio, dovevano determinare la pratica inefficienza della legge del 1886. Come infatti risultò dalla relazione del ministro Miceli (febbraio 1890), e dalla successiva relazione Lacava alla camera (febbraio 1893), e come peraltro è provato dalla assenza pressoché totale di decisioni dei giudici penali, l’applicazione della legge sul lavoro dei fanciulli era stata praticamente nulla. Le ispezioni (svolte dagli ispettori degli stabilimenti istituiti nel 1879 in numero di due, portati quindi a tre, e dal corpo reale delle miniere) erano state scarsissime, e gli ispettori, conformandosi alle direttive ministeriali, si erano comunque limitati ad «ammonire» i trasgressori [12]
.
La legge del 1886 ed il regolamento, tardivi, inefficaci e privi di pratica applicazione, erano il frutto di un iter parlamentare lunghissimo; «non sentiti né approvati dal ceto operaio ‒ ha scritto Giulio Monteleone [13]
‒ divennero oggetto di lunghe polemiche ed estenuanti diatribe in parlamento, nelle commissioni, nel consiglio dell’industria e del commercio, occasione di accademici dibattiti, di esibizioni di generi{p. 14}co umanitarismo o, all’opposto, di lamentele e denunce di catastrofici danni all’industria».
Sul processo di formazione della legge (durato, solo in parlamento, sette anni) aveva largamente pesato l’ostilità degli industriali che, convertiti da tempo al protezionismo [14]
, si opponevano però ad ogni (altra) interferenza dello stato nei rapporti economici, in nome della «libertà di lavoro», intesa come libertà di sfruttamento della manodopera [15]
.
Sulla redazione definitiva del testo della legge (progressivamente svuotata di ogni contenuto sociale e umanitario [16]
), influì il «generale riflusso del riformismo sociale dei moderati» i quali, abbandonato lo slancio filantropico che aveva ispirato il programma di legislazione sociale presentato dal ministro Berti nel 1882 [17]
, apparivano ormai «irretiti nel trasformismo depretisiano» ed impegnati nella difesa di interessi industriali sempre più forti ed influenti [18]
.
Il voto finale sulla legge mostrò anche l’atteggiamento di stanchezza e rassegnazione della sinistra, convinta che non si potesse ottenere niente di meglio senza correre il rischio di vedere naufragare definitivamente anche quel modesto progetto [19]
.
Sull’esigenza di varare una legislazione sociale, sentita anche a livello governativo [20]
, e messa in grande evidenza da tutti gli intellettuali democratici che si erano attivati per risolvere la «questione sociale», erano prevalsi dunque gli interessi industriali. Che questi interessi dovessero essere complessivamente contrari ad ogni intervento legislativo diretto a limitare l’uso indiscriminato della forza lavoro lo si inferisce anche da esplicite dichiarazioni [21]
, delle quali resta ampia traccia nelle inchieste ministeriali del 1877 e del 1879, che precedettero la presentazione in Parlamento dei disegni di legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli [22]
. Gli industriali, assertori da sempre delle «necessità» del lavoro dei fanciulli, rispondevano alle accuse di avidità e spietatezza mossegli da tutti quanti avevano avuto l’occasione o l’incarico di visitare le manifatture [23]
, sostenendo che il lavoro infantile era leggero, quasi un gioco fatto di sola attenzione e non di fatica, e comunque un lavoro igienico e morale, perché toglieva i fanciulli dalla strada e da una condizione familiare miserabile.{p. 15}
Poco faticoso il lavoro di destrezza dei bambini, vispe, sane e prosperose le filatrici, salutare per lo sviluppo la «ginnastica» in cui consistevano le mansioni delle donne e dei fanciulli: questa la descrizione che gli industriali fornivano delle condizioni di lavoro nelle fabbriche.
Al di sotto delle rappresentazioni di comodo, stavano le particolari condizioni di arretratezza [24]
dell’industria italiana nella quale, all’espansione degli stabilimenti di media e grande dimensione, avvenuta nel nord del paese dopo l’unità d’Italia, aveva corrisposto un aumento in assoluto del numero dei fanciulli utilizzati nel lavoro di fabbrica, ed un aumento della quota dei fanciulli nel rapporto col totale della manodopera occupata. La progressiva sostituzione della fabbrica alla manifattura aveva esteso un modo di produzione basato essenzialmente sullo sfruttamento della forza lavoro infantile e femminile: l’elemento decisivo dello sviluppo dei primi grossi nuclei di industrializzazione nel Piemonte e nella Lombardia ‒ cioè appunto lo sfruttamento senza limiti (biologici, economici, giuridici) della forza lavoro occupata ‒ si era riprodotto, con l’estendersi dell’industrializzazione, in tutte le zone industriali italiane.
Certo, se è vero che primo effetto dell’uso capitalistico delle macchine è quello di accaparrarsi il lavoro delle donne e dei bambini non come lavoro accessorio, bensì come lavoro sostitutivo di quello dei maschi adulti, i grossi industriali non aveva tardato a capire che la speculazione sui minori e sulle donne era una delle cause, e non ultime, della capacità di resistenza sul mercato dei piccoli produttori e della concorrenza che questi potevano fare alle macchine. Essi avevano capito ciò al punto di «fingere di trasformarsi in umanitari e proporre una regolamentazione che togliesse al piccolo industriale quest’ultima trincea di resistenza» [25]
. La logica della concentrazione di capitale avrebbe potuto favorire, come era avvenuto in altri paesi (specialmente in Inghilterra, fra il 1802 e il 1874) il sorgere di una legislazione sulle fabbriche. Lo sviluppo industriale italiano doveva però compiersi in una fase particolarmente difficile a livello internazionale: la crisi del 1873, la lunga depressione che ne segui, durando fino al 1896. L’unico vantaggio che l’industria italiana ‒
{p. 16}tecnologicamente arretrata ‒ aveva rispetto alla concorrenza estera era la possibilità di sfruttare illimitatamente (in assenza di legislazione sociale) la forza lavoro. È noto, del resto, che le maggiori industrie italiane (soprattutto le tessili [26]
che più largamente usavano il lavoro delle donne e dei fanciulli) fronteggiavano la concorrenza senza ricorrere al rinnovamento dei macchinari (reso difficile dallo scarso afflusso di capitali all’industria e dall’alto costo dei macchinari e del combustibile), ma tenendo bassi i salari. Il basso costo della manodopera rappresentava l’unico fattore di stabilità per un’industria costretta ad operare in un mercato non garantito contro le merci straniere [27]
.
Note
[1] Prima del 1886 erano state emanate solo: la legge 11 dicembre 1873 sull’impiego dei fanciulli nelle professioni girovaghe; la legge 11 luglio 1883, che istituiva la cassa nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Per i fanciulli, il parlamento subalpino aveva provveduto con la legge 20 novembre 1859, n. 3755, che vietava l’adibizione dei minori di dieci anni nel lavoro sotterraneo nelle miniere. Queste leggi erano state accolte con benevolenza dalla classe dirigente perché, senza imporre sacrifici agli industriali, consentivano di appagare i buoni sentimenti filantropici e placare i timori per la questione sociale (G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano. La legge sul lavoro dei fanciulli, in «Movimento operaio e socialista», 1974, n. 4, p. 263). Persisteva invece la resistenza a provvedimenti che regolassero il lavoro nelle fabbriche, nel duplice aspetto dello sfruttamento della manodopera (specie donne e fanciulli) e della responsabilità degli imprenditori per gli infortuni sul lavoro. Cfr. S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano: 1880-1900, Firenze, 1972, vol. 1, p. 225.
[2]Con l’unità d’Italia erano state abrogate tutte le disposizioni sul lavoro vigenti negli stati preunitari. Così, per quanto specificamente riguarda il lavoro dei fanciulli ‒ oggetto in tutta Europa dei primi interventi della legislazione sociale ‒ era stata abrogata l’ordinanza vicereale 10 novembre 1843, vigente nelle province del Lombardo-Veneto, che stabiliva in 10 ore giornaliere l’orario massimo di lavoro per i fanciulli al di sotto dei 12 anni e vietava per essi il lavoro notturno. Ma l’ordinanza, occorre ricordarlo, era sempre rimasta lettera morta, «sia per incuria, sia per indifferenza di chi avrebbe dovuto curarne l’applicazione»: così S. Bonomi, Sul lavoro dei fanciulli negli opifìci: proposte presentate al consiglio provinciale di sanità di Como nella seduta del 21 giugno 1872, in «Annali universali di medicina», 1872. p 331. Dalla lettura delle relazioni degli studiosi dell’epoca dedicate al problema dell’occupazione dei fanciulli nelle fabbriche (a partire dalla famosa dissertazione del conte C. I. Petitti di Roreto, Sul lavoro dei fanciulli nelle manifatture, Torino, 1841, ripubblicata in C. I. Petitti di Roreto, Opere scelte, a cura di G. M. Bravo, Torino, 1969, vol. I, pp. 596-691) si apprende che, con l’unità d’Italia, niente era cambiato; solo che il fenomeno dello sfruttamento dei bambini e delle donne si era aggravato, agevolato anche dall’assenza di qualsiasi limitazione legale. Al lavoro dei fanciulli nel periodo 1840-1886 ho dedicato un saggio in: M. V. Ballestrero e R. Levrero, Genocidio perfetto. Industrializzazione e forza lavoro nel lecchese 1840- 1870, cit., al quale rinvio per ulteriori informazioni, anche bibliografiche; nel vol. sono pubblicate le relazioni di G. Sacchi, S. Bonomi, A. Errerà, cit. infra.
[3] S. Nitti, cit. da G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano, cit., p. 275. Sulla legge del 1886 cfr. anche M. L. Zavattaro, La disciplina giuridica del lavoro femminile durante gli ultimi cento anni, in Società Umanitaria, L’emancipazione femminile in Italia. Un secolo di discussioni 1861-1961, Firenze, 1963, pp. 136 seg.
[4] Ampi ragguagli sulle leggi che in altri paesi europei regolavano il lavoro delle donne e dei fanciulli sono contenuti nella relazione di A. Errera, Inchiesta sulle condizioni degli operai nelle fabbriche, in «Archivio di statistica», 1879, pp. 113 seg., ma specialmente nei numerosi scritti che L. Luzzatti, il più autorevole fautore di una legislazione sociale modellata sulla legislazione inglese, dedicò al problema della disciplina legale del lavoro dei fanciulli (L. Luzzatti, Opere, IV, L’ordine sociale, Bologna, 1952, pp. 699 seg., 707 seg., 711 seg., 731 seg.). In Italia, la questione del lavoro femminile divenne oggetto di inchiesta e proposte di disciplina legale solo più tardi, rispetto alla questione del lavoro infantile, di cui si preoccupavano gli studiosi (statistici, medici, economisti) già nella prima metà del secolo scorso (cfr. G. C. Marino, La formazione dello spirito borghese in Italia, Firenze, 1974, pp. 377 seg.). Si debbono a questi studiosi le prime, circostanziate denunce dell’inumano trattamento cui erano sottoposti i fanciulli operai, e le prime richieste di provvedimenti diretti a «tutelare l’infanzia e la puerizia dai pericoli fisici e morali che uno sbrigliato industrialismo le reca con sempre crescente pericolo per l’avvenire»: così G. Sacchi, Sullo stato dei fanciulli operai nelle manifatture, in «Annali universali di statistica», 1843, p. 238, riproponendo, per il Lombardo-Veneto, le conclusioni cui era pervenuto Petitti nella sua inchiesta sul lavoro dei fanciulli negli stati di S. M. Sarda. Lo stesso Sacchi premetteva alla sua inchiesta (dedicata alla Lombardia, e in particolare al distretto di Lecco, la «Manchester» italiana) l’osservazione, già di Petitti, che «la fisica e morale degradazione dei fanciulli occupati nelle manifatture istituite nei varj Stati d’Italia» era un fatto ancora nuovo per questi paesi. Ma dimostrava (con calcoli «moderatissimi», e con dovizia di particolari) quanto il malanno, seppure nuovo, fosse esteso: risultava infatti che nei grandi opifici delle province lombarde erano occupati almeno 37.800 fanciulli tra i sei e i dodici anni, che lavoravano per oltre dodici ore al giorno nelle filature di seta, cotone, lino e lana, nelle officine metallurgiche, nelle cartiere, nelle tintorie, nelle fonderie. E per capire quale portata avesse il fenomeno denunciato, descriveva dettagliatamente le condizioni dei fanciulli operai: dall’orario di lavoro (14-16 ore al giorno d’estate, 12 al giorno in media per il resto dell’anno), alle malattie (polmonari, scrofola, rachitide) «che suggono una morte immatura»; all’indole del lavoro, tale da «rendere un fanciullo macchina e peggio che macchina»; «fate che una ragazzetta frequenti il filatojo per un pajo d’anni ‒ scriveva {op. cit. p. 243) ‒ e ne avrete un imbecille».
[5] Sulla formazione del regolamento, v. ancora G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano, cit., pp. 271 seg.
[6] Afferma S. Merli, Proletariato di fabbrica, I, cit., p. 225, che il ricorso all’illegalità non era necessario, almeno per i grossi industriali: «diramata la legge, su pressione dei padroni, circolari ai prefetti contemplavano già una serie di deroghe».
[7] Cosí S. Bonomi, Sul lavoro dei fanciulli negli opifici, cit., p. 341; l’a. (nel 1872, data di pubblicazione della relazione) riteneva necessario che la protezione legale del lavoro dei fanciulli non fosse limitata ai grandi opifici, ma si estendesse a «tutti i lavoranti indistintamente: l’esecuzione della legge potrà trarre con sé delle eccezioni, la legge non deve punto riconoscerne e ancor meno crearne».
[8] L’esclusione degli opifici piccoli e piccolissimi dall’applicazione della legge sul lavoro dei fanciulli aveva notevole rilevanza pratica. Risulta infatti dall’inchiesta condotta da A. Errera (e pubblicata nel 1879: op. cit.) che anche in Lombardia, dove avevano sede gli stabilimenti industriali di maggiore dimensione, era grandissima la diffusione di piccolissimi opifici e del lavoro a domicilio (segnatamente per la filatura del cotone). L’a. descriveva così le condizioni di lavoro: «si lavora in camere spesso troppo anguste e scarse di luce, umide spessissimo. Uomini e donne, fanciulli d’ambo i sessi si trovano uniti al lavoro in uno stesso locale. Tutto qui attesta che l’industria vi è condotta di solito con mezzi scarsi, capitali insufficienti, poca conoscenza dell’arte esercitata. Gli effetti ne sono risentiti anche dagli operai che qui lavorano. Nulla di quei benefici economici e morali che son frutto di benevoli rapporti tra padroni e operai. I fanciulli sono aggravati di lavoro, male sorvegliati e peggio corretti nelle loro mancanze» (op. cit., pp. 138-139). E aggiungeva, a proposito del lavoro a domicilio (pp. 140-141): «gli operai, fra cui un buon numero di donne, si recano dai vari negozianti a prendere il filato, per riconsegnare la pezza di solito al cader della settimana. Certamente che il beneficio che ritraggono tali operai non è un gran che lauto, ma in compenso hanno essi il bene di restare in seno alla famiglia [...]. C’è però un grave difetto [...] cioè che i genitori, o per bisogno, o per avidità di guadagno, sottopongono ben di spesso troppo precocemente i loro figli ai pesanti lavori del telaio».
[9] G. Monteleone, op. cit., p. 261. Ad es., il sen. Alessandro Rossi, laniere di Schio, politico e strenuo oppositore della legislazione sociale, riteneva che, se si fosse istituito un ispettorato sulle fabbriche, secondo il sistema inglese, francese o svizzero, si sarebbero avuti «ispettori continuamente tentati di armarsi di fiscalità e di arbitrio, coprendosi di pretesti di popolarità per cui farsi credere necessari al paese, ed arrogarsi il diritto di recare noie e perditempo ai fabbricanti, assorbiti da ben altre cure» (A. Rossi, Perché una legge? Osservazioni e proposte al progetto di legge per regolare il lavoro delle donne e dei fanciulli, Firenze, 1880; il passo che ho citato può leggersi nel volumetto L’organizzazione del lavoro in Italia, a cura di M. Lichtner, Roma, 1975, nei quale sono raccolti alcuni documenti e inchieste sulle condizioni di lavoro negli stabilimenti industriali alla fine del secolo scorso). Sulla figura e il ruolo di A. Rossi, v. L. Avigliano, Alessandro Rossi e le origini dell’Italia industriale, Napoli, 1970.
[10] S. Bonomi, op. cit., p. 343.
[11] Questa affermazione (di Bequerel, a proposito delle frequenti violazioni della legge francese del 1841) è riportata da A. Errera, op. cit., p. 130; Errera riteneva, e non a torto, che ove non si tenesse conto della necessità di garantire l’applicazione della legge mediante la vigilanza sulle fabbriche di un corpo speciale di ispettori, si sarebbe mancati «di ogni buona disposizione legislativa».
[12] Occorre ricordare, peraltro, che in Italia non esisteva un ministero del lavoro (istituito solo con R.D.L. 3 giugno 1920, n. 700); delle questioni del lavoro si occupava il ministero dell’agricoltura, industria e commercio (MAIC). Un ufficio del lavoro, presso quest’ultimo ministero, venne istituito nel 1902. Quanto alla vigilanza sull’applicazione della legge del 1886, il MAIC invitava i pochi ispettori ad osservare criteri di tolleranza e ad usare «mezzi persuasivi più che repressivi».
[13] G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano, cit., p. 275.
[14] Il favore degli industriali italiani per la protezione doganale è testimoniato già dagli Atti del comitato dell’inchiesta industriale. Riassunto delle deposizioni orali e scritte, Roma, 1873, e ivi specialmente la deposizione del sen. A. Rossi. Rossi, figura di primissimo piano nel contesto economico e politico del periodo, sosteneva infatti, in polemica con L. Luzzatti, che non era possibile un vero miglioramento delle condizioni dei lavoratori, senza che fosse stata sviluppata la struttura industriale del paese, tutelata da un organico e lungimirante piano protezionistico. Con questo, e non con premature leggi sociali, lo stato avrebbe affermato ‒ secondo Rossi ‒ il proprio diritto di intervenire nell’ordine economico, quale interprete delle esigenze della nazione («comunità di produttori»): cfr. G. Are, Alla ricerca di una filosofia dell’industrializzazione nella cultura economica e nei programmi politici in Italia dopo l’unità, in L’industrializzazione in Italia ( 1861-1900), a cura di G. Mori, Bologna, 1977, pp. 174 seg. Sull’inchiesta industriale (1870-74) e gli sviluppi della politica economica protezionistica (definitivamente inaugurata nel 1888, con l’entrata in vigore della tariffa dell’87) v., di recente, F. J. Coppa, Commercio estero e politica doganale nell’Italia liberale, in L’industrializzazione in Italia, cit., pp. 161 seg.; in generale, G. Luzzatto, Storia economica dell’età moderna e contemporanea, II, L’età contemporanea dal 1700 al 1894, Padova, 1948, pp. 386 seg.
[15] Saranno dirette a riconoscere la «libertà di lavoro» le nuove norme (artt. 165 e 166) del codice penale Zanardelli sulla coalizione e lo sciopero; libertà ‒ affermava Zanardelli ‒ che «tempera i risentimenti e i rancori e rende più amichevoli le relazioni tra gli industriali e gli operai» (cit. da G. Neppi Modona, Sciopero, potere politico e magistratura 1870/1922, Bari, 1969, p. 7).
[16] Bando ai sentimentalismi, diceva il sen. Rossi, qui si tratta di pane.
[17] Lo stesso Berti era il promotore del primo disegno di legge sui probiviri (presentato nel 1883); il disegno non giunse neppure in discussione, perché fu coinvolto nel fallimento dell’intero disegno di dare al paese una legislazione sociale. Le ragioni di tale fallimento possono ravvisarsi nell’opposizione della borghesia industriale, nell’indifferenza della classe politica e, alla fine, nella complessità dei problemi di politica interna che contribuiva a porre in secondo piano i progetti di leggi sociali, anche quelli proposti più per fini di conservazione che di riforma: cosí G. Monteleone, Una magistratura del lavoro: i collegi dei probiviri nell’industria, 1883-1911, in «Studi storici», aprile-giugno 1977, n. 2, pp. 88 seg.
[18] G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano, cit., p. 274.
[19] V. le dichiarazioni del socialista A. Costa alla camera, riportate da O. Antozzi,  I socialisti e la legislazione sul lavoro delle donne e dei fanciulli, in «Movimento operaio e socialista», 1974, n. 4, p. 286. La stessa rassegnazione traspare dalla relazione con cui il conservatore L. Luzzatti, che per tanti anni si era battuto a favore di una disciplina legale del lavoro delle donne e dei fanciulli, presentò la legge al parlamento: la relazione è riportata in Opere, IV, cit., pp. 788-89.
[20] «È il momento in cui le esigenze, i bisogni, la realtà della classe operaia e contadina vengono ormai accettati come un dato di fatto ineliminabile, di cui, più o meno a malincuore, bisogna tener conto ed acuì, in qualche modo, bisogna rendere conto»: G. Neppi Modona, op. cit., p. 10.
[21] Mi riferisco soprattutto ai numerosi interventi del sen. Rossi e alla sua lunga polemica con L. Luzzatti (Le leggi sulle fabbriche in Inghilterra. Tre lettere ad Alessandro Rossi, in Opere, IV, cit., pp. 731 seg.) su cui v. G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano, cit., pp. 241 seg.; M. V. Ballestrero, Tre proposte ottocentesche per la disciplina legale del lavoro dei fanciulli, cit., pp. 254 seg. Inoltre mi riferisco agli interventi degli industriali riassunti in MAIC, Direzione generale dell’industria e commercio, Documenti legislativi italiani sul lavoro delle donne e dei fanciulli, Roma, 1880, ampiamente commentati da S. Merli, Proletariato di fabbrica, I, cit., pp. 212 seg; le dichiarazioni degli industriali sono riportate anche nei nn. 14-20 degli «Annali dell’industria e commercio», 1880.
[22] MAIC, Sul lavoro dei fanciulli e delle donne, Roma, 1880 su cui cfr. G. Monteleone, op. cit., pp. 249 seg.; S. Merli, op. cit., pp. 212 seg.
[23] Contribuirono a diffondere l’interesse sul problema della disciplina legale del lavoro dei fanciulli l’inchiesta industriale (1870-74) ed il Io congresso degli economisti italiani (Milano, 4 gennaio 1875), promosso su iniziativa di L. Luzzatti che propose, in esso, le leggi sulle fabbriche e l’emigrazione. Dal congresso nacque l’Associazione pel progresso degli studi economici in Italia; ne fu organo «il giornale degli economisti» che, tra il 1876 e il 1878, pubblicò alcune delle indagini sulle condizioni di lavoro delle donne e dei fanciulli svolte da commissioni di studiosi per conto dei comitati locali di studi economici aderenti all’Associazione
[24] Non intendo riferirmi qui alle questioni di datazione (terminus a quo il 1861?) dell’industrializzazione in Italia (su cui v. G. Mori, Il tempo della protoindustrializzazione, in L’industrializzazione in Italia, cit., pp. 9 seg.), ma ai lenti e moderati progressi che. fino alla svolta del nuovo secolo, conobbe l’industria italiana (allora essenzialmente rappresentata dalle filature della seta, cotone, lino e lana), poco sensibile alle esigenze dell’aggiorna- mento tecnico e favorevole a sfruttare le condizioni piu facili, cioè il basso costo della manodopera e la protezione doganale: cfr. L. Cafagna, La rivoluzione industriale in Italia, 1830-1900, in L’industrializzazione in Italia, cit., pp. 57 seg. Il compimento dell’industrializzazione avvenne piti tardi, nell’ultimo lustro del secolo, quando si consolidarono due fattori decisivi per l’affermazione dell’industria nazionale: la protezione doganale, che assicurava all’industria la riserva del mercato interno; la riorganizzazione dell’alta banca, «intorno ad un nuovo nucleo di comando, dotato di mezzi adeguati e di ispirazione e capacità di manovra improntate alle modeste esigenze dello sviluppo industriale »: L. Cafagna, La formazione di una «base industriale» fra il 1896 ed il 1914, in La formazione dell’Italia industriale, a cura di A. Caracciolo, Bari, 1970, pp. 144 seg.
[25] S. Merli, op. cit., p. 214.
[26] Cfr. L. Cafagna, La rivoluzione industriale in Italia, cit., pp. 57 seg.; afferma S. Merli, op. cit., p. 564, che l’industria tessile, rimasta fino al 1900 la più importante in Italia, rifletteva con maggiore frequenza e direttamente i fenomeni sociali del processo di industrializzazione.
[27] Così G. Monteleone, op. cit., p. 236.