Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c4
Per contestare la tesi della legittimità dei licenziamenti per causa di matrimonio occorrevano argomenti tecnici (come la precettività delle norme costituzionali applicabili nella materia) [67]
, e specialmente considerazioni di ordine morale, capaci di smuovere la coscienza dei benpensanti. L’insuccesso dell’iniziativa, promossa anni addietro, per affermare la nullità dei licenziamenti di rappresaglia politica e sindaca
{p. 154}le [68]
, aveva insegnato che, fino a quando l’art. 2118 c.c. fosse rimasto in vigore, nessun richiamo ai principi costituzionali avrebbe indotto la giurisprudenza a sindacare i motivi del licenziamento [69]
. Per questo, forse, i sostenitori della illegittimità dei licenziamenti posero l’accento più sulla salvaguardia del tradizionale ruolo domestico della donna che sull’affermazione del diritto al lavoro e all’eguaglianza nel lavoro.
La formulazione degli argomenti tecnici era preceduta dall’osservazione, di grande effetto ma non so quanto fondata, che le clausole di nubilato e i licenziamenti per causa di matrimonio fossero una delle cause fondamentali dell’aumento dei matrimoni irregolari, delle convivenze more uxorio, e dei figli illegittimi [70]
. Tutte cose allora condannate, e non solo dai cattolici. L’osservazione sorreggeva gli argomenti giuridici, cui si assegnava maggior peso [71]
: le clausole di nubilato e i licenziamenti per causa di matrimonio dovevano ritenersi illegittimi in quanto violavano i diritti, riconosciuti a tutti i cittadini dalla costituzione (artt. 2, 29, 31 cost.), di contrarre matrimonio e di formarsi una famiglia. Se i datori di lavoro potevano infatti porre le donne di fronte alla necessità di scegliere fra lavoro e matrimonio, e le donne, più spesso per bisogno che per libera aspirazione, dovevano scegliere la conservazione del posto di lavoro, per questa categoria di cittadini il diritto al matrimonio e alla famiglia era di fatto negato. Con l’aggravante ‒ si osservava ‒ che una specifica norma costituzionale (art. 37) impone allo stato, come ai privati, di garantire alle donne condizioni di lavoro tali da consentire loro l’adempimento delle essenziali funzioni familiari. «Orbene ‒ concludeva Carlo Smuraglia [72]
‒ non v’ha chi non veda come tutto questo sistema venga calpestato e violato con l’uso delle clausole di nubilato e con i licenziamenti per causa di matrimonio. Che la famiglia venga agevolata e tutelata quando la costituzione della stessa diventa motivo di risoluzione di un rapporto di lavoro appare difficilmente sostenibile [...]: agevolare la formazione della famiglia e tutelare il lavoro femminile non significa certo porre una lavoratrice al bivio fra il matrimonio e la perdita di un posto di lavoro e quindi di un guadagno, che proprio in quel momento può rendersi particolarmente necessa{p. 155}rio».
Con queste argomentazioni si riteneva sufficientemente motivata l’illegittimità delle clausole di nubilato e dei licenziamenti per causa di matrimonio. Certo, richiamare il diritto al matrimonio era, oltre che corretto, suggestivo: ma la suggestione non fa dimenticare il sovvertimento dell’ordine logico in cui si affrontavano le questioni poste dalle clausole di nubilato e dai licenziamenti per causa di matrimonio. A me pare che il primo e reale problema da risolvere fosse non la tutela dell’ovvio diritto della lavoratrice al matrimonio, ma la tutela dei fondamentali ‒ e allora meno ovvi [73]
‒ diritti della donna coniugata al lavoro e alla parità di trattamento nel lavoro. Essendo questi ultimi diritti protetti dalla costituzione (artt. 3, 4, e 37), le norme giuridiche consentivano di affermare l’illegittimità di tutte le pratiche con cui i datori di lavoro discriminavano le donne perché donne (o madri, o possibili madri). Al giudizio di illegittimità non potevano sottrarsi i licenziamenti a causa di matrimonio, per un duplice ordine di considerazioni: a) perché, anche nell’ipotesi di un potere di licenziare ampio come quello previsto dall’art. 2118 c.c., il motivo illecito, esplicito e determinante, rendeva nullo l’atto unilaterale di recesso (artt. 1345 e 1324 c.c.); b) perché, ai sensi degli artt. 3 e 37 cost., il matrimonio della lavoratrice doveva essere considerato un illecito (discriminatorio) motivo di recesso.
Considerazioni non dissimili potevano valere per le clausole di nubilato (sia nella forma dell’obbligo di dimettersi in caso di matrimonio, sia nella forma delle dimissioni in bianco sottoscritte dalla lavoratrice all’atto dell’assunzione). Per tali clausole, determinate da motivo illecito, la nullità era sicuramente deducibile dall’applicazione dell’art. 1345 c.c. [74]
.
Il clima culturale e politico, e gli orientamenti prevalenti nell’interpretazione dell’art. 2118 c.c., suggerirono, come ho detto poco fa, di poggiare tutta la tesi dell’illegittimità dei licenziamenti per causa di matrimonio sul diritto delle lavoratrici ad avere una famiglia, anziché sul diritto al lavoro delle donne sposate, effettivamente violato da quei licenziamenti. Per ciò che concerne l’art. 37 cost., il successo di quella tesi finì per avvalorare un’interpretazione che ne enfatizzò la{p. 156} parte più ambigua. Le intenzioni erano buone, perché il richiamo alla «essenziale funzione familiare» serviva, nel caso di specie, ad affermare il diritto delle donne a conservare, dopo il matrimonio, il proprio posto di lavoro. Ma le buone intenzioni non coprono il fatto che matrimonio e famiglia erano considerati ancora i momenti fondamentali della vita delle donne, e che il diritto al lavoro era ritenuto, più che un bene da tutelare in sé, una parte rilevante (e perciò meritevole di tutela) del diritto delle donne di avere una famiglia legittima, e di assicurare alla famiglia l’apporto economico del proprio salario.
Probabilmente, grazie al significato sostanzialmente conservatore degli argomenti utilizzati e dei valori morali messi in campo, si consolidò nella dottrina la tesi della illegittimità delle clausole di nubilato e dei licenziamenti per causa di matrimonio. Più incerto risultò l’orientamento della magistratura, in genere refrattaria ad esercitare qualsiasi controllo sui licenziamenti, e nella specie non sempre disponibile ad affermare la subordinazione degli interessi padronali al favor familiae [75]
. I casi risolti dalla giurisprudenza rimasero peraltro ben poca cosa rispetto alla reale dimensione del fenomeno. Ma se anche fosse aumentato il numero delle sentenze che dichiaravano nulle le clausole di nubilato e i licenziamenti per causa di matrimonio, molti problemi sarebbero rimasti aperti. Primo fra tutti, quello della scarsa propensione delle lavoratrici a promuovere cause di esito incerto, essendo la soluzione costruita in via interpretativa opinabile e sempre suscettibile di modificazioni. Poi, se pure l’esito delle cause fosse stato sicuro, restava sempre, per le ricorrenti, la difficoltà di provare l’illecito motivo determinante il licenziamento (se non espresso), ovvero il collegamento causale fra matrimonio e dimissioni (nell’ipotesi, frequente, delle dimissioni in bianco). Alla fine, restava estremamente improbabile che i giudici sancissero, come conseguenza della illiceità del licenziamento per causa di matrimonio, il diritto della lavoratrice alla reintegrazione nel posto. A quel tempo, infatti, fatta eccezione per il divieto di licenziamento di cui alla L. 860/1950 [76]
, nessuna altra norma di legge prevedeva casi di invalidità del licenziamento. L’accordo interconfederale 18{p. 157} ottobre 1950 sui licenziamenti individuali prevedeva, per il licenziamento privo di giustificato motivo, un’alternativa fra riassunzione e risarcimento forfettario del danno (penale), che si risolveva sempre con la scelta, da parte del datore di lavoro, della c.d. soluzione economica [77]
. Quanto al licenziamento per giusta causa (art. 2119 c.c.), la giurisprudenza riteneva che, ove la giustificazione del datore di lavoro fosse risultata insufficiente, il licenziamento sarebbe rimasto valido ed operante come recesso ad nutum: con la conseguenza di riconoscere al lavoratore solo il diritto all’indennità di anzianità e di mancato preavviso [78]
.
A risolvere questi ed altri problemi ha provveduto la legge 9 gennaio 1963, n. 7 alla cui elaborazione contribuì il CNEL con un parere sul disegno di legge governativo, del quale è rimasta ampia traccia nel testo approvato dal parlamento [79]
. Con la legge n. 7/1963, sopravvissuta al terremoto portato dalla legge n. 903/1977 nella legislazione protettiva del lavoro femminile, e dunque tuttora vigente, sono stati sanciti nuovi e importanti principi, applicabili a tutte le lavoratrici dipendenti da enti pubblici e da imprese private, con esclusione delle sole addette ai servizi familiari e domestici.
Le clausole di nubilato di qualsiasi genere, contenute nei contratti individuali, collettivi, e nei regolamenti, sono nulle e si hanno per non apposte: quest’ultima prescrizione applica il principio della conservazione dei negozi giuridici, salvando la validità del contratto di lavoro contenente la clausola nulla [80]
.
Parimenti nulli sono i licenziamenti per causa di matrimonio: per sollevare la lavoratrice ricorrente dall’onere di provare l’illecito motivo determinante il recesso, la legge stabilisce che il licenziamento si presume disposto per causa di matrimonio quando intervenga nel periodo intercorrente tra la richiesta delle pubblicazioni ed un anno successivo alla celebrazione. La presunzione è assoluta [81]
: il datore di lavoro può superarla solo se è in grado di provare che il licenziamento è avvenuto per uno dei tre motivi previsti dalla legge sulle lavoratrici madri come eccezione al divieto di licenziamento [82]
.
Nulle sono anche le dimissioni presentate dalla lavoratri{p. 158}ce nello stesso periodo per cui è prevista la nullità del licenziamento: fa eccezione il caso in cui la lavoratrice confermi entro un mese le proprie dimissioni davanti all’ufficio del lavoro. Il legislatore ha evidentemente ritenuto che la sede amministrativa pubblica (la stessa nella quale il lavoratore può compiere valide rinunce sui diritti indisponibili) sia sufficiente a garantire la libera manifestazione di volontà della lavoratrice.
Le conseguenze della nullità del licenziamento sono definite dalla legge con un rigore nuovo per la legislazione di quei tempi. La lavoratrice illegittimamente licenziata ha diritto ad essere riammessa in servizio, ed ha altresì diritto alla retribuzione (globale di fatto) per tutto il periodo che va dal licenziamento fino alla data della effettiva reimmissione in servizio [83]
.
Al divieto di licenziamento per causa di matrimonio la legge del 1963 ha accompagnato una serie di norme di carattere «promozionale», dirette ad eliminare l’incentivo economico, e così a ridurre le tentazioni dei datori di lavoro a fare ricorso ai licenziamenti delle lavoratrici sposate: si tratta delle modificazioni apportate agli artt. 17, 22, 23 della L. n. 860/1950 sulle lavoratrici madri, che hanno in gran parte eliminato l’incidenza sul datore di lavoro degli oneri di maternità [84]
.
Con l’entrata in vigore della legge n. 7/1963 si è aperta una nuova fase della vicenda dei licenziamenti per causa di matrimonio. Si deve ricordare, anzitutto, che la tanto auspicata (ma anche osteggiata) legge sui licenziamenti per causa di matrimonio è intervenuta proprio nel momento in cui si cominciava a registrare la caduta, rapidamente divenuta rovinosa, dell’occupazione femminile [85]
. Oggetto di dibattito negli anni del miracolo economico, a partire dal 1963 la questione dei licenziamenti per causa di matrimonio era destinata a scomparire dalla scena. Evidentemente, le donne non avevano più il problema di perdere il lavoro col matrimonio. Ma non era merito della legge: le donne, sposate e non sposate, erano ormai le prime ad essere licenziate e le ultime a trovare un lavoro. La legge n. 7/1963 era sicuramente tardiva. La concomitanza di due fatti dimostra, del resto, che il
{p. 159} divieto di licenziamento per causa di matrimonio non bastava (o non serviva) più a difendere l’occupazione femminile: a) malgrado l’aumentato numero dei licenziamenti di donne, e malgrado il carattere fortemente protettivo della legge n. 7, i casi di licenziamenti per causa di matrimonio arrivati in giudizio sono rimasti pochi; b) benché la legge sancisse principi nuovi per il nostro sistema di diritto del lavoro, la dottrina le ha dedicato scarsa attenzione.
Note
[67] Si riferivano agli artt. 3,4, e 41, comma II, cost., Manfredini, op. cit., pp. 38 seg.; C. Smuraglia, Licenziamento di lavoratrici che contraggono matrimonio e clausole di nubilato nei contratti di lavoro, in I licenziamenti a causa di matrimonio, cit., pp. 201 seg.
[68] Sull’onda delle polemiche per il licenziamento del dirigente comunista Giovanni Battista Santhià (lo licenziò la FIAT, con espressa motivazione politica) i giuristi rinnovarono i propri sforzi per dare interpretazioni limitative dell’art. 2118 c.c.: v. Atti del convegno sulla tutela delle libertà nei rapporti di lavoro, Torino 20-21 novembre 1954, Milano, 1955; U. Natoli, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, Milano, 1955, pp. 53 seg.
[69] V. infatti quanto affermava C. Smuraglia, op. cit., p. 219: «spesso la fondatezza giuridica degli argomenti non costituisce un valido ed efficace baluardo contro i soprusi dei datori di lavoro e contro le resistenze da parte di chi preferisce stare arroccato sulle posizioni più tradizionali»; il riferimento alla magistratura era ovvio.
[70] Lo ricorda G. Pera, Divieto di licenziamento delle lavoratrici a causa di matrimonio, cit., p. 351, il quale menziona, oltre alle relazioni e agli interventi riportati nel cit. vol., I licenziamenti a causa di matrimonio (e ivi, ad esempio le affermazioni di G. Re, dirigente dell’U.D.I.), un intervento in tal senso dell’«Osservatore romano».
[71] Altri argomenti a sostegno dell’illegittimità delle clausole di nubilato e dei licenziamenti per causa di matrimonio erano: la frode alla legge n. 860/1950 (su cui v. retro, nota 48); l’estensione analogica dell’art. 636 c.c. (illiceità della condizione impeditiva delle nozze dell’erede). Sulla fondatezza di questi argomenti, ma anche sulla loro portata minore rispetto all’argomento della precettività delle norme costituzionali, v. C. Smuraglia, op. cit., pp. 212 seg.
[72] C. Smuraglia, op. cit., pp. 215-216.
[73] V., ad esempio, quanto scriveva P. Cirrottola, A proposito di matrimonio e contratto di lavoro, in «Justitia», 1960, pp. 127 seg.
[74] Sulla nullità delle clausole di nubilato v. le argomentazioni di M. G. Manfredini, Il problema giuridico del matrimonio, cit., pp. 51 seg.; N. Cicchetti, La clausola di nubilato nel contratto di lavoro, in «Rivista giuridica del lavoro», 1960, II, pp. 614 seg.; A. C. Jemolo, Sulla clausola di nubilato nel contratto di lavoro, in «Giurisprudenza italiana», 1961, I, 2, c. 404.
[75] V. le cit. sentenze Trib. Roma, 10 aprile 1958; Trib. Bergamo, 17 marzo 1960; e inoltre: Pret. Genova, 21 giugno 1960, in «Rivista giuridica del lavoro», 1960, II, p. 608, che riteneva valida la clausola di nubilato contenuta nel regolamento di impresa; Trib. Pistoia, 15 gennaio 1965, ivi, 1965, II, p. 588, che riteneva non illecito, ai sensi dell’art. 2118 c.c., il licenziamento della lavoratrice determinato dal suo matrimonio. In senso contrario: Coll. conc. arb. Milano, 5 luglio 1960, ivi, 1960, II, p. 608, che riteneva illecita la clausola di nubilato e pertanto ingiustificato il licenziamento intimato in applicazione della stessa. Ritenevano illecita la clausola di nubilato e prive di efficacia le «dimissioni» della lavoratrice; Trib. Milano, 11 gennaio 1961, in «Rivista di diritto matrimoniale e dello stato delle persone», 1961, p. 149; Trib. Milano, 6 aprile 1961, in «Giurisprudenza italiana», 1961,1,2, c. 404; Trib. Milano, 14 aprile 1960, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1960, p. 590; App. Genova, 13 gennaio 1962, ivi, 1962, p. 172.
[76] Ma, secondo l’opinione prevalente, il licenziamento intimato durante il periodo di divieto di licenziamento era solo temporaneamente inefficace (e non nullo o inefficace senz’altro): retro, nota 44.
[77] Sul punto rinvio al mio I licenziamenti, cit., pp. 47 seg. e ivi riferimenti bibliografici.
[78] Ampi riferimenti giurisprudenziali nel mio saggio II concetto di giusta causa nell’evoluzione della giurisprudenza, in Giusta causa e giustificati motivi nei licenziamenti individuali, Milano, 1967, p. 71.
[79] Sul parere del C.N.E.L. v. il commento critico di G. Pera, Divieto di licenziamento delle lavoratrici, cit., pp. 352 seg.
[80] Così P. G. Corrias, La presunzione di nullità del licenziamento intimato a causa di matrimonio, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1968, p. 514.
[81] In questo senso G. Pera, op. cit., p. 356, che critica la modifica, proposta dal C.N.E.L. e poi introdotta nel testo della legge, all’art. 1 del disegno di legge governativo, il quale prevedeva la possibilità, per il datore di lavoro, di provare che il licenziamento della lavoratrice era stato determinato da un giusto motivo. Critico sugli eccessi demagogici del legislatore anche A. Zanini, Valore dei limiti temporali nella presunzione del licenziamento «per causa di matrimonio», in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1968, p. 520. Il carattere assoluto della presunzione di cui all’art. 1 della legge n. 7/1963 è stato affermato anche dalla Corte cost., 5 marzo 1969, n. 27, ivi, 1969, p. 25, che ha ritenuto legittima la limitazione posta dalla legge al potere di licenziamento. Definisce invece Juris tantum la presunzione P. G. Corrias, loc. ult. cit.
[82] I motivi previsti dalla legge n. 860/1950 come eccezioni al divieto di licenziamento sono rimasti immutati (salvo l’aggiunta dell’aggettivo «grave» alla colpa della lavoratrice) nella legge n. 1204/1971 sulle lavoratrici madri.
[83] La nullità del licenziamento si traduce «in una sostanziale garanzia della dignità della persona umana e costituisce allo stesso tempo una positiva applicazione del principio del favor familiae»: così F. Traversa, Matrimonio e rapporto di lavoro, in «Diritto dell’economia», 1963, p. 463, cit. anche da M. Persiani, La tutela deli interesse del lavoratore alla conservazione del posto, cit., p. 652. Malgrado la chiara lettera della legge, la nullità del licenziamento per causa di matrimonio è stata intesa come «temporanea inefficacia del licenziamento » (o divieto temporaneo: al pari del divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti e puerpere): così, implicitamente, Corte cost., 5 marzo 1969, n. 27 cit. Accanto alla nullità del licenziamento, la legge n. 7/1963 ha sancito, per la prima volta, il principio della reintegrazione nel posto di lavoro della lavoratrice illegittimamente licenziata; inoltre ha predisposto un sistema sanzionatorio chiaro (più chiaro di quello contenuto nell’art. 18 dello statuto dei lavoratori). Tante innovazioni hanno tuttavia suscitato ben poche reazioni. V., per una rigorosa applicazione della legge, Trib. Milano, 26 maggio 1966, in «Monitore dei tribunali», 1966, p. 1156, favorevolmente commentata da A. Alibrandi, Nullità del licenziamento a causa di matrimonio e diritto della lavoratrice alla retribuzione, ivi. Secondo l’orientamento prevalente al tempo in cui la legge è stata emanata, la «retribuzione» di cui all’art. 2 della legge n. 7/1963 era intesa come risarcimento dei danni (equivalenti al lucro cessante integrale) causati dalla mora del creditore; per l’analisi critica di tale orientamento rinvio a quanto ho scritto in I licenziamenti, cit., pp. 104 seg., cui adde, da ultimo, D’Antona, La reintegrazione nel posto di lavoro. Art. 18 dello statuto dei lavoratori, Padova, 1979, pp. 34 seg.
[84] La legge n. 7/1963 (artt. 3, 4, 5) ha introdotto nuove disposizioni sul trattamento economico delle lavoratrici madri; anche queste disposizioni sono state sostituite dalla legge 30 dicembre 1971, n. 1204.
[85] Come è noto, l’occupazione femminile esplicita si è ridotta, tra il 1961 e il 1966, di oltre un milione di unità. L’occupazione esplicita si è presentata in relativa stasi fino al 1971, è diminuita drasticamente nel 1972 (in relazione alle vicende dell’occupazione esplicita industriale, specie nei settori ad elevato grado di «femminilizzazione», come il tessile e l’abbigliamento), ha ripreso a crescere solo dal 1973 in poi, a causa di un limitato recupero dell’occupazione femminile industriale (+98.000 unità dal 72 al 76) e dell’espansione notevole dell’occupazione esplicita nel terziario (+500.000 unità in quattro anni, comprese soprattutto nelle fasce di età fra i 30 e i 34 anni e tra i 45 e i 50 anni). Il tasso di attività femminile è così risalito oltre il 20%, recuperando qualche punto rispetto al passato, ma si è accentuata la modificazione della struttura dell’occupazione femminile esplicita: l’occupazione terziaria rappresenta nel 1976 il 51,4% dell’occupazione femminile complessiva. Nello stesso periodo 1966-76 è tuttavia cresciuta la disoccupazione femminile esplicita, che coinvolge soprattutto le giovanissime, e non ha subito riduzioni la sottoccupazione implicita (stimata, per il 1975, in 2.600.000 unità, contro 1.772.000 unità nel 1971). Inoltre la stessa espansione dell’occupazione esplicita può nascondere aspetti di sottoccupazione esplicita, nel senso di lavoro comunque a condizioni precarie, discontinue, ecc., anche se incluso nelle forze di lavoro ufficiali. I dati e le stime sin qui riportati sono di L. Frey, Il lavoro femminile verso gli anni ‘80, Appendice I. Le donne e l’occupazione terziaria in Italia, in Frey, Livraghi, Olivares, Nuovi sviluppi delle ricerche sul lavoro femminile, cit., pp. 27 seg.