Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c2
Questo americanismo si è poi affacciato anche in contesti capitalistici a mobilità più convenzionale e contenuta, e ad ideologie più classiche; e ovunque adesso i due grandi percorsi obbligati della mobilità (per lo meno quella interna alle varie generazioni) sono appunto: una ascesa nel lavoro e una arrampicata coi lavori. Effettivamente, cercare di migliorare il proprio lavoro, e cercarsi lavori che siano migliori, dà luogo a forme opposte di mobilità, l’una ascensionale l’altra laterale. La prima strada è quella della carriera, e l’altra dell’affermazione. Sono strade che coesistono e che si intersecano, ormai, e solo all’apparenza la seconda è più individualistica della prima: dipende comunque dai processi di legittimazione sociale.
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4. L’identificazione attraverso la qualità e la centralità del lavoro

Alla via maestra il movimento sindacale italiano ha dato negli anni ’70 un contributo originale. Da un lato il diritto allo studio (le «150 ore») e l’inquadramento unico delle qualifiche, dall’altro l’intervento sull’ambiente e sull’organizzazione del lavoro, hanno espresso la spinta ad accrescere la propria preparazione e ad arricchire il lavoro svolto: a rivalutare sia la collocazione che la prestazione.
Un tabù è stato messo in discussione, e il cambiamento della fabbrica è entrato a far parte degli ideali alternativi. Finalmente. Tuttavia ci si deve seriamente chiedere: la fabbrica poteva in questi anni cambiare tanto quanto sarebbe stato desiderabile per mutare la qualità del lavoro? E sarebbe bastato ciò, per restituire al lavoro la sua presa sull’identità? (A me pare un po’ troppo comodo, e peregrino assai, ritenere che l’identità declini con la qualità: a quali fortunati lavoratori si pensa, e di quali paradisi perduti? Già Durkheim metteva in guardia: «Soltanto per effetto di un’autentica illusione si è potuto ritenere talvolta che la personalità sia più intera quando la divisione del lavoro non è ancora penetrata in essa») [49]
.
Mutare la qualità del lavoro è certo necessario, e del resto qualcosa si è ottenuto: è stata colpita la nocività, sono stati ricomposti certi frantumi ed è stata sospinta l’automatizzazione, cosicché qualche spezzone è finito fuori [50]
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Sono state altresì ridimensionate talune speranze facili circa la reversibilità conflittuale del rapporto tra faccia negativa e positiva del lavoro (che è poi la filosofia terribilmente rivoluzionaria del «lavoro liberato»). Non si può infatti pensare a una trasformazione tale dei lavori che configuri la società desiderata. Ci sono nel lavoro materiali duri, regole vischiose. Lavoro di qualità, salariato, non ce ne sarà facilmente per tutti quelli che lo vogliono; e lavoro istruito neppure, per tutti quelli che un’istruzione ce l’hanno. Cerchiamo almeno {p. 70}di mettere in condizioni di parità tutti quelli che lavorano, se non rispetto alla penosità, rispetto almeno al rischio e alla nocività: già questo sarebbe rivoluzionario [51]
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Anche ad evitare disillusioni e scoramenti, è meglio dunque non riporre sulla migliore qualità del lavoro tutte le speranze di rinvigorire le fondazioni dell’identità sociale [52]
. E soprattutto, attenzione alle cambiali: ci si potrebbe trovare come è capitato al capitalismo, con le sue promesse di maggior quantità.
Accanto alla strada maestra, vari fattori che vanno dall’atteggiamento dei giovani verso il lavoro all’accorciamento dei cicli economici, dalla riduzione del tempo di lavoro all’aumento del tenore di vita, portano oggi a una maggiore elasticità nel rapporto degli individui col proprio lavoro [53]
. Questa non è necessariamente la prova che si lavora di meno, e neppure che si vuole lavorare di meno [54]
. È però un altro indizio che il lavoro, operando come si diceva su basi più ristrette, non può più conferire un’identità globale.
«Oggi si è attenuato il sentimento fatalistico del lavoro a favore di uno più consapevole» [55]
. Il lavoro entra nella vita ma non vi rimane più tolemaicamente al centro, accumulatore ed erogatore della personalità. Un lavoro si può cambiare, si può perfino interrompere [56]
. Siccome la stabilità del posto e la sicurezza del lavoro, per chi ce li ha, sono oggi maggiormente garantiti e solidi di vent’anni fa, l’attaccamento diminuisce, all’uno e ancor più all’altro. E le stesse propensioni a trovare per lo stesso lavoro un posto migliore, o anche un lavoro migliore in un altro posto, diventano meno necessitate, più volontarie. D’altra parte l’identità sociale non è poi così facile da mutare come il colore del colletto, del camice, o della tuta stessa. Si è comunque più disposti a cambiare il lavoro che il posto: traslocare con le abitudini, questo sì che è difficile. D’altra parte la rigidità della forza-lavoro, che è elevata appunto nei confronti degli spostamenti inter-aziendali, è ancora una conquista fresca: lo Statuto dei lavoratori compie appena dieci anni nel 1980.{p. 71}
Non c’è traccia oggi di nomadismo operaio, ma è vero che i giovani operai e gli studenti lavoratori (non i lavoratori-studenti, che ci tengono al loro impiego) mostrano una disinvoltura non irresponsabile nei confronti della continuità di lavoro, del posto fisso, in un periodo nel quale la crisi ha viceversa scoraggiato un po’ dappertutto le fluttuazioni e ridotto il turnover della manodopera. L’ideale di una nuova forza-lavoro flessibile, versatile, mobile e sempre adattabile, che piace a destra come a sinistra, potrebbe essere una ulteriore ma illusoria scalata dell’americanismo, dal momento che le grandi migrazioni paiono finite anche in Europa. Sì, potrebbe, benché nella disposizione alla flessibilità, verificabile in particolare fra le nuove leve lavoratrici, non spicchi tanto la ricerca di una promozione attraverso i lavori, quanto piuttosto di una sopportabilità ed accettabilità del lavoro; un bisogno di gratificazione piuttosto che di identificazione [57]
. Non sostengo neppure che questa disposizione alla flessibilità sia tutta positiva, interamente progressista; e non sono un patito dell’operaio «sociale», che anch’io non conosco e che ritengo un’astrazione politica. Ma la tendenza rimane; e cresce. Le stesse conquiste sindacali — 40 ore e sabato festivo — disarticolano e scuotono il modello del lavoro fisso, del posto stabile, della fedeltà alla ditta, della carriera per anzianità. (Le anzianità aziendali medie, nell’industria stanno scendendo nonostante il forte rallentamento dei tassi di rotazione). Il part-time è solamente una propaggine del fenomeno, che si manifesta meglio: nella mescolanza di figure cui il lavoro a tempo parziale dà luogo; nella domanda di istruzione che proviene da lavoratori già occupati; nella fisionomia ancora in formazione del nuovo lavoratore terziario; nelle spinte all’associazione cooperativa ed al lavoro autonomo.
Sono sintomi, sono segnali. Il problema non è quello di misurare quanto per questa via si concederebbe all’americanismo. Il problema, per il movimento operaio, è un altro, e ripropone lo spostamento dalla «fabbrica» verso la «società» dei fattori costitutivi dell’identità: l’obsolescenza cioè del modello proletario.{p. 72}
Lavoro e identità non si possono lasciar disancorare (non sarebbe neppure possibile), e questo è fuori discussione. Ciò nondimeno, un’identità sociale tutta dal lavoro, una promozione sociale tutta nel lavoro, non reggono più. Anche questo mi pare indiscutibile. È un po’ la stessa cosa delle motivazioni: quelle intrinseche al lavoro vanno diminuendo, mentre la logica capitalistica e anche le conquiste operaie indicano vie estrinseche, non tutte necessariamente antitetiche a quelle, per la realizzazione della propria personalità sociale.
Questa tendenza è da deprecare, certo. Ma ad essa si può resistere? E si deve, o non è meglio cominciare a trarne le conseguenze? Sono interrogativi inquietanti. Si rischiano anche accuse di fatalismo. Ad esempio: com’è possibile che il peso del lavoro si riduca, in una società sana? Questo è appunto il capitalismo, è l’imbarbarimento, la dissoluzione, eccetera: invece è semplicemente la forza taumaturgica dell’ideologia: condanna o riscatto, il Lavoro deve stare sempre fra i ceri.
Brandelli di fede rimangono attaccati alla nostra convinzione profonda, che non si deve cedere passivamente ai meccanismi che sospingono fuori del lavoro i fattori dell’identificazione sociale. Ed una sensazione di insufficienza, di incompiutezza, accompagna la nostra perseverante esaltazione delle doti fondative e promotrici del lavoro. Migliorare il trattamento. E soprattutto elevare la qualità. Questo ci vuole di sicuro. Ma basterà? Sarà risolutivo? Lo scopo del lavoro non è mica il lavoro di qualità. (Questo, direbbe Kirkegaard, è semplicemente un «nome più nobile» alla lotta per se stessi). Beato chi pensa al Lavoro senza portarsi dentro questo dubbio sottile ed atroce che ti fa sentire cedevovole, che può farti giudicare transfuga.
Il problema, nella sua semplicità, è lacerante: rispetto al lavoro, si deve dare una risposta centripeta oppure centrifuga? Le soluzioni non verranno mettendo una «e», laddove ci può stare soltanto una «o». E non si troveranno neppure nella dialettica dell’astratto e del concreto, così appagante. Bisogna scegliere, scegliere tra opzioni che sono diverse anche se continuano a ruotare {p. 73}intorno al lavoro. Quelle prospettabili sono essenzialmente due: rivalutare i contenuti del lavoro produttivo, oppure allargarne i confini, rispetto al paradigma classico del valore/plusvalore.
Molti sono ad esempio persuasi che un rimedio vi sia nel cambiamento e nel controllo dell’organizzazione capitalistica del lavoro. E non saprei se considerare questa come una manifestazione di ottimismo o una forma di pessimismo disperata e radicale. Opta per questa scelta sia chi crede che oggi l’operaio «soffre l’impossibilità di esprimere appieno una personalità che il suo lavoro tende invece oggettivamente a conferirgli» [58]
, sia chi vede al contrario crescere la contraddizione tra «la nuova polivalenza potenziale di cui dispone il lavoratore e la mansione dequalificata e depersonalizzata che è costretto a svolgere» [59]
.
Questa è la scelta del nuovo modo di produrre che, dall’interno del vecchio rapporto sociale di produzione, irradia valori di razionalità e contenuti di egemonia i quali rafforzano le radici produttive dell’identificazione e della promozione sociale [60]
. Il punto di partenza è stato delineato con chiarezza da K. Korsch mezzo secolo fa con riferimento alla Costituzione di Weimar e al Codice del lavoro sovietico: al di là del momento contrattuale, «la classe operaia ora esige una forma diretta di autodeterminazione delle sue condizioni di lavoro, che sono al contempo le sue condizioni di vita» [61]
. Questa via ripropone con coerenza il modello sociale proletario proiettandolo nell’autogoverno dei produttori [62]
, tra l’altro con l’idea che sia vincente lottare sull’organizzazione del lavoro perché nella «struttura gerarchica che la motiva e la sorregge (sta) il nodo del potere, senza la mediazione dell’ideologia, il nodo della libertà» [63]
. Chi si è spinto più oltre su questa via ci ha visto un rinnovamento generale nonché una pianificazione sociale del lavoro, e addirittura una «gioiosa ricostruzione creativa», tale che il maneggiamento stesso delle macchine «rappresenterà una tensione intellettuale, un atto d’amore e di raffinamento intellettuale» [64]
.
Questa strada convince poco, come tutte quelle che
{p. 74}si propongono di risolvere in fabbrica i problemi del lavoro e nello Stato i problemi della politica: sono luoghi deputati, ma guai a fermarsi lì. Questo sembra pertanto un cammino eroico ma è un arroccamento disperato.
Note
[49] É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Milano, Comunità, 1962, p. 394.
[50] Un bilancio di questi anni in F. Butera, Crisi, dibattito e trasformazione nell’organizzazione del lavoro, in «Politica ed economia», n. 6, novembre-dicembre 1978, pp. 49 ss. Cfr. anche F. Chiaromonte, Sindacato, ristrutturazione, organizzazione del lavoro, Roma, Editrice sindacale italiana, 1978
[51] Non va neppure sottovalutata la questione dell’integrità sessuale, minacciata soprattutto per lavori di fabbrica: cfr. G. Berlinguer, Chi lavora non fa l’amore?, in «Rinascita», n. 43, 3 novembre 1978, sunto della relazione all’ultimo Congresso mondiale di sessuologia medica.
[52] Ed è comunque meglio intendersi su cosa sia. Per una definizione non vaga: L. Gallino, A. Baldissera e P. Ceri, Per una valutazione analitica della qualità del lavoro, in «Quaderni di sociologia», n. 2-3, aprile-settembre 1976, p. 297. Cfr. anche la voce Sociologia del lavoro, in L. Gallino, Dizionario di sociologia, Torino, UTET, 1978, dove alle pp. 411-14 il concetto viene sintetizzato con rigore
[53] Cfr. OCDE, L’insertion des jeunes dans la vie active. Rapport général, Paris, 1977. (Vedilo ora tradotto con varie imprecisioni, in appendice a S. Garavini e G. Bolaffi, I giovani e il lavoro, Roma, Editrice sindacale italiana, 1978).
[54] Per J. K. Galbraith, Il nuovo Stato industriale, Torino, Einaudi, 1968, questa è addirittura la prova di una tendenza opposta: vedi il capitolo «Della fatica e del lavoro». A. Hegedüs e M. Markus, Sviluppo sociale e organizzazione del lavoro in Ungheria, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 3642, forniscono pezze d’appoggio per i paesi socialisti.
[55] S. Di Giacomo, Dalla fatica al lavoro: gli studi e le prospettive sul lavoro manuale ed intellettuale, I, in «Impresa e società», n. 13, 15 luglio 1978. C. Wright Mills, Colletti bianchi, Torino, Einaudi, 1966, p. 304, parlava della «sensazione fatalistica che il lavoro in quanto tale è una cosa poco piacevole».
[56] D. Marie, L’aménagement du temps de travail, Genève, BIT, 1977, in particolare il cap. IX, «Vers un réaménagement de la vie active», pp. 65 ss.
[57] Sull’atteggiamento ambivalente dei giovani verso il lavoro, cfr. l’intervento di R. Alquati in AA.VV., Il mondo giovanile, Torino, Stampatori, 1979, pp. 94-100.
[58] A. Minucci, Sul rapporto classe operaia-società, «Critica marxista», n. 1, gennaio-febbraio 1965, p. 38.
[59] B. Trentin, Da sfruttati a produttori, Bari, De Donato, 1977, p. XXVII.
[60] Vedi una serrata critica all’ascendente più diretto di questa via nel saggio di M. Cacciari in G. Lukàcs, Kommunismus, 1920-1921, cit., pp. 11-28.
[61] Cfr. K. Korsch, Consigli di fabbrica e socializzazione, Bari, Laterza, 1970, p. 209, dove si parlava in proposito di «rivendicazione necessaria della classe operaia in marcia verso la sua autoliberazione».
[62] Una via che, mentre Korsch scriveva, si era già chiusa: cfr. le osservazioni di G.E. Rusconi, Karl Korsch e la strategia consiliare-sindacale, in «Problemi del socialismo», n. 41, luglio-agosto 1969, p. 769, riprese in Lo Stato come eredità giacobina nella critica di Karl Korsch, ibidem, n. 16-17, luglio-ottobre 1973, pp. 501-2, e anche M. Cacciari, opera testè citata.
[63] Trentin, op. cit.
[64] Così A. Pannekoek, in Organizzazione rivoluzionaria e Consigli operai, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 63, sebbene non lo si possa ritenere l’unico responsabile di queste ispirate idiozie, ma solamente di averle riproposte da buon ultimo, senza le attenuanti che si potevano addurre quasi 30 anni prima, per la madornale inconsistenza dell’ABC di Bucharin, e oltre mezzo secolo prima, per l’ignavia festosa dell’affresco di Bebel: cfr. le note 48-54 del capitolo precedente.