Christoph Cornelissen, Gabriele D'Ottavio (a cura di)
La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c8

Il dibattito sulla parità di diritti delle donne nella Repubblica di Weimar
Traduzione di Enzo Morandi
Parti di questo testo si basano su:K. Heinsohn,Verfassungsauftrag und politische Kultur. Diskussionen zur Gleichberechtigung der Frauen, inD. Schumann-C. Gusy-W. Mühlhausen(edd),Demokratie versuchen. Die Verfassung in der politischen Kultur der Weimarer Republik, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2021

Notizie Autori
Kirsten Heinsohn è professoressa di Storia contemporanea, Universität Hamburg, e sostituta direttrice della Forschungsstelle für Zeitgeschichte, Hamburg.
Abstract
La Costituzione del 1918 rappresenta una tappa estremamente importante nel percorso verso l’uguaglianza di genere nella Germania post-bellica, ma allo stesso tempo essa è caratterizzata da un aspetto paradossale. Da un lato si mostra come un passo in avanti per ciò che riguarda l’ampliamento dell’uguaglianza pubblica e politica al mondo femminile, ma contemporaneamente riafferma l’essenza conservatrice della società tedesca weimeriana, per il fatto che tale uguaglianza non viene posta anche sul piano sociale, e quindi in merito alla dimensione privata. Si tenta qui di mostrare i principali argomenti di dibattito che accompagnano la stesura della nuova costituzione da parte dell’Assemblea nazionale.
 
Ovunque nel mondo la parità di diritti tra uomini e donne procede per tappe, con battute d’arresto e nuovi inizi carichi di aspettative e speranze. L’Europa e in particolare la Germania non fanno certo eccezione al riguardo. Come dappertutto ci sono stati e ci sono picchi che segnano un cambiamento duraturo; è il caso ad esempio della Legge Fondamentale della Repubblica federale tedesca varata nel 1949 che equiparò per la prima volta e senza limitazioni di sorta lo stato giuridico di uomini e donne. Ma la storia della Repubblica federale, della sua Costituzione nonché della sua attuazione tramite leggi ordinarie mostra che l’affermazione di un principio di uguaglianza non significa ancora la piena parità sociale ed economica delle donne: un obiettivo per il cui conseguimento non basta solo un principio generale del diritto, ma occorrono anche una società e una cultura politica in grado di tradurlo in atti concreti. Una Costituzione deve quindi rimanere vitale e trovare pratica applicazione in comportamenti e condizioni sociali. Fare in modo che normativa e prassi coincidano – è questa la quintessenza della lunga storia della parità di diritti tra uomini e donne.
Con la nascita della repubblica nel 1918 e la successiva adozione di una Costituzione democratica ha avuto inizio una nuova e {p. 192}fondamentale tappa sul terreno della uguaglianza di genere. Nello stesso tempo, però, la Costituzione di Weimar era anche l’espressione di un paradosso. Riguardo alla condizione giuridica delle donne, nel testo c’erano affermazioni innovative destinate ad avere un impatto concreto sulla loro vita, ma contemporaneamente la nuova carta costituzionale riconfermava norme già vigenti soprattutto in ambito privatistico che minavano alla base il principio della parità di diritti. La giurista Pascale Cancik riassume questo paradosso in una formula: «Il nuovo testo non cambiava nulla … il nuovo testo cambiava molto» [1]
. Un modo lapidario ma efficace per sottolineare che la nuova Costituzione non cambiò subito la realtà sociale. Nello stesso tempo, d’altro canto, la costituzionalizzazione del principio della parità di diritti rendeva possibili futuri cambiamenti. Non solo: in seguito all’introduzione di un tale principio ora una eventuale disparità di trattamento doveva essere quanto meno giustificata. Il che, dal punto di vista storico, e in ogni caso in un’ottica di lungo periodo, rappresenta un passo di grande importanza nella direzione della parità che merita senz’altro apprezzamento. Già in occasione del novantesimo anniversario (2009) dell’entrata in vigore della Costituzione weimariana, la storica e giurista Marion Röwekamp ha richiamato l’attenzione sul fatto che
«… i diritti di uguaglianza inseriti in Costituzione … con la loro autorità morale non offrono solo un fondamentale sostegno nella diuturna lotta per la parità, ma anche la prospettiva (e la speranza) di un futuro nel segno della parità che vada oltre il positivo lascito della Costituzione» [2]
.
Autorità morale, speranza, futuro – parole che confermano una volta di più che il testo costituzionale in tema di uguaglianza {p. 193}di genere non rifletteva la vera realtà sociale. Ma Röwekamp rinvia anche alle potenzialità di trasformazione della Costituzione e quindi alla sua intrinseca capacità di corrispondere alla richiesta di plasmare il futuro. Tutto questo emerge ad esempio dal dibattito che si sviluppò in seno all’Assemblea nazionale intorno al principio della parità di diritti. Dibattito che ruotò intorno ad una parola, anzi ad un aggettivo: «fondamentale». Lo svolgimento della discussione mostra chiaramente che la maggioranza dei deputati si schierò, certo, per l’uguaglianza ‘politica’ delle donne, ma non andò oltre e scelse di non costituzionalizzare la loro parità ‘sociale e giuridica’ anche nell’ambito del diritto privato.

1. Uguaglianza dei cittadini. Il dibattito all’Assemblea nazionale

Nel 1919 il diritto di voto per le cittadine tedesche maggiorenni non era più un argomento controverso – la questione era già stata affrontata con il primo «Appello al popolo tedesco» del Consiglio dei commissari del popolo il 12 novembre, data a partire dalla quale solo una piccola minoranza mise in discussione il diritto di voto per le donne, senza peraltro ottenere il sostegno dello schieramento conservatore come pure era avvenuto solo poche settimane prima. Certo, la questione del suffragio femminile era ancora considerata importante dalla maggior parte dei politici e da molti rappresentanti degli operai e dei soldati ma in quanto questione che era stata sollevata e risolta una volta per tutte. Nell’inverno del 1918 l’argomento non era più socialmente controverso e divisivo. Come si spiega? Negli anni precedenti solo i socialdemocratici, alcuni liberali e soprattutto molte suffragette avevano lottato perché venisse riconosciuto alle donne il diritto di voto. Analogamente all’antisemitismo, questo argomento costituiva un «codice politico» (Shulamit Volkov) sulla base del quale amici e nemici politici si differenziavano e interi settori politici definivano la loro stessa ragion d’essere, com’era il caso, ad esempio, dei conservatori. Ma nell’autunno-inverno del 1918 la questione del suffragio femminile parve a molti, compresi non pochi conservatori, meno pericolosa e gravida di conseguenze della sconfitta e dei {p. 194}disordini politici in corso nel Paese. Inoltre, anche l’appello del Consiglio dei commissari del popolo contribuì a sdrammatizzare la questione. Nel testo infatti non si diceva che tutte le leggi speciali per le donne dovevano considerarsi abolite. Al contrario: le donne erano esplicitamente citate solo in un punto, e cioè come persone di sesso femminile alle quali ora bisognava riconoscere anche il diritto di voto. Se da un lato, dunque veniva accolta una rivendicazione che i socialdemocratici e i movimenti femminili avanzavano da molto tempo e che era stata al centro di grandi dispute, dall’altro sia tra i responsabili prima nei Consigli e poi anche in Parlamento non era molto diffusa la convinzione che dalla uguaglianza dei diritti ‘politici’ si dovesse far derivare la necessità di riformare lo status giuridico delle donne anche sul terreno del ‘diritto privato’. Le vicende e le discussioni riguardanti il principio della parità di diritti in seno all’Assemblea nazionale sono dunque paradigmatiche della questione se il diritto di voto venne visto o meno come un segno dei cambiamenti tra i sessi e fino a che punto questi cambiamenti dovevano essere accolti anche sul piano giuridico. «Non si aveva una idea molto precisa di quali diritti dovessero essere precisamente riconosciuti alle donne in quanto soggetti di diritti e doveri civici» [3]
, ammette anche Marion Röwekamp. E questo vale per tutti gli attori sulla scena, compresi i movimenti femminili, che come è noto avevano e propagandavano idee anche molto diverse in merito a ciò che bisognava intendere per emancipazione femminile.
Se si prendono in considerazione anche solo superficialmente i progetti e i pareri in tema di Costituzione presentati dal giurista Hugo Preuß, due sono gli aspetti che colpiscono. Primo: lo stesso Preuß non inserì nel suo progetto alcun riferimento alla questione della parità di diritti, e anche Friedrich Ebert, il futuro presidente del Reich, non prese posizione al riguardo quando propose di inserire in Costituzione i diritti fondamentali. Il che, peraltro, potrebbe prestarsi ad una interpretazione positiva. L’articolo 28 del disegno di legge governativo in tema di diritti fondamentali prevedeva quanto {p. 195}segue: «Tutti i tedeschi sono uguali davanti alla legge. Sono aboliti tutti i privilegi o svantaggi giuridici pubblici derivanti dalla nascita, e il loro ripristino mediante leggi o provvedimenti di natura amministrativa è incostituzionale». Stando al dettato dell’articolo (prima frase) non avrebbero più dovuto sussistere differenze di genere giuridicamente fondate, e in ogni caso anche le dichiarazioni di Preuß al riguardo potrebbero essere interpretate in tal senso. D’altro canto, nel testo non si chiedeva in alcun modo al legislatore di procedere all’attuazione della parità tra uomini e donne. Che dunque la formulazione dell’articolo 28 promuovesse una effettiva uguaglianza di genere appare quanto mai dubbio alla luce della legislazione in materia allora dominante, con i suoi tratti conservatori e con la sua specifica divisione del lavoro tra i sessi, ancora vista come «naturale».
Secondo: l’iniziativa di inserire una frase così concepita fu presa dalla DDP, e in particolare da Friedrich Naumann, già in seno alla Commissione (dei 28) incaricata di redigere il testo definitivo della Costituzione. Si può supporre che Naumann abbia agito anche d’intesa con le suffragette liberali che facevano parte del gruppo della DDP in seno alla Assemblea nazionale. Tra di loro c’erano anche Gertrud Bäumer, presidente del Bund Deutscher Frauenvereine (BDF) e quindi rappresentante della più grande associazione femminile allora esistente in Germania, e Marie Baum, anch’essa molto attiva nel BDF e in altre associazioni femminili [4]
. Come le loro colleghe dell’SPD, queste donne impegnate in politica vantavano una lunga esperienza in fatto di discriminazione femminile fondata su una gerarchia di genere ancora considerata «naturale». Tutte loro avevano attivamente partecipato al dibattito sul nuovo codice civile del 1900, che aveva ampiamente riconfermato il ruolo subordinato della donna in famiglia e nel matrimonio. Conoscevano i molti dibattiti sulla parità di diritti per le donne, dibattiti che riguardavano in particolare l’ammissione agli istituti
{p. 196}d’istruzione e ai partiti politici, l’uguaglianza di trattamento negli istituti di assistenza sociale, la posizione giuridica delle madri di figli illegittimi e molto altro ancora. Sulla scorta di queste esperienze le donne che svolgevano attività politica nelle file socialdemocratiche e liberali ritenevano necessario superare gli steccati dell’appartenenza partitica e operare all’unisono per ottenere che venisse espressamente costituzionalizzato il principio dell’uguaglianza di genere. Un principio che avrebbe dovuto essere formulato in questo modo: «Le donne e gli uomini hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri civici» [5]
. Ma la formulazione adottata per il testo da sottoporre all’esame dell’Assemblea costituente recitava invece: «Uomini e donne hanno ‘fondamentalmente’ gli stessi diritti e gli stessi doveri civici» [6]
. Anche coloro i quali non sono pratici di diritto capiscono subito (e lo capirono anche all’epoca) che quell’aggiunta mirava a rendere possibile l’introduzione di eventuali eccezioni. Già in seno alla Commissione dei 28, allorché venne proposto di introdurre questa aggiunta gli esponenti del Zentrum cattolico e della DDP osservarono che non «c’era ancora certezza in merito alle implicazioni e agli effetti della disposizione in tutti i possibili dettagli» e che quindi era meglio «procedere con cautela e in termini generali nella direzione indicata» [7]
. Questa stessa cautela emerge anche dal dibattito in sede di Assemblea nazionale.
Note
[1] P. Cancik, Der Kampf um Gleichberechtigung als Voraussetzung der demokratischen Republik, in H. Dreier - C. Waldhoff (edd), Das Wagnis der Demokratie. Eine Anatomie der Weimarer Reichsverfassung, München, C.H. Beck, 2018, pp. 151-174, qui p. 165.
[2] M. Röwekamp, Männer und Frauen haben grundsätzlich die gleichen staatsbürgerlichen Rechte. Weimar – Meilenstein auf dem Weg zur Gleichberechtigung der Geschlechter?, in Friedrich-Ebert-Stiftung (ed), Die Weimarer Verfassung. Wert und Wirkung für die Demokratie, Erfurt, Friedrich-Ebert-Stiftung, 2009, pp. 235-264, qui p. 260.
[3] Ibidem, p. 239.
[4] Anch’essa giurista impegnata a sostegno delle donne, Marie-Elisabeth Lüders entrò a far parte dell’Assemblea nazionale solo nell’agosto del 1919 in sostituzione del già deceduto Friedrich Naumann.
[5] Citato in M. Röwekamp, Männer und Frauen haben grundsätzlich die gleichen staatsbürgerlichen Rechte, p. 244.
[6] Verhandlungen der Verfassunggebenden Deutschen Nationalversammlung, Berlin 1920, vol. 328, 57a seduta, 15 luglio 1919, pp. 1559-1571.
[7] R. Deutsch, Die politische Tat der Frau. Aus der Nationalversammlung, Gotha, F.A. Perthes, 1920, p. 5.