Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c1
Ma oltre a quella sociale vi è anche una valorizza
{p. 29}zione etica e perfino estetica del lavoro e dei lavoratori, ad opera di intellettuali e artisti i quali avevano abbracciato o volevano sostenere la causa del proletariato, sia denunciando la condizione delle classi subalterne sia esaltando l’apporto del «quarto stato» con il romanzo sociale o popolare, con la pittura verista e realista «della schiena curva». Polemica umanitaria e suggestioni utopistiche davano anch’esse luogo a una produzione collaterale ed eterodossa di pezzi d’una ideologia già in formazione dentro il movimento operaio. Da Victor Hugo ad Émile Zola, da Thomas Carlyle a Edmondo De Amicis, da Gustave Courbet a Pellizza Da Volpedo, il Lavoro campeggia in opere piene di passione (Alcuni autori — ammette Jaccard — «hanno glorificato il lavoro in maniera così eccessiva da far torto alla causa dei lavoratori: come non irritarsi per questa specie di culto?») [85]
.
Fra tutti merita citare quello forse più impegnato, non solo come artista ma come predicatore e militante del movimento operaio: William Morris, le cui conferenze infondono speranze piene di stile e di fascino, creano un’immagine plastica e sognante di quel che potrebbe essere la qualità del lavoro nel socialismo, e concorrono così a completarne e a decorarne l’ideologia. Ciò che appare più singolare, e che maggiormente dovrebbe far riflettere, è questo: l’universo del lavoro nel socialismo è quasi identico in personaggi quali Morris e in dirigenti come Bebel che pure sembrerebbero partire da premesse antitetiche: l’uno dagli archetipi, idealizzati anche da Robert Owen e da John Ruskin, su un lavoro pre-capitalistico nobile ed integro; l’altro, da un modello di lavoro conseguente allo sviluppo della concentrazione produttiva e alla sparizione quindi delle attività pre-capitalistiche o arretrate, secondo le più canoniche previsioni alla Engels e alla Kautsky. Come dire che sulla prefigurazione del Lavoro concreto, del suo uso, della sua distribuzione e dei suoi fini, collima il pensiero coevo di due tipici esponenti del socialismo utopistico e del socialismo scientifico (I quali — va detto — né si conoscevano né si lessero. Solo che, {p. 30}evidentemente, attingevano a comuni fonti d’ispirazione, basate assai più sul capovolgimento che sulla critica della realtà capitalistica). Partendo dalla considerazione che «tutti debbono lavorare secondo le proprie capacità e produrre così quello che consumano, e cioè ogni uomo dovrebbe lavorare meglio che può per produrre il necessario al proprio fabbisogno», anche Morris ritiene che «se tutti lavorassero in maniera utile in vista di ciò, la parte di lavoro che ognuno dovrebbe fare sarebbe piccola anche nel caso che il nostro livello di vita fosse all’incirca quello che gli agiati e i raffinati considerano desiderabile. Avremmo forza-lavoro d’avanzo e in breve saremmo ricchi quanto vogliamo. Facile sarebbe la vita» [86]
. Come procedere? Anche Morris pensa che «il primo passo per rendere il lavoro attraente è quello di impadronirci dei mezzi che possono renderlo fruttuoso [...]. Quando questo felice giorno giungerà, saremo sollevati dalla tassa dello spreco e scopriremo che abbiamo una massa tale di forza-lavoro da metterci in condizione di vivere come vogliamo, entro i limiti della ragionevolezza». A quel punto, «la prima cosa che dovremo considerare necessaria sarà il problema di rendere il lavoro piacevole. Il lavoro assolutamente necessario che ancora ci toccherà fare non prenderà che una piccola parte della nostra giornata, e quindi non sarà pesante; ma, come compito quotidianamente ricorrente, ci rovineremmo il piacere della giornata, a meno che non lo si rendesse a dir poco sopportabile nelle ore che bisognerà dedicargli. In altre parole, ogni lavoro anche il più comune dovrà essere reso attraente». A tale scopo «la varietà del lavoro è un punto molto importante: un uomo potrebbe facilmente apprendere ad esercitare almeno tre arti, passando da una occupazione sedentaria ad un’occupazione all’aria aperta, da un lavoro che richiede grandi energie fisiche a un lavoro che coinvolge essenzialmente le energie intellettuali [...]. La quantità di talento e perfino di genio che l’attuale sistema schiaccia e che un sistema diverso invece valorizzerebbe, renderebbe il nostro lavoro quotidiano facile e divertente» [87]
. L’acquarello di Morris così prosegue: «Le {p. 31}fabbriche potrebbero essere anche centri di vita intellettuale, e il lavoro vi potrebbe essere molto variato: stare alle macchine occuperebbe solo una breve parte della giornata di ogni individuo. Il resto del lavoro varierebbe dalla coltura della campagna circostante per il cibo necessario, allo studio ed esercizio dell’arte e della scienza» [88]
. Morris esprime la convinzione che la gente «dopo un po’ cercherebbe il lavoro invece di fuggirlo», e che «le nostre ore di lavoro somiglierebbero ad allegre feste dove ragazzi e ragazze, giovani e vecchi, si divertono a lavorare insieme» [89]
, inquantoché «il lavoro dovrebbe essere di per sé una benedizione reale e tangibile per il lavoratore: un piacere come adesso sono per lui il sonno e l’alcool» [90]
. Non solo: «Dopo un certo tempo gli uomini si renderebbero conto di non dover più angustiarsi per la semplice sussistenza e imparerebbero a interessarsi e ad amare il lavoro a mano, il quale, fatto per libera scelta e con intelligenza, potrebbe diventare più attraente del lavoro fatto a macchina» [91]
. Sentenzia in proposito Morris: «Questo complesso piacere che è proprio del lavoro manuale, io lo dichiaro naturale diritto di tutti gli uomini» [92]
: e qui, in codesta elegia ed ideologia della manualità, c’è forse il massimo punto d’incontro fra intellighentia estetica e movimento operaio sul lavoro come valore.
La Comune di Parigi, nel rivelare un antagonismo di classe dietro al quale la borghesia vede l’Internazionale, introduce invece una cesura: l’elogio del lavoro si separa e si allontana dalla considerazione per il proletario. Cosicché, per tutto un periodo, il lavoro viene quasi contrapposto a chi lo fa. Il lavoro si eleva sull’operaio, al posto dell’operaio, nel senso — come in Rousseau — di «rivalutare il lavoro in astratto, non i lavoratori come classe»: cosicché «il lavoro diventa un attributo dello spirito» [93]
.
«Non è il lavoro che degrada l’uomo, ma anzi lo nobilita»: così la Chiesa cattolica trasfigura poi la questione operaia in quella Rerum novarum la cui socialità, dati i precedenti, viene ritenuta audacissima. Questo periodo coincide oltretutto con l’esaltazione delle Mera{p. 32}vigliose Imprese dell’Uomo: sono gli anni dopo il taglio del canale di Suez, in cui costruzioni ed invenzioni si susseguono e l’euforia contrassegna le Esposizioni universali. Le scene di Germinai sono state rimosse e sullo sfondo adesso c’è la Tour Eiffel.
È l’apoteosi del Lavoro, un valore del cui possesso la borghesia imprenditoriale non è più gelosa come un tempo, e che l’unionismo operaio le vuole comunque disputare. (Il primo sindacato americano è l’Ordine dei cavalieri del lavoro: titolo di cui vengono tuttora insigniti, dal governo italiano, gli imprenditori meritevoli). Il risultato non è solamente un’epoca di retorica. La piena omologazione del lavoro, infatti, è anche il tentativo di trasmettere alla classe operaia la staffetta di un’etica dell’operosità individuale, di una morale cioè che faccia sentire con amore le regole del lavoro [94]
. E qualcosa deve essere rimasto, se nel Diritto all’ozio P. Lafargue tuona perché «il proletariato, misconoscendo la sua missione storica, si è lasciato pervertire dal dogma del lavoro»; e se per l’appunto «questa follia è l’amore per il lavoro» [95]
. Il movimento operaio stesso non ne è restato indenne. Proprio per questo, il ribaltamento libertario del lavoro nel suo contrario non serve. Servirebbe la critica dell’ideologia.
Ma appunto, l’Ottocento è, «pel concetto di lavoro, il gran secolo, il secolo d’oro. Esso vede il trionfo del lavoro umano e, correlativo a questo, il trionfo del concetto in cui il lavoro umano si teorizza ed assume coscienza di sé. Da umile concetto subordinato nel sistema dei concetti morali, il concetto di lavoro si spinge sempre più su nella gerarchia dei concetti filosofici, sempre più grandeggia d’importanza e di significato, sempre più subordina a sé gli altri concetti e divora quelli rivali per finalmente assurgere alla dignità di concetto-chiave di tutta una visione del mondo e della vita», come scriveva A. Tilgher [96]
 segnalando già mezzo secolo fa «sintomi di esaurimento o, almeno, di serissima crisi», talché «universale è il lamento che le generazioni giovani non bruciano più della febbre del lavoro che arse i loro padri» [97]
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5. La centralità esistenziale e l’obbligazione sociale al lavoro

Non è detto che nella storia Videa di lavoro debba per forza seguire una parabola. Ma sembra chiaro che, mentre nel secolo scorso aveva toccato un culmine, in questo la traiettoria si è incurvata verso il basso. È soprattutto dopo gli anni ’50 che essa ha cominciato a perdere smalto e terreno, rispetto all’area e all’enfasi dei riconoscimenti raggiunti dalla seconda metà dell’Ottocento in poi.
C’era stato negli anni ’50, anni di duro e frenetico rilancio del capitalismo, un momento nel quale era sembrato che il lavoro umano potesse nuovamente riscattarsi ad opera del progresso tecnico, come mostravano le stampe del secolo scorso. Auspice era stavolta quella che si discuteva se chiamare, o no, seconda rivoluzione industriale: cioè l’automazione. Pareva aprirsi un’epoca di liberazione progressiva dai lavori più stressanti e insipidi, e di elevamento nella qualità delle mansioni lavorative. Questa era un’occasione per cui battersi affinché ne sortissero tutti i benefici sociali possibili anziché della disoccupazione tecnologica, come sarebbe accaduto lasciando fare al capitalismo. A maggior ragione, bisognava incalzare il capitalismo ad applicare il progresso tecnico, sfidarlo su questo terreno. Così facendo, la classe operaia non si collocava soltanto agli antipodi rispetto ai propri antenati luddisti, ma poneva basi realistiche e non escatologiche per modificare a proprio favore l’equilibrio tradizionale fra faccia negativa e faccia positiva del lavoro. (E a Torino il movimento operaio era stato così audacemente conseguente da rivendicare subito le 40 ore, proprio al cospetto delle grandi imprese dove c’era sì il progresso tecnico, ma dove lavorare era più duro).
L’illusione non durò molto più a lungo di quanto fossero durati gli echi al libro di F. Pollock e i dibattiti sull’automazione. Ormai si parlava in Italia di «miracolo economico». Non so se da allora sia venuta diffondendosi quella percezione di una vita oramai «affrancata
{p. 34}dalla durezza», di cui parla G. Sartori [98]
. Si è però dovuto constatare da allora che l’amore per il lavoro non è poi diventato così naturale come pensava il socialismo dell’800, né così abitudinariamente accetto, nonostante un secolo di industrialismo abbia fatto del lavoro «l’elemento ordinatore essenziale della società», quale P. Naville ritiene sia stato sempre [99]
. Anzi, rispetto al modo come le lucciole dell’automazione avevano illuminato l’idea di lavoro — mezzo secolo dopo che l’ingegner Taylor aveva cominciato a frantumarlo scientificamente — si è finito col giudicarne perfino innaturale la realtà, e proprio per quel lavoro industriale che l’automazione doveva avvantaggiare [100]
.
Note
[85] P. Jaccard, Storia sociale del lavoro, cit., p. 272.
[86] W. Morris, Come potremmo vivere, cit., pp. 106-7.
[87] Ibidem, pp. 110-13.
[88] Ibidem, pp. 115-6.
[89] Ibidem, p. 168.
[90] Ibidem, p. 132.
[91] Ibidem, p. 118.
[92] Ibidem, p. 77.
[93] A. Illuminati, J. J. Rousseau e la fondazione dei valori borghesi, Milano, Il Saggiatore, 1977, p. 167.
[94] Si vedano ad esempio: il ritratto «Samuel Smiles e il Vangelo del lavoro», in A. Briggs, L’Inghilterra vittoriana, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 122-44; e la già citata biografia di P. Bairati, Benjamin Franklin e il dio operaio. Sull’uso edificante delle massime che quest’ultimo pubblicò sul Poor Richard’s Almanack, ad opera di contesse e industriali del vecchio mondo, cfr. P. Jaccard, Storia del lavoro, cit., pp. 254-6. Sull’etica del lavoro negli USA vedi il tentativo di ridimensionamento compiuto da H. G. Gutman, Lavoro, cultura e società in America nel secolo dell’industrializzazione 1815-1919, Bari, De Donato, 1979.
[95] P. Lafargue, Il diritto all’ozio, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 115. Il curatore, M. Dommanget, fa notare a p. 55 che il genero di Marx non si richiama qui all’Internazionale perché «l’apologia, per non dire la deificazione del lavoro fatta al congresso di Ginevra (1886) dai delegati francesi, poteva solo infastidirlo».
[96] A. Tilgher, Homo faber, cit., p. 83.
[97] Ibidem, pp. 127-8.
[98] G. Sartori, Il potere del lavoro nella società post-pacificata, in «Quaderni della Rivista italiana di scienza politica», n. 2, 1976, p. 93.
[99] P. Naville, Il metodo nella sociologia del lavoro, in G. Friedmann, P. Naville, Trattato di sociologia del lavoro, cit., vol. I, p. 58.
[100] Accecato è risultato anche J. Boggs: La rivoluzione americana, Milano, Jaca Book, p. 39, dove si pronostica un non-lavoro da progresso: «Entro pochi anni l’uomo-forza produttiva sarà sorpassato come il mulo».