Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c2
Alla presa di posizione della rivista confindustriale ci si sarebbe aspettati una replica da parte della rivista di Bottai
{p. 87} («Il diritto del lavoro»): e invece, nel 1930, la rivista pubblicava con molto rilievo una serie di sentenze che negavano l’indennità di anzianità all’impiegata dimissionaria per causa di matrimonio [125]
, accompagnate da favorevoli note di commento [126]
. Rispetto allo scritto di Cattaneo, questi interventi presentano due aspetti di novità: il primo è l’estremizzazione della tesi favorevole all’impiegata; il secondo è il tono dei commenti fortemente critico verso la giurisprudenza «politicizzata». Sotto il primo profilo, prende corpo, nelle pagine della rivista di regime, una subdola revisione della giurisprudenza che aveva affermato l’illiceità delle clausole, che, imponendo all’impiegata di lasciare il lavoro in caso di matrimonio, negavano alla licenziata (o dimissionaria forzata) l’indennità di anzianità: revisione subdola, perché tale giurisprudenza era formalmente accettata. Dalla premessa illiceità delle clausole suddette, si traevano infatti conseguenze che, mentre stravolgevano il senso della soluzione giurisprudenziale (limitata alla disposizione sull’indennità), vanificavano il pur modesto risultato raggiunto. Si partiva dall’affermazione dell’illiceità dell’intera clausola di nubilato, ma, anziché far discendere dalla illiceità della clausola la nullità dell’atto di recesso (e conseguente conservazione dell’impiegata nel posto di lavoro), si concludeva per la volontarietà del recesso medesimo, escludendo il diritto all’indennità. Con questo singolare ragionamento: se le clausole sono illecite, debbono considerarsi inesistenti, e quindi non vincolanti l’impiegata: d’altra parte, il matrimonio, che non è causa di forza maggiore, non costringe l’impiegata a dimettersi; pertanto, se l’impiegata che vuole sposarsi si dimette, le sue dimissioni sono volontarie, indipendentemente dal fatto che l’impiegata stessa lasci il lavoro per sua libera scelta, ovvero in ossequio ad una clausola del contratto o del regolamento giuridicamente non vincolante.
La questione dell’indennità all’impiegata dimissionaria venne conclusa allora da una salomonica sentenza della cassazione [127]
. Come vedremo, la questione della illiceità delle clausole di nubilato doveva invece trascinarsi, con incerti risultati, per molto tempo ancora; per allora c’è da dire che era questo, che ho riferito, il modo padronale di intendere la{p. 88} politica demografica del fascismo: a casa, e zitte.
Dei due aspetti di novità che si profilano nella trattazione del problema delle dimissioni per causa di matrimonio, il secondo ‒ vale a dire l’inasprirsi della polemica contro la politicizzazione dei giudicati ‒ mi pare meriti qualche considerazione di carattere più generale.
Se l’anno precedente la rivista confindustriale aveva criticato con dovizia di argomenti tecnico-giuridici la sentenza di Padova, ma cautamente aveva glissato sui temi politici messi in campo dal pretore, sulle pagine de «Il diritto del lavoro» la questione politica viene affrontata esplicitamente. Si comincia con l’augurarsi [128]
che la carta del lavoro «sia lasciata un po’ tranquilla» e non sia «tirata in ballo a proposito e a sproposito» [129]
; per passare a deplorare poi «divagazioni e sfoghi inutili di tendenze spirituali» che creano una giurisprudenza «a simpatia o ad antipatia» [130]
; per sottolineare «l’obbligo che incombe al magistrato di non lasciarsi influenzare dalle sue idee personali (principi) e tendenze» [131]
; per concludere infine: «una buona volta si abbandoni la facile retorica [...]. Si ritorni dunque alla tradizione giuridica Il magistrato può errare, è umano, ma deve nelle sentenze lasciar scorgere una sola idea: la legge; una sola luce: il diritto [...]: non gli è lecito vagolare alla ricerca dei moventi eterogenei e sentimentali per giustificare soluzioni nuove, quando la legge positiva tace e la grande bussola, nostra maggiore gloria, il diritto romano, offre una soluzione contraria» [132]
.
Le frasi che ho citato ripropongono, nel linguaggio insieme becero e retorico di questi giuristi mediocri, temi largamente discussi fra tutti i giuristi del ventennio [133]
. Di singolare ed illuminante, l’esempio su cui mi sono soffermata ha solo l’oggetto.
Come è noto, i fascisti si erano riempiti la bocca di «provvidenze sociali», e nel promulgare la carta del lavoro si erano impegnati a dare un’organica regolamentazione dei contratti di lavoro. Ma, all’inizio degli anni ‘30, mentre la disciplina dei rapporti individuali di lavoro era affidata alla contrattazione collettiva obbligatoria ‒ con i pochi vantaggi normativi ed i molti svantaggi salariali che tutti conosco{p. 89}no ‒, l’unica categoria che godesse di una legge quadro per la disciplina dei rapporti di lavoro, era quella impiegatizia. Rispetto alle condizioni di lavoro degli operai, quelle che gli impiegati avevano ereditato dallo stato liberale erano senz’altro privilegiate [134]
: e le intenzioni del regime non erano quelle di aumentare i già consistenti privilegi degli impiegati, né di estendere agli operai (fatta eccezione per i pochi istituti in cui il compromesso era stato raggiunto nell’elaborazione della carta del lavoro) la disciplina del rapporto di impiego privato [135]
.
Il duro richiamo che dalle pagine de «Il diritto del lavoro» veniva fatto ai giudici, perché si attenessero, senza divagazioni sentimental-politiche, alla legge, aveva allora questo significato: non una rivendicazione di indipendenza della magistratura dal potere esecutivo, ma la richiesta di una più precisa osservanza della dipendenza dal potere esecutivo. Se la politica legislativa dei fascisti era avara di riforme sociali, quelle riforme non potevano essere fatte dai giudici, con interpretazioni creative «determinate da troppo zelo di comprensione del movimento sociale» [136]
: «il magistrato è chiamato a cooperare indirettamente col legislatore, ma soltanto rilevando le deficienze e le lacune della legge che applica, in relazione al progresso sociale e legislativo, ed auspicando nella sua sentenza la riforma» [137]
. Insomma, parole sì, fatti no: e questo era un modo fascista di intendere il ruolo degli operatori del diritto.
Note
[125] Le già cit. decisioni della Comm. centr. imp. priv., 15 febbraio 1929; Pret. Taranto, 27 novembre 1929; Pret. Padova, 23 agosto 1929 vennero pubblicate ne «Il diritto del lavoro», 1930, II, pp. 259 seg., con nota contraria di A. Cavallo. Nello stesso anno la rivista pubblicò le seguenti sentenze: Pret. Salò, 20 maggio 1930, ivi, p. 498; Mag. Lavoro Venezia, 23 dicembre 1929; Pret. Siena, 7 marzo 1930; Pret. Firenze, 28 febbraio 1930; Pret. Biella, 24 ottobre 1930; Pret. Prato, 22 dicembre 1930, ivi, pp. 665 seg., tutte contrarie all’attribuzione dell’indennità all’impiegata dimissionaria per causa di matrimonio. La rivista ripubblicò anche la sentenza Pret. Taranto, 27 novembre 1929, ivi, p. 672, con una nuova nota contraria di A. Cavallo).
[126] A. Toffoletto, nota a Pret. Salò, cit.; A. Cavallo, note cit.; E. Fidale, nota a Pret. Prato, 22 dicembre 1930, in «Il diritto del lavoro», 1930, II, pp. 671 seg. Anche il «Massimario di giurisprudenza del lavoro» aveva continuato ad interessarsi della questione, pubblicando un intervento di A. Rossini, All’impiegata che si dimette in occasione del matrimonio non spettano le indennità di legge, nota a Pret. Siena, 7 marzo 1930, ivi, 1930, pp. 339 seg.
[127] Cass. Regno, 10 febbraio 1934, in «Il diritto del lavoro», 1934, II, p. 515. Secondo la cassazione, il matrimonio della donna non costituiva ostacolo alla continuazione del rapporto: tuttavia, ove nel regolamento dell’azienda fossero previste le dimissioni per seri motivi, e si accordasse nel caso l’indennità di anzianità, fra tali motivi si sarebbe dovuto comprendere il matrimonio. La cassazione censurava quindi la tesi della forza maggiore (sostenuta ancora da Pret. Milano, 1° maggio 1933, in «Il diritto del lavoro», 1933. II, p. 353, secondo il quale il matrimonio era «sano motivo di dimissioni» con nota contraria di A. Toffoletto, che vi ribadiva le sue critiche contro i richiami retorici alla campagna demografica); la cassazione correggeva invece a favore dell’impiegata l’interpretazione delle clausole contrattuali o regolamentali, che prevedessero casi di dimissioni con indennità. Tali clausole erano state infatti intese ancora in senso restrittivo da: Mag. Lavoro Milano, 31 dicembre 1912, in «Il diritto del lavoro», 1933, II, p. 354: Pret. Pavia, 17 febbraio 1933, in «Foro italiano», Repertorio 1933, voce «Impiego privato», n. 512.
[128] A. Cavallo, nota a Pret. Padova, 23 agosto 1929, cit.
[129] Può sorprendere tale atteggiamento verso la carta del lavoro; infatti i giuristi si erano affrettati, sulla scorta della famosa sentenza Cass. S.U., 28 luglio 1928, in  Il diritto del lavoro», 1928, II, p. 251, a riconoscere alla carta, pure priva di qualsiasi valore giuridico, il carattere di «documento interpretativo dello spirito giuridico e della concezione sociale del regolamento dei rapporti di lavoro» (cosí L. Riva Sanseverino, La tutela dei lavoratori nella carta corporativa, cit., pp. 366 seg.). L’atteggiamento di ostilità, riscontrabile nel caso di cui ho riferito nel testo, si spiega però con l’uso vantaggioso per i lavoratori che i giudici avevano fatto della carta del lavoro.
[130] E. Fodale, nota cit., p. 671.
[131] A. Toffoletto, nota cit., p. 500.
[132] A. Toffoletto, nota cit., p. 501.
[133] Un ricco panorama del dibattito fra giuristi c.d. puri e giuristi c.d. politici lo offre il vol. La concezione fascista del diritto di proprietà, a cura della con federazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura, Roma, 1939.
[134] Benché il R.D.L. n. 1825/1924 segnasse un arretramento, a svantaggio degli impiegati, rispetto al D.LGT. del 1919, «pur all’interno di una determinata linea politica di netto stampo autoritario e conservatore, la distribuzione relativa dei vantaggi e svantaggi fra impiegati ed operai si è sempre chiusa a favore dei primi»: cosí F. Carinci, Alle origini di una storica divisione: impiego pubblico-impiego privato, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1974, pp. 1907 seg., qui 1145, cui rinvio per l’analisi della formazione della legge sull’impiego privato.
[135] Rinunciando all’emanazione di un codice del lavoro, nella redazione della carta del lavoro si era anche evitato di «generalizzare», cioè di estendere agli operai, alcuni dei trattamenti di cui già godevano gli impiegati (come l’indennità di licenziamento e le ferie). Destinatari principali della carta divenivano cosí i sindacati fascisti; ed è infatti alla contrattazione collettiva corporativa che si deve la realizzazione di quella progressiva omogeneizzazione normativa fra impiegati e operai, che troverà poi riscontro nel cod. civ. del 1942. L’omogeneità raggiunta nel periodo corporativo era però relativa: non solo perché compensata dalla enucleazione, fino dal 1926, della figura del dirigente, ma perché, al di là della disciplina generale delle condizioni di lavoro comune ad impiegati e operai, resistevano nella contrattazione trattamenti fortemente sperequati fra le due categorie di «collaboratori». Cfr. U. Romagnoli, Principio d’uguaglianza e inquadramento unico operai-impiegati, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1973, pp. 1102 seg., e ora in Lavoratori e sindacati tra vecchio e nuovo diritto, cit., p. 93 seg.
[136] A. Toffoletto, nota cit., p. 501.
[137] La frase è del Pret. Salò, nella cit. sentenza 20 maggio 1930.