Giuseppe Antonelli, Giacomo Micheletti, Anna Stella Poli (a cura di)
Verso il museo multimediale della lingua italiana
DOI: 10.1401/9788815410283/c6
Infine vi sono musei dedicati alle culture linguistiche rappresentate entro uno spazio geografico: il primo esempio di questo tipo è stato il Museo della lingua canadese fondato nel 2011 presso l’Università di Toronto e ancora diretto da Elaine Gold, docente di linguistica in quell’ateneo per oltre vent’anni. Il Museo è nato per invitare il pubblico canadese a conoscere e a interessarsi alla ricchezza delle diverse culture linguistiche rappresentate nel vasto territorio del paese, che comprendono le due lingue ufficiali (inglese e francese), i loro dialetti locali e un numero considerevole di lingue indigene (fig. 1); e inoltre numerose «lingue di tradizione» (o heritage languages, come sono definite nei contesti anglosassoni), fra cui ad esempio l’italiano, disseminate nel territorio dai migranti che vi si sono stabiliti nel corso del tempo. Il museo funziona essenzialmente attraverso mostre
{p. 64}itineranti, organizzate dagli studenti dell’ateneo e portate in tutti gli angoli del paese, ma ha anche una piccola sede fisica presso la Glendon Gallery (Glendon College, Toronto, ON) e un sito molto ben fatto (https://www.languagemuseum.ca, ultimo accesso: gennaio 2023).
Fig. 1. Da Cree: The People’s Language, mostra presso il Canadian Language Museum.
Fig. 1. Da Cree: The People’s Language, mostra presso il Canadian Language Museum.
Il Canadian Language Museum costituisce un modello di museo della lingua assai interessante. L’oggetto rappresentato è la cultura linguistica entro uno spazio geografico chiaramente identificato, il che consente di sottrarsi allo spinoso problema di cui si è parlato nel paragrafo precedente, ossia quali lingue rappresentare. Il museo è legato a una grande università – che ha pertanto come missione istituzionale l’insegnamento, la ricerca e la divulgazione del sapere – e, pur dotato di un piccolo spazio al suo interno, si proietta essenzialmente, se non esclusivamente, verso l’esterno. In epoca di pandemia anche questo museo ha intensificato le proprie attività in rete e in forma virtuale, che in questo caso – proprio in ragione della vocazione itinerante con cui il museo è nato – è in un certo senso un formato naturale per le sue attività.
Un progetto simile è in corso d’opera da circa dieci anni presso La Sapienza. Si chiama Eurotales, ed è anch’esso legato a una università e nutrito dalla collaborazione attiva fra docenti, studenti e territorio (fig. 2). Come il museo canadese, Eurotales è dedicato a uno spazio geografico, l’Europa, e {p. 65}ha l’ambizione di riuscire a trovare forme innovative per l’identificazione, la rappresentazione e lo studio, nonché la condivisione del patrimonio culturale immateriale costituito dalle lingue che si sono intrecciate in Europa, nella storia passata e nel tempo presente. Il museo-laboratorio raccoglie i dati sulle lingue in due grandi database: Tracce di voci e Risonanze. Tracce di voci raccoglie come singoli oggetti di esposizione e di studio, e dunque come documenti di archivio, le «tracce di voci» reperibili dal territorio [9]
. Una traccia (in questa accezione) è una eco di lingua testimoniata e conservata grazie al suo legame con un monumento, un luogo, un oggetto, un muro, uno spazio urbano, un murale, un’iscrizione, un graffito; le tracce sono ricavabili dalla toponomastica, da tradizioni orali, canti o da oggetti parlanti. Esiste infatti una relazione profonda e stratificata che unisce gli oggetti fisici al loro intangibile significato, e una dimensione linguistica nell’esperire la cultura materiale. Gli oggetti si conservano perché le comunità annettono loro un valore; i luoghi si legano a tradizioni di cui la collettività conserva memoria, e come queste ultime conservano traccia di atti linguistici che mette conto portare alla luce, per riuscire così {p. 66}a ricostruire, almeno in parte, l’archeologia delle lingue che si stratificano nella storia e nella vita dei territori [10]
.
Fig. 2. Eurotales, Università di Roma La Sapienza.
Fig. 2. Eurotales, Università di Roma La Sapienza.
Considerate nel loro insieme, le tracce costituiscono un museo vivente in grado di restituire una documentazione delle lingue che hanno risuonato – a qualunque titolo – in un territorio. L’idea di Eurotales è di costruire un’esposizione, pensata come un museo diffuso, il ©Diffuseum, e incoraggiarne la visita, sia virtuale sia fisica. La dimensione virtuale del museo consente di raggruppare le tracce attraverso un complesso sistema di parole chiave, in modo che i visitatori possano crearsi itinerari da percorrere sul territorio nel quale si trovano. A Roma, ad esempio, in prossimità dell’università si possono inseguire le voci del latino parlato fra IV e VIII secolo grazie alle testimonianze sparse nelle iscrizioni, visibili in gran numero nei chiostri della basilica di San Lorenzo fuori le Mura, nei chiostri della basilica dei SS. Quattro Coronati e nell’area intorno alla basilica di San Giovanni; oppure si possono rintracciare le voci contemporanee nella street art fra Pigneto, Quadraro e Trullo. Ma è possibile anche inoltrarsi in viaggi ideali, inseguendo una lingua, una forma o un personaggio: vi sono ad esempio iscrizioni runiche che corrono dalla Svezia all’Irlanda, tracce delle firme e delle lingue di mercanti e guerrieri scandinavi inoltratisi sulle rive dei fiumi che hanno attraversato l’Europa fino a Bisanzio, e sono arrivati in Italia, lasciando memoria di sé anche nelle catacombe romane e pugliesi [11]
; si possono visitare le firme che Byron, Piranesi e altri hanno lasciato sugli scavi di capo Sunio o a {p. 67}Villa Adriana o i graffiti dei Lanzichenecchi che sfregiano gli affreschi nelle Stanze Vaticane, e valutare il legame che essi stabiliscono fra la cultura dei loro autori e i siti di cui si vollero simbolicamente appropriare.
Il secondo database, Risonanze, mira a fornire una identificazione, una classificazione e un archivio delle culture linguistiche degli individui – sia figure storiche o contemporanee note, sia i membri della comunità e potenzialmente anche i visitatori dello spazio virtuale (web e app) e del museo-laboratorio che vogliano partecipare alla raccolta dei materiali fornendo in forma anonima i loro dati personali. Come le tracce inseguono la memoria della cultura linguistica immateriale legata agli oggetti materiali, così le risonanze raccolgono i dati legati alla vita delle persone, in un esperimento di tracciamento, identificazione e ricerca volto a rivelare l’archeologia delle lingue presenti negli individui e il rapporto funzionale che si è stabilito fra di esse nel tempo, e che varia naturalmente con la storia politica e sociale dei territori. Sfugge spesso alla percezione generale, e persino a quella degli studiosi, che per molti scrittori latini – compresi Catullo, Virgilio e Seneca – il latino non era la lingua madre, né l’unica in uso. È scoperta recente che a Pompei si rappresentavano opere teatrali in greco – segno che la conoscenza di quella lingua doveva essere ben diffusa nella prima età imperiale, e non solo nelle classi intellettuali –, mentre meno noto è che il sicano era lingua ancora in uso in Sicilia nel V secolo (testimoniata epigraficamente in caratteri greci; sull’isola si conservano anche testimonianze epigrafiche di osco in caratteri greci) [12]
. Si tratta di una preistoria che ha segnato anche le lingue moderne – e l’italiano fra le altre –, e che costituisce il tratto caratterizzante della cultura linguistica e della storia culturale dell’Europa. È appena necessario ricordare che per la maggioranza assoluta degli scrittori canonici della nostra letteratura l’italiano non {p. 68}era lingua madre, né – spesso – la prima o unica lingua di uso scritto, ma solo la lingua dell’arte. Questo vale naturalmente per gli scrittori bassomedievali, e più in là per Matteo Maria Boiardo, Ludovico Ariosto, e via via per Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni, fino a Grazia Deledda, Luigi Pirandello, Italo Svevo, Pier Paolo Pasolini e Luigi Meneghello. Questo vale anche – come è stato segnalato, ma non studiato analiticamente – per altre figure chiave della nostra storia: qual era la lingua madre di Federico II o di Ildegarda di Bingen, di Bianca Maria Sforza o di Isabella d’Este? E quale quella di Napoleone, Cavour, Francesco Crispi o Marie Curie? Quali sono le lingue che in loro hanno risuonato e quali sono le diverse funzioni che esse hanno svolto per ciascuno di questi individui? Sono dati che contrastano con l’idea comunemente diffusa che si scrive nella lingua in cui si parla, e che la nostra cultura personale è fondamentalmente monolingue, quando invece il monolinguismo è piuttosto l’eccezione che la regola.
Infine, recentissimo è il progetto dell’Università di Cambridge, diretto da Wendy Ayers-Bennet [13]
e finanziato dall’ARHC (Arts and Humanities Research Council, un soggetto pubblico), che ha lanciato un museo pop-up, cioè itinerante e allestito in brevissimo tempo in luoghi pubblici (centri commerciali, negozi, ristoranti), con lo scopo di diffondere informazioni e soprattutto interesse per le lingue, per la coscienza della propria identità linguistica e il multilinguismo. Nelle intenzioni iniziali il progetto avrebbe dovuto costituire un modo per saggiare l’interesse e la fattibilità di un museo permanente dedicato alle lingue e al multilinguismo, ma pure in questo caso le conseguenze della pandemia lo hanno temporaneamente fermato, anche se il museo intende coltivare almeno una presenza virtuale in rete.
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Note
[9] Il sito di Eurotales (www.eurotales.eu), curato dalla società AND (Ambienti narrativi digitali) di Firenze, sarà online a breve.
[10] Il termine «traccia» è stato coniato da Armando Petrucci per descrivere quei testi della prima tradizione scritta del volgare che si conservano in spazi non originariamente destinati alla scrittura, grazie al valore del supporto sul quale sono stati lasciati [Petrucci 1983]. Prendo a prestito la definizione, adattandola alla nostra fattispecie, da Petrucci e dagli studi di antropologia con cui mi pare vi sia una innegabile convergenza [cfr. Bille, Hastrup e Sørensen 2010; Napolitano 2015].
[11] Dodici nomi anglosassoni, ad esempio, sono stati identificati nelle catacombe di Commodilla, dieci nelle catacombe dei SS. Marcellino e Pietro, sempre a Roma, e fra questi anche quello di una donna – Faghild. Si veda per tutta la tematica Sönmez, Cannata e Gahtan [2023].
[12] Fonti inesauribili di notizie sulle stratificazioni linguistiche nella Sicilia antica sono il progetto ERC Crossreads, diretto da Jonathan Prag, e il suo antecedente I-Sicily. Cfr. https://crossreads.web.ox.ac.uk/#/ (ultimo accesso: gennaio 2023).