Umberto Romagnoli
Contrattazione e partecipazione
DOI: 10.1401/9788815374950/p3
Il proposito espresso da Bassetti a più riprese, che la
{p. 22} consultazione dovesse essere una occasione per la crescita del movimento sindacale ha trovato perciò un moderato riscontro. «Moderato» perché non tutte le possibilità vennero sfruttate, e ciò, in buona misura, per l’asten­sionismo della CGIL, che, giudicato con gli occhi d’oggi, appare in fondo avulso da una realistica impostazione strategica e piuttosto dominato da un astratto ideologismo (il «no» di principio alla «collaborazione», la politica delle mani nette cui non si affianca la indicazione di una alternativa di strategia aggressiva, idonea a parimenti muo­vere le acque nello stagno).
Aver favorito la formazione di condizioni favorevoli alla contrattazione d’azienda, non è peraltro un risultato di poco conto. E, nel visibile scarto tra il linguaggio del 1958 e quello del programma del 1965, si ha immediata evidenza di un fatto centrale: che cioè la «cooperazione produttivistica» passa ormai in secondo piano, ed è anzi delineata come una finalità «posta in crisi» dagli eventi, mentre la consultazione mista emerge come valore in sé, di cui si sancisce «la natura sindacale e contrattuale».
Il disegno originario, d’altronde impreciso e capace di vari sviluppi alternativi, esce così notevolmente alterato. La collaborazione non è più neppure intravvista in prospettiva, bensì l’accento è posto su un’area di convergenze dove «le motivazioni di ordine sociale e sindacale» acquistano un senso parallelo rispetto a quelle produttivistiche, tra «parti che sono e restano diverse per natura ed interessi». Ed è, questo, esattamente, il linguaggio della contrattazione.
8. Ma l’arco dalla consultazione produttivistica alla contrattazione aziendale non è che una parte del ciclo evolutivo. Già la contrattazione nella consultazione è esplicitamente collegata ad argomenti che (tutela psicofisica, difesa della continuità di reddito, affermazione della personalità, condizioni di lavoro), come i problemi dell’efficienza, non attengono, se non in limitata misura, all’area normale della contrattazione, ma cominciano a divenire{p. 23} materia di essa solo da pochi mesi, dalla primavera del 1968. Ed il programma del 1965 delinea già, pertanto, una prospettiva contrattuale sensibilmente avanzata.
Ma, in aggiunta a ciò, si inserisce ora una indicazione di ben più lungo raggio: l’attività di consultazione mista, nel rilancio del 1965, pone apertis verbis il proposito di introdurre, in prospettiva, il discorso del piano aziendale. E al sindacato si apre una problematica che, per molti aspetti, finisce per apparire prematura, ma che è la problematica del presente e del domani prossimo.
La vicenda del programma riorganizzativo (1966-67) è sotto questo aspetto significativa. Di fronte ad un progetto di ampie innovazioni tecniche, la direzione non avrebbe potuto sottrarsi ad una discussione che, valicando i limiti di una negoziazione rivendicativa sugli effetti del progresso tecnologico, investisse i temi del come e del quando dello stesso. Il timore di «integrazione» ha operato da freno. Ma nulla vi è di più integrante, in realtà, che una negoziazione dei soli effetti delle scelte imprenditive. È proprio la logica della contrattazione, invece, che spinge sempre più a monte, nella frontiera mobile tra le prerogative direzionali e potere negoziale del sindacato.
La tecnostruttura moderna ‒ rileva l’ultimo Galbraith [8]
‒ condiziona a tal punto le scelte del sindacato, che ‒ almeno negli USA ‒ questo ne è ormai già praticamente aggirato: la risposta che il sindacalismo europeo può dare, forse più agevolmente di quello americano, è nell’escalation della contrattazione verso le sedi decisionali effettive e verso le materie in cui le scelte sono condizionanti dei contenuti stessi della contrattazione nella configurazione che essa ha oggi.
Non si tratta qui neppure ‒ come ben ha dimostrato il Momigliano [9]
‒ di un salto di qualità nel contenuto dell’azione sindacale. Gli ideologhi del sindacato come agente di contestazione del potere di pianificazione nel{p. 24}l’impresa ‒ si veda, ad esempio, André Gorz [10]
‒ potranno avere la sorpresa di trovarsi di fronte a mutamenti della contrattazione, nel senso da essi auspicato, ma senza una rottura ideologica tra il vecchio e il nuovo. E questo è certamente possibile, dove almeno, come nella gran parte dei movimenti sindacali europei, non operi il principio delle managerial prerogatives, intese come una zona di potere circoscritta a priori, in derivazione del principio dell’iniziativa economica privata.
Tuttavia, la prudenza del sindacato maggioritario, che nel caso della Bassetti tese a sottrarsi ad una globale discussione del piano, ha una sua logica, che non va sottovalutata. Il rifiuto ideologico, come si è visto, è oggetto di una suggestione delle definizioni e dei valori semantici, più che di una valutazione della situazione reale nelle concrete prospettive di essa. Ci si oppone alla consultazione-collaborazione come idea, non tanto a quella, specifica, posta in essere alla Bassetti, e che nella sua evoluzione approda infine al lido della consultazione contrattuale. Ma è anche vero che il sindacato non dispone che di teorie molto approssimative e generiche intorno al ruolo che può essere chiamato o indotto a svolgere nella contestazione del piano d’impresa. Più che di teorie dispone invero di slogans. Opporre il «contropiano» al piano è un’espressione efficace. Ma che cosa possa essere questo «contropiano» è molto meno chiaro. L’idea che in esso si debba esprimere un modello globale di valori alternativi a quelli della società capitalistica opulenta (ancora, Gorz [11]
, seguito in parte da Ruffolo [12]
) è alquanto utopica. L’escalation contrattuale dovrebbe svolgersi all’insegna di valori in contestazione con la razionalità neo-capitalistica-consumistica: ma se ‒ per fare un esempio ‒ i lavoratori dell’automobile possono aspirare ad un maggior potere per determinare le decisioni anche produttive della FIAT, ci attenderemo da essi la richiesta di{p. 25} deviare gli investimenti verso altre produzioni, e di diminuire la produzione di autovetture, simbolo più appariscente delle società dei consumi? Fatto è che, se la dialettica impresa-sindacato può condurre ad un risultato di più alta efficienza sociale, questo non va ascritto nei fini istituzionali né dell’una né dell’altra parte, anche se, di volta in volta, può costituire un argomento estremamente efficace a favore dell’una o dell’altra. Il sindacato non può superare istituzionalmente l’orizzonte di interessi particolaristici. Questo è compito del programma economico nazionale, e tanto meglio se le scelte da quest’ultimo compiute coincideranno con quelle dei sindacati. Ma che ciò debba avvenire o avvenga, non è affatto scritto. Il piano non è il sindacato, né per fortuna il sindacato è il piano.
Ma, pur operando nel suo limitato orizzonte istituzionale, il sindacato può e deve affrontare la discussione delle scelte imprenditoriali anch’esse inerenti ad una visione particolaristica; lo può fare, perché esso muove, proprio in quanto è sindacato, da una diversa scala di priorità di valori. All’efficienza tecnocratica, verso cui tende naturaliter l’impresa, esso oppone le esigenze della difesa dell’occupazione, della valorizzazione della professionalità, della liberazione del lavoro dai più gravi aspetti di monotonia, sforzo, nocività. Tali valori possono essere posti a premessa di un progetto di produzione che, in un rapporto negoziale, costituirà il termine di riferimento per il compromesso finale. È un rapporto che nulla ha a che vedere con la cogestione di marca tedesca (che presuppone una convergenza di interessi, mediata in organi comuni); può meglio emergere da esperienze di consultazione, tra­sformandone in profondità la natura. Esso fa pernio tuttavia sul sindacato, e cioè su un centro di riferimento di interessi distinti da quelli dell’impresa, eppertanto, capace di esprimere una valutazione del tutto autonoma; un soggetto che pone in essere un rapporto che è contrattuale, ma non più rivendicativo nel senso tradizionale. Tale rapporto, infatti, non si limita a prender atto delle decisioni dell’impresa per negoziarne le condizioni di accettazione, bensì pone in discussione le stesse, pur restando dispo{p. 26}nibile per soluzioni che, ovviamente, in quanto frutto di discussione, non appagheranno mai totalmente né l’una né l’altra parte.
L’esperienza della consultazione mista alla Bassetti, ci pare abbia un senso positivo proprio in questo. Essa, mentre ha precostituito le condizioni per rapporti contrattuali nell’impresa, con contenuti già più avanzati rispetto alla media, ha poi dischiuso la possibilità di affrontare nuovi e più vasti problemi, profilandosi come possibile terreno per una autentica esperienza d’avanguardia.
Oggi, l’esigenza di una approfondita discussione degli orientamenti e dei contenuti della contrattazione è avvertita. I limiti del puro rivendicazionismo distributivo sono sovente denunciati; il più delle volte, ahimè, con atteggiamenti snobistici di massimalismo intellettuale. Alla vacuità di tali impostazioni il sindacato deve rispondere con un penetrante approfondimento critico della realtà e con alternative fatte di cose e di dati concreti. L’analisi di una particolare e singolare esperienza aziendale può fornire qualche indicazione o quantomeno: stimolare una discussione basata su avvenimenti, non su parole.
Gino Giugni
Note
[8] Il nuovo Stato industriale, trad. it., Torino, 1967, p. 246.
[9] Sindacato, progresso tecnico, programmazione economica, Torino, 1966, p. 130.
[10] Stratégie ouvrière et néocapitalisme, Paris, 1964.
[11] Stratégie ouvrière, cit.: v. a p. 71 un tentativo di calare nel concreto, in cui si rivela la debolezza dell’ipotesi teorica.
[12] La grande impresa nella società moderna, Torino, 1967, p. 260.