Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c2
Il discorso sulla legislazione fascista non può concludersi senza far cenno a come i giuristi si distinguessero per lo zelo con cui sostenevano il regime e la sua politica (anche femminile), ed alla stupefacente mancanza di pudore con cui molti di questi intellettuali ostentavano il loro asservimento. Mi riferisco qui alla produzione relativa al diritto del lavoro in generale e, in ¡specie, al diritto corporativo. Presso gli studiosi di quest’ultima disciplina tra cui, secondo Giuseppe Rabaglietti [102]
, potevano distinguersi i «maniaci e i fobisti», l’acri
{p. 82}sia e l’intonazione apologetica erano diffuse, e tanto spiccate da perdere ogni connessione ragionevole con l’oggetto dello studio: evidentemente il regime non consentiva un approccio formalistico e neutrale al sistema corporativo; e chi studiava una disciplina così compromessa aveva spesso ambizioni di carriera [103]
.
Certo non sempre e non da tutti si erano scritte cose dello stesso tenore; le prime opere che i giuristi di più chiara fama avevano dedicato al sistema corporativo si erano mantenute su di un livello più decoroso [104]
; ma quello che ho descritto è lo sconfortante panorama che emerge dalle riviste di diritto corporativo e del lavoro dell’epoca, su cui scrivevano anche i meno importanti e più giovani amici di Bottai [105]
.
Il panorama non cambia quando si passa ad esaminare gli studi di legislazione sociale, specificamente dedicati alla disciplina giuridica del lavoro femminile. Benché in questo caso le opere «scientifiche» siano scarse per numero e pregio e ‒ se migliori ‒ siano per lo più limitate ad un’esposizione ragionata delle norme di legge [106]
, si può dire che gli autori non mancavano di premettere all’illustrazione delle leggi qualche pagina di esaltazione della politica demografica del fascismo [107]
: anche qui non si sa se per tacita richiesta, per necessità familiare, o per eccesso di zelo. La premessa che ho detto non svolgeva solo una funzione di introduzione ma forniva, nell’intenzione degli autori, la chiave di lettura dei provvedimenti del regime; poiché, con essa, si invitava in sostanza il lettore a non porsi troppe domande sui silenzi delle norme e dell’autore, e a prendere comunque per buoni gli intenti «assistenziali» dei fascisti.
Ci si potrebbe fermare qui: se non fosse che, sfogliando le riviste del periodo alla ricerca di scritti sulla questione del lavoro femminile, può capitare di imbattersi in episodi di riscoperta della «neutralità» della scienza giuridica e dell’«imparzialità» dell’interprete. Uno di questi episodi mostra il contrasto tra alcuni giudici, assertori ingenui e convinti della politica demografica, e alcuni più provveduti giuristi che, in nome delle «millenarie, sicure e sperimentate» regole della tecnica giuridica [108]
, difendono gli interessi dei datori di lavoro, immediatamente in conflitto con quella politica. Potreb{p. 83}be sembrare, quella dei giuristi, una riconversione a principi e costumi della cultura liberale, tanto improvvisa quanto improbabile, in un contesto di prediche (ascoltate e praticate) sul primato della politica ‒ del regime ‒ e sulla non neutralità della scienza [109]
.
Invece no: tutto rientra nella normalità del periodo, è solo un episodio delle relazioni fra industriali e fascisti. E quando gli industriali non gradiscono le conseguenze «sociali» di una scelta politica (nel caso si tratta di pochi soldi da sborsare), la scelta viene fatta scadere a mero enunciato propagandistico: con buona pace dei pochi diciannovisti rimasti [110]
e molta soddisfazione dei giuristi, avvezzi più ad ascoltare le ragioni del capitale che quelle dei parvenus del potere politico.
Al centro di questo piccolo ma esemplare episodio stava la seguente questione: se all’impiegata [111]
, che si dimettesse «volontariamente» a causa del prossimo matrimonio, spettasse o meno l’indennità di licenziamento (detta anche di anzianità). L’eventuale diritto dell’impiegata dimissionaria all’indennità costituiva indubbiamente un’anomalia nel regime giuridico della risoluzione del rapporto di impiego privato: infatti, mentre la disciplina delle dimissioni, di cui all’art. 14R.D. 13 novembre 1924, n. 1825, nulla disponeva in ordine all’indennità di anzianità, questa era dovuta dal principale, a norma dell’art. 9 ultimo comma dello stesso R.D., in ogni caso di licenziamento non causato da «gravi mancanze» dell’impiegato [112]
.
La questione, che emerge sulle pagine delle riviste specializzate nel 1929, era stata preceduta da una serie di importanti decisioni in merito alla risoluzione del rapporto d’impiego per causa di matrimonio, che bene illustrano le prassi aziendali più diffuse a quei tempi [113]
. Richiamandosi alla politica demografica del fascismo, le corti (ed i collegi di giudici non togati) [114]
avevano affermato l’illiceità e immoralità delle clausole dei regolamenti aziendali che prevedevano il licenziamento senza indennità della impiegata «passata a nozze» [115]
. I giudici avevano inoltre ritenuto coatte, e non volontarie, le dimissioni rassegnate in ossequio a disposizioni del regolamento, o a clausole contrattuali, che consi{p. 84}derassero, in caso di matrimonio, l’impiegata «ipso iure dimissionaria»; con la conseguenza di applicare in entrambi i casi (licenziamento o dimissioni coatte) il regime del licenziamento con indennità [116]
. La soluzione data dalla giurisprudenza aveva trovato consenso nella dottrina: le clausole che imponevano alle impiegate sposate, o prossime al matrimonio, di lasciare senz’altro il lavoro erano parse, oltre che inique e punitive, contrarie alla politica demografica del governo, nella misura in cui elevavano un evento lecito e tutelato ‒ come il matrimonio ‒ ad impedimento per la prosecuzione di un rapporto cui l’evento medesimo era da ritenersi estraneo. «Anche di fronte a clausole di tal fatta ‒ aggiungeva un autore [117]
‒ l’impiegata deve continuare a presentarsi al servizio, perché ciò che è contrario alle leggi civili nessuno vincola. Sarà poi il principale […] che licenzierà la lavoratrice, adducendo a motivo (non causa) il matrimonio intervenuto». E si comprende che tanto consenso sulla interpretazione in chiave demografica era motivato dalla modesta portata delle conseguenze pratiche: ché, se i giudici, invece di limitarsi ad attribuire l’indennità, avessero annullato ‒ per illiceità del motivo ‒ il licenziamento (o le pseudo dimissioni), le reazioni sarebbero state diverse. Come lascia supporre lo sviluppo successivo delle vicende.
Ancora in materia di dimissioni per causa di matrimonio si pose infatti una nuova questione, diversa e per certi aspetti più complessa della precedente. Il caso era quello dell’impiegata che, essendo prossima al matrimonio, si dimettesse dall’impiego senza essere vincolata alle dimissioni forzate dal contratto o dal regolamento d’azienda.
Con una sentenza destinata a suscitare molto interesse e qualche scandalo, il pretore di Padova [118]
decideva che quelle dimissioni non dovevano essere considerate volontarie, ma piuttosto causate da forza maggiore: con la conseguenza di fare eccezione alla disciplina ordinaria delle dimissioni (art. 14 R.D.L. n. 1825) e di assegnare all’impiegata dimissionaria l’indennità di anzianità. «Il matrimonio ‒ argomentava il pretore ‒ rappresenta per la donna [...] un evento di grave e definitiva importanza per il proprio avvenire ed a questo essa deve subordinare, anche contro la sua volontà{p. 85} tutti gli eventuali impegni che la vincolino. Nessuno può dubitare che la volontà della donna non possa essere libera, posto che sia fra la scelta del matrimonio, che è lo scopo naturale della sua vita, e la prosecuzione di un impiego». Oltre a questo ragionamento, così conforme all’ideologia fascista, il pretore di Padova forniva, a sostegno della propria tesi, due argomenti che dovevano senz’altro allineare la sua sentenza sulle posizioni ufficiali del regime. In primo luogo, richiamava la dichiarazione XVII della carta del lavoro, nella quale era previsto che il «lavoratore» avesse diritto all’indennità di anzianità in ogni caso di «licenziamento senza sua colpa»: evidentemente intendendo che il vocabolo «licenziamento» denotasse indifferentemente, in quel contesto, la disdetta di ambedue le parti del rapporto di lavoro [119]
. In secondo luogo, e con maggior enfasi, il pretore richiamava le direttive della legislazione fascista per l’incoraggiamento al matrimonio e la protezione della filiazione legittima [120]
: ritenendo contrario a tali direttive negare all’impiegata che abbandonasse l’impiego, per dedicarsi alle doverose cure della famiglia (servire il marito e procreare), un premio accumulato in anni di lavoro, cioè l’indennità.
Che l’attribuzione dell’indennità di anzianità all’impiegata dimissionaria fosse il risultato di un’interpretazione del R.D. n. 1825 audace, ma conforme alle direttive politico-demografiche del regime, non era dubbio: e non lo sottolineava solo qualche sindacalista fascista [121]
, ma lo affermavano tutti i giuristi che commentavano la sentenza del pretore di Padova. Malgrado ciò, la reazione negativa fu immediata: in una nota pubblicata nella rivista della con federazione fascista degli industriali («Massimario di giurisprudenza del lavoro»), e redatta in uno stile molto tecnico, Antonino Cattaneo [122]
censurava la sentenza con questi argomenti:
1) il matrimonio, pur costituendo in regime fascista un «dovere sociale e morale», non poteva essere considerato « forza maggiore», cioè causa estranea al debitore e a lui non imputabile, tale da impedirgli l’esatto adempimento; giuridicamente il matrimonio restava un atto libero e volontario, non invocabile come causa di forza maggiore a fini di risoluzione del contratto di impiego. Persino se il datore di lavoro{p. 86} avesse posto all’impiegata il dilemma di scegliere tra il marito e l’impiego ‒ aggiungeva Cattaneo ‒, l‘impiegata non avrebbe potuto invocare la forza maggiore, essendo, sempre dal punto di vista giuridico, libera di scegliere [123]
;
2) ove anche fosse stato corretto definire il matrimonio causa di forza maggiore, tale definizione non sarebbe stata sufficiente ad attribuire all’impiegata dimissionaria l’indennità di anzianità, poiché l’unico caso di risoluzione del rapporto per forza maggiore, con diritto all’indennità, previsto dal R.D. n. 1825, era quello della morte dell’impiegato. Qui Cattaneo censurava la «deplorevole imprecisione di terminologia» che aveva indotto il pretore a richiamare la carta del lavoro: ai sensi della dichiarazione XVII, ricordava, l’indennità era dovuta in caso di «licenziamento», cioè di disdetta data dal principale, non dall’impiegato. Sul punto Cattaneo aveva ragione, ma volutamente dimenticava che nel linguaggio giuridico del tempo il dare disdetta da parte del dipendente era designato indifferentemente coi verbi «dimettersi» e «licenziarsi », e che, d’altra parte, nella redazione dei titoli II e III della carta del lavoro, si erano utilizzati promiscuamente il linguaggio comune e la terminologia degli specialisti [124]
;
3) quanto alle direttive di politica demografica, l’autore della nota riteneva infine che, anche attenendosi ad esse, non si potesse conseguire il risultato di premiare con l’indennità l’impiegata che lasciasse il lavoro per sposarsi: poiché le uniche disposizioni vigenti in materia tendevano se mai a favorire i coniugati nelle assunzioni e nella conservazione degli impieghi.
A parte quest’ultimo punto, in cui Cattaneo falsificava le implicazioni della propaganda demografica, per l’evidente preoccupazione che i datori di lavoro si trovassero costretti a pagare alle donne gli incentivi a tornare a casa, le formalistiche argomentazioni, con cui aveva criticato la sentenza del pretore di Padova, costituivano la falsariga su cui si mosse la successiva, copiosa elaborazione giurisprudenziale e dottrinale della questione.
Alla presa di posizione della rivista confindustriale ci si sarebbe aspettati una replica da parte della rivista di Bottai
{p. 87} («Il diritto del lavoro»): e invece, nel 1930, la rivista pubblicava con molto rilievo una serie di sentenze che negavano l’indennità di anzianità all’impiegata dimissionaria per causa di matrimonio [125]
, accompagnate da favorevoli note di commento [126]
. Rispetto allo scritto di Cattaneo, questi interventi presentano due aspetti di novità: il primo è l’estremizzazione della tesi favorevole all’impiegata; il secondo è il tono dei commenti fortemente critico verso la giurisprudenza «politicizzata». Sotto il primo profilo, prende corpo, nelle pagine della rivista di regime, una subdola revisione della giurisprudenza che aveva affermato l’illiceità delle clausole, che, imponendo all’impiegata di lasciare il lavoro in caso di matrimonio, negavano alla licenziata (o dimissionaria forzata) l’indennità di anzianità: revisione subdola, perché tale giurisprudenza era formalmente accettata. Dalla premessa illiceità delle clausole suddette, si traevano infatti conseguenze che, mentre stravolgevano il senso della soluzione giurisprudenziale (limitata alla disposizione sull’indennità), vanificavano il pur modesto risultato raggiunto. Si partiva dall’affermazione dell’illiceità dell’intera clausola di nubilato, ma, anziché far discendere dalla illiceità della clausola la nullità dell’atto di recesso (e conseguente conservazione dell’impiegata nel posto di lavoro), si concludeva per la volontarietà del recesso medesimo, escludendo il diritto all’indennità. Con questo singolare ragionamento: se le clausole sono illecite, debbono considerarsi inesistenti, e quindi non vincolanti l’impiegata: d’altra parte, il matrimonio, che non è causa di forza maggiore, non costringe l’impiegata a dimettersi; pertanto, se l’impiegata che vuole sposarsi si dimette, le sue dimissioni sono volontarie, indipendentemente dal fatto che l’impiegata stessa lasci il lavoro per sua libera scelta, ovvero in ossequio ad una clausola del contratto o del regolamento giuridicamente non vincolante.
Note
[102] G. Rabaglietti, Mania e fobia nel diritto corporativo, in «Giustizia del lavoro», 1930, pp. 300 seg. Lo scritto di Rabaglietti è recensito con molta acredine sul «Diritto del lavoro», 1931, I, p. 90; l’anonimo recensore così conclude: «Il dir male degli studiosi di diritto corporativo sta diventando una moda! [...] Passatempi... Ma non di eccessivo buon gusto: specie da parte di chi stia sui margini dell’arena e non abbia ancora dato eccelsi contributi alla tenzone e neppure tangibili prove di serie qualità scientifiche». Tuttavia Rabaglietti non era il solo classificatore; v., del ben più autorevole G. Chiarelli, I semplicisti del diritto corporativo, in «Giustizia del lavoro», 1930.
[103] Cfr. U. Romagnoli, Il diritto sindacale corporativo ed i suoi interpreti, in «Storia contemporanea», 1970, pp. 105 seg., e ora in U. Romagnoli, Lavoratori e sindacali tra vecchio e nuovo diritto, Bologna, 1974, pp. 187 seg., da cui cito. Condivido la tesi di Romagnoli sulla continuità tra l’ideologia giuridica del tardo liberismo e l’ideologia giuridica corporativa: la continuità non esclude però che gli operatori giuridici si fossero tempestivamente inseriti nella dialettica dei rapporti di potere, «assecondandone la mistificazione ideologica con l’apporto della loro tecnica interpretativa [...] abbastanza smaliziata e disinvolta per fondare le premesse di un sostegno organizzato ad una politica del diritto adeguata ai tempi» (U. Romagnoli, op. cit., p. 211).
[104] Per «decoro» intendo non solo lo stile non pienamente «fascistizzato» (cioè ‒ come ha scritto N. Bobbio, Profilo ideologico del novecento, in Storia della letteratura italiana, a cura di N. Sapegno, vol. IX, Milano, 1969, p. 208 ‒ ridotto a formule rituali, a dommatica, oppure a sfoghi sentimentali, tra il mistico e l’apologetico), ma il maggior acume politico di quei giuristi che manifestavano la tendenza ad interpretare la legislazione sindacale corporativa alla stregua dei principi generali del passato, conservando tutto quanto era possibile conservare del patrimonio accumulato dalla scienza del diritto. Sulle opere di questi giuristi dovevano appuntarsi le violente critiche del gentiliano A. Volpiceli, Corporativismo e scienza giuridica, Firenze, 1934, che se la prendeva con Carnelutti, Santi Romano, Cesarini Sforza, Paolo Greco, e persino col «disagitato» Carlo Costamagna, lutti colpevoli di aver dato del corporativismo un’interpretazione tradizionalistica, «pedissequamente aggirantesi nell’orbita dei vecchi presupposti e schemi scientifici» (p. 26), di aver conservato l’antiquato concetto individualistico del diritto, di avere riproposto «l’assurdo dualismo fra società (popolo, istituzioni sociali) e stato». Per questo teorico dello stato corporativo, immanente agli individui e con essi coincidente, «chi vinca il più legittimo senso di repulsione e scenda ad esaminare quelle trattazioni, ha la prova provata di questo asserto: che esse rinvergano di tutto punto con le concezioni scientifiche verbalisticamente aborrite e solo immaginariamente scrollate» (p. 24).
[105] Benché Bollai stesso giudicasse controproducenti gli estremismi dei giuristi-politici la sua posizione mediana a proposito della scienza giuridica è espressa con chiarezza nel discorso dell’inaugurazione del corso di legislazione corporativa presso l’Università di Pisa (13 novembre 1928), negli articoli pubblicati (specialmente su «Il diritto del lavoro») negli anni tra il ‘27 e il ‘32, e soprattutto nella relazione al 2° convegno di studi sindacali e corporativi (Ferrara, 5-8 maggio 1932, in Atti, Roma, 1932), quando il trenta- seienne ministro delle corporazioni, al massimo della potenza e del prestigio, chiese alla scienza giuridica di «congiungere e contemperare le indagini de lege condita con quelle de lege condenda, di tenere presenti il senso della continuità del diritto col senso della sua progressività, di congiungere considerazioni di carattere politico a quelle di ordine tecnico». Sul convegno di Ferrara, importante per lo scandalo suscitato dalla relazione di U. Spirito (ma il c.d. corporativismo di sinistra della «corporazione proprietaria» doveva avere vita breve: il suo ideatore proponeva poco dopo il convegno di lasciarla da parte e non pensarci più), cfr. S. Cassese, Un programmatore degli anni trenta: Giuseppe Bottai, in «Politica del diritto», 1970, pp. 415 seg.; G. B. Guerri, Giuseppe Bottai un fascista critico, Milano, 1976, pp. 106 seg., cui rinvio per la bibliografia di e su Bottai: qualche cenno anche in C. Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Milano, 1973, pp. 61 seg. L’opinione del «critico» Bottai che il diritto non dovesse piegarsi alla ragione politica, bensì interpretarsi secondo questa; che il giurista non dovesse far politica ma semplicemente farsi una sensibilità politica (G. Bottai, editoriale Bilancio, in « Il diritto del lavoro», 1931) trova qualche riscontro negli scritti di diritto sindacale e corporativo pubblicati nelle riviste da lui dirette. Quegli scritti mostrano, peraltro, la corda della «libera discussione» promossa dal ministro, rendendo evidente quanto esiguo fosse il limite di tolleranza al non-allineamento dei giuristi, e quanto rapida la piena fascistizzazione di questo settore della cultura. Cosí U. Romagnoli, op. cit., p. 196.
[106] Tra le opere dedicate alla legislazione sociale in generale, possono ricordarsi: G. Balella, Lezioni di legislazione del lavoro, I, Roma, 192; L. Barassi, Diritto del lavoro e assicurazioni sociali, Milano, 1930; U. Borsi, Elementi di legislazione sociale e del lavoro, Bologna, 1936; G. D’Eufemia, Diritto del lavoro (Legislazione, Dottrina, Giurisprudenza), Milano, 1937; D. O. Fantini, Politica economica e legislazione del lavoro in Italia, prefazione di A. Rocco, Firenze, 1927; Id., Corso completo di legislazione sociale e del lavoro, Perugia, 1930; M. Franchini, La disciplina del lavoro, prefazione di G. Bottai, Firenze, 1928; M. Fossati, Corso di legislazione del lavoro, Firenze, 1928; P. Greco, Lezioni di legislazione del lavoro, Torino, 1937; A. Grechi e V. Barile, Istituzioni di legislazione sociale, cit.; G. Landi. Elementi di legislazione del lavoro, Genova 1929; G. Mazzoni, Corso di legislazione comparata del lavoro, Milano, 1936; N. Palopoli, Legislazione del lavoro, Padova, 1930; L. Riva Sanseverino, Lezioni di legislazione del lavoro, Padova 1934; Ead., Corso di diritto del lavoro, Padova, 1937; F. Santoro Passarelli, Legislazione del lavoro, Padova, 1936.Sulla tutela delle lavoratrici le monografie di un certo rilievo sono poche; poiché non mi è stato possibile reperire parte del materiale, e quindi controllare di persona, cito senza pretese di completezza e perfetta omogeneità tecnica: S. Baravalle, Maternità ed infanzia e previdenza sociale, Vercelli, 1931; G. Barnabò-Siloratta, Assicurazione per la maternità, Torino, 1928; O. Di Marco, La legislazione fascista per l’incremento demografico e l’assistenza sociale, Campobasso, 1938; E. Giordano, Norme sul lavoro delle donne e dei fanciulli, Modena, 1934; F. Guidotti, Il lavoro delle donne e dei fanciulli e la tutela della maternità delle lavoratrici, cit.; A. Lo Monaco-Aprile, La protezione sociale della madre e del fanciullo in Italia e all’estero, Bologna, 1923; L. Riva Sanseverino, Legislazione fascista del lavoro femminile, Napoli, 1933.Di un certo interesse qualche articolo, per lo più breve: C. Alessandri, La tutela igienico sanitaria della donna e del fanciullo sul lavoro, in «Maternità e infanzia»), 1927, II, pp. 57 seg.: Id., La legislazione per l’assistenza nella maternità e nel puerperio, ivi, febbraio 1931; G. Gini Alessandri, Il lavoro della donna e il sindacalismo fascista, In «Il diritto del lavoro», 1927, pp. 933 seg.; A. Anselmi, La nuova tutela giuridica del lavoro delle donne e dei fanciulli, in « Politica sociale», 1933, n. 12; G. Bottai, La madre e il fanciullo nella previdenza sociale, in «Politica sociale», 1933, pp. 842 seg.; R. Del Giudice, Legislazione sociale e incremento demografico, in «Critica fascista», 1934, pp. 18 seg.; G. D’Eufemia, Il lavoro delle donne nelle legislazioni germanica, francese e russa, in «Giustizia del lavoro», 1933, pp. 471 seg.; E. Fodale, La famiglia e le leggi del lavoro, in «Rivista del lavoro», 1938; M. Guy, La maternità nel lavoro, in « Il lavoro fascista», 28.2.1929; A. Maroi, Lo sviluppo d’una politica familiare nelle assicurazioni sociali, in Atti del convegno di studi sindacali e corporativi, Ferrara, 5-8 maggio 1932, Roma, 1932.
[107] V. per tutti F. Guidoni, Il lavoro delle donne e dei fanciulli e la tutela della maternità delle lavoratrici, cit.; il lungo saggio di Guidotti costituisce la trattazione più completa ed organica dedicata da un giurista, durante il periodo fascista, alle leggi allora vigenti sul lavoro femminile.
[108] Così A. Toffoletto, nota a Pret. Salò, 20 maggio 1930, in «Il diritto del lavoro», 1930, II, pp. 499 seg., qui 500.
[109] L’esempio più clamoroso di asservimento degli esponenti del mondo scientifico ed accademico alle direttive del regime veniva dagli statistici, dai demografi e dai medici, responsabili di falsificazioni grossolane a sostegno della «battaglia demografica»; cfr. P. Meldini, Sposa e madre esemplare, cit.. pp. 84 seg.
[110] In un articolo pubblicato su «Lo stato operaio», marzo 1928, in Lo stato operaio. 1927-1939, antologia a cura di F. Ferri, vol. I, Roma, 1964, pp. 170 seg., e dedicato alla recensione dei primi dieci numeri di «Critica fascista», i comunisti italiani davano del diciannovismo questa definizione: movimento di piccola borghesia venuta a galla nel corso della guerra, reazionario in un duplice senso: di fronte al grande capitalismo e di fronte al proletariato. Diffidenti verso il sindacalismo fascista (e di qui il latente contrasto fra «Critica fascista» e «Il lavoro d’Italia»), secondo i comunisti i diciannovisti conservavano rancore e odio anti operaio, e continuavano a servire il capitalismo nei quadri del partito, come prima lo avevano servito nelle squadre d’azione.
[111] Per gli anni in cui sorse la questione di cui mi occupo nel testo, l’eventuale spettanza dell’indennità di anzianità (detta, più frequentemente, di licenziamento) non poteva che riguardare l’impiegata privata. L’istituto dell’indennità era stato introdotto con il R.D. 9 febbraio 1919, n. 112 per gli impiegati privati, e poi nuovamente con il R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825, sempre per i soli impiegati. La carta del lavoro (dich. XVII) prevedeva l’attribuzione dell’indennità ai «lavoratori», mentre il R.D. 1° luglio 1926, n. 1130 considerava la regolamentazione del diritto all’indennità come elemento necessario del contratto collettivo corporativo. In ossequio a questi principi, la contrattazione collettiva corporativa antecedente l’entrata in vigore del cod. civ. (che estese agli operai l’indennità, e generalizzò i risultati contrattuali) diede sviluppo alla disciplina dell’indennità di anzianità, prevedendone la (parziale) corresponsione anche in caso di dimissioni volontarie dell’impiegato, ed estendendola, ma in limiti quantitativi modesti, ad alcune categorie operaie. Sull’evoluzione storica della normativa in materia v., per tutti, C. Smuraglia, Riflessioni sull’indennità di anzianità, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, I, pp. 253 seg.
[112] La doppia esclusione delle dimissioni volontarie e del licenziamento per mancanze illuminavano la funzione allora prevalentemente assegnata all’indennità di anzianità; funzione di cui la dottrina recente ha dato versioni diverse: v. ancora C. Smuraglia, op. cit., e ivi riepilogo del dibattito. Non entro nel merito; mi pare tuttavia interessante richiamare un intervento di G. Landi, Tutela e previdenza sociale. Discorso pronunciato alla camera dei deputati. 7 marzo 1933, in «Il diritto del lavoro », 1933, I, pp. 147 seg., il quale, al fine di tranquillizzare gli industriali, che lamentavano l’eccessivo costo degli accantonamenti in una fase di crisi economica (sempre uguali, questi industriali!), ricordava come l’indennità di licenziamento, consolidando un premio a favore degli impiegati che avessero maturato una lunga anzianità, consacrasse un principio di previdenza «tipica della collaborazione di classe». Nello stesso intervento alla camera, Landi esprimeva anche l’opinione che sarebbe stato opportuno estendere il diritto all’indennità agli impiegati anziani dimissionari: per incoraggiarli ad andarsene, lasciando il posto ai giovani.
[113] A quanto riferisce la dottrina del tempo, erano frequenti nei regolamenti interni delle aziende clausole del tipo: «le impiegate che contraggono matrimonio non possono conservare il loro posto, e dovranno presentare le dimissioni con preavviso di un mese» (reg. soc. telefonica salentina, cit. da A. Cavallo), nota a Pret. Taranto, 3 dicembre 1929, in «Il diritto del lavoro», 1930, II, p. 673). Sempre secondo quella dottrina, in ottemperanza alle direttive demografiche del regime, molti contratti collettivi contenenti clausole analoghe erano stati modificati; può darsi: ma la sopravvivenza, nei regolamenti delle aziende e degli enti pubblici, delle clausole di nubilato è documentata dalla necessità (che il nostro legislatore ha avvertito solo nel 1963: infra, cap. IV, par. 3) di vietare per legge il licenziamento (o le dimissioni forzate) per causa di matrimonio.
[114] Commissioni arbitrali provinciali per l’impiego privato e commissione centrale per l’impiego privato, soppresse (insieme ai collegi dei probiviri) con il R.D. 26 febbraio 1928, n. 471, che devolvette la competenza sulle controversie individuali di lavoro, in 1° grado, ai pretori e ai tribunali, nei limiti della rispettiva competenza per valore. Sul R.D. n. 471/1928, v. D. Preti, La regolamentazione delle controversie «individuali» di lavoro in regime fascista, in «Studi storici» aprile-giugno 1977, pp. 125 seg., e ivi ampi riferimenti bibliografici.
[115] Coll. arb. imp. priv. Torino, 5 marzo 1927, in «Foro italiano». Repertorio 1927, voce «Impiego privato», nn. 299-300; Comm. centr. imp. priv., 27 agosto 1927, ivi, nn. 297-298; Comm. centr. imp. priv., 27 dicembre 1927, ivi, 1928, voce «Impiego privato», n. 234.
[116] Comm. centr. imp. priv., 17 dicembre 1927, in «Il diritto del lavoro», 1928, II, p. 215; Comm. centr. imp. priv., 15 febbraio 1929, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1928, p. 248; App. Bari, 5 febbraio 1930, in «Foro italiano», 1930, I, c. 639; Pret. Taranto, 3 dicembre 1929, in «Il diritto del lavoro». 1930, II, p. 672.
[117] A Toffoletto, nota a Pret. Salò, 20 maggio 1930, cit., p. 500.
[118] Pret. Padova, 23 agosto 1929, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1929, p. 514.
[119] Nel R.D.L. n. 1825/1924, la disdetta data dal principale era denominata «licenziamento»; quella data dall’impiegato «dimissioni dal servizio». Nella dich. XVII della carta del lavoro, l’indennità di anzianità era genericamente attribuita ai «lavoratori » (ma per legge competeva solo agli impiegati) in caso di «licenziamento senza colpa».
[120] L’unica legge che avesse dato attuazione alla politica demografica (nell’ambito dei rapporti di lavoro) era la L. 6 giugno 1929, n. 1204, il cui art. 1 disponeva che «in nessun caso lo stato di celibe e di nubile ovvero la conservazione dello stato stesso può costituire titolo di preferenza per gli impiegati dello stato»; l’art. 2 della legge estendeva tale disposizione ai contralti di impiego privato. In applicazione delle suddette disposizioni, v. App. Genova, 27 febbraio 1931, in «Foro italiano», Repertorio 1931, voce «Impiego privato», n. 484, secondo cui doveva ritenersi illegittimo il licenziamento di un impiegato ammogliato con prole, quando risultassero dipendenti della stessa azienda impiegati celibi e di pari merito. Anche in questo caso la politica demografica non portava a conseguenze troppo sgradite ai datori di lavoro: la corte genovese escludeva infatti che si potesse ordinare la riassunzione in servizio dell’impiegato licenziato, riconoscendogli solo il diritto al risarcimento del danno.
[121] C. Alessandri, Nuzialità e maternità nel diritto corporativo, in «Maternità e infanzia », 1930, pp. 915 seg. L’a., capo dell’ufficio tecnico dei sindacati nazionali fascisti, commentando favorevolmente la sentenza del pretore di Padova, osservava: «Si comprende che l’indennità non spetti a chi si dimetta per correre l’alea di un miglioramento o di un avanzamento, giacché è evidente che debba farlo a suo rischio e pericolo. Ma non si comprende che l’indennità non sia accordata alla dipendente, la quale non cambia di posto o di azienda, ma rinunzia allo stipendio od al salario per compiere nella famiglia la sua missione di donna».
[122] A. Cattaneo, Il matrimonio dell’impiegata e il caso di forza maggiore, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1929, pp. 514 seg.
[123] A. Cattaneo, op. cit., p. 515. Questi, affermazione, che Cattaneo faceva in tono paradossale, doveva essere ripresa ‒ e non più come paradosso ‒ da altri autori, per affermare la volontarietà delle dimissioni per causa di matrimonio.
[124] Soprattutto nella parte relativa alla disciplina delle condizioni di lavoro, il testo definitivo della carta del lavoro (titoli II, III) mostra «il progressivo accentuarsi dell’intonazione inconfondibilmente propria delle espressioni di credo politico: il che costituisce un’innovazione di tendenza rispetto al primo progetto i cui paragrafi ‒ segnatamente quelli afferenti alle condizioni di lavoro e al collocamento ‒ sono formulati in modo da prefigurare una compiuta disciplina giuridica. Naturalmente, i modi stilistici non sono fini a se stessi, ma esprimono una scelta politica» (così U. Romagnoli, op. cit., p. 206, e ivi brani di documenti inediti che si aggiungono a quelli già pubblicati da R. De Felice, Mussolini, il fascista, vol. II, L’organizzazione dello stato fascista, 1925-29, Torino, 1968, pp. 269 seg.; Appendice n. 5, pp. 525 seg., sulla formazione della carta del lavoro). La scelta politica cui allude Romagnoli, cioè l’adozione del metodo della formulazione per principi ‒ talvolta ambigui ‒ era il frutto di un compromesso, fortemente sbilanciato dalla parte degli industriali, fra le posizioni dei sindacalisti di Rossoni (posizioni espresse nel progetto di «carta» elaborato dalla confederazione nazionale dei sindacati fascisti, quasi un codice del lavoro), e le contrastanti posizioni della confederazione nazionale dell’industria, contraria alla «codificazione» (cioè alla generalizzazione di istituti quali l’indennità di anzianità, le ferie, il limite delle otto ore, il salario «minimo » contrattuale, ecc.). Anche il declassamento della carta del lavoro da atto giuridico ad atto meramente politico (fino alla tardiva trasformazione nella legge 30 gennaio 1941, n. 14) può considerarsi una manifestazione di debolezza del regime di fronte alle oligarchie economiche. Per le vicende della laboriosa elaborazione della carta del lavoro v., per tutti, R. De Felice, op. cit., pp. 222 seg.; attribuisce un ruolo determinante alla mediazione di Bottai, anziché di A. Rocco, G. B. Guerri, Giuseppe Bottai un fascista critico, cit., pp. 94 seg. Utile mi pare il confronto con la dettagliata lettura a caldo che della carta, «documento di classe, della classe contro cui il proletariato italiano è in lotta», diedero i comunisti italiani: La carta del lavoro, in «Lo stato operaio», 3 maggio 1927, riportato nell’antologia Lo stato operaio 1927-1939, I, cit., pp. 67 seg.
[125] Le già cit. decisioni della Comm. centr. imp. priv., 15 febbraio 1929; Pret. Taranto, 27 novembre 1929; Pret. Padova, 23 agosto 1929 vennero pubblicate ne «Il diritto del lavoro», 1930, II, pp. 259 seg., con nota contraria di A. Cavallo. Nello stesso anno la rivista pubblicò le seguenti sentenze: Pret. Salò, 20 maggio 1930, ivi, p. 498; Mag. Lavoro Venezia, 23 dicembre 1929; Pret. Siena, 7 marzo 1930; Pret. Firenze, 28 febbraio 1930; Pret. Biella, 24 ottobre 1930; Pret. Prato, 22 dicembre 1930, ivi, pp. 665 seg., tutte contrarie all’attribuzione dell’indennità all’impiegata dimissionaria per causa di matrimonio. La rivista ripubblicò anche la sentenza Pret. Taranto, 27 novembre 1929, ivi, p. 672, con una nuova nota contraria di A. Cavallo).
[126] A. Toffoletto, nota a Pret. Salò, cit.; A. Cavallo, note cit.; E. Fidale, nota a Pret. Prato, 22 dicembre 1930, in «Il diritto del lavoro», 1930, II, pp. 671 seg. Anche il «Massimario di giurisprudenza del lavoro» aveva continuato ad interessarsi della questione, pubblicando un intervento di A. Rossini, All’impiegata che si dimette in occasione del matrimonio non spettano le indennità di legge, nota a Pret. Siena, 7 marzo 1930, ivi, 1930, pp. 339 seg.