Edoardo Chiti, Alberto di Martino, Gianluigi Palombella (a cura di)
L'era dell'interlegalità
DOI: 10.1401/9788815370334/c4
Pluralismo, dunque, come filosofia della «resistenza» al monismo giuridico moderno; come «universo parallelo», traiettoria alternativa a quella tracciata dallo statualismo e dall’individualismo ottocenteschi [10]
. Se questo è innegabilmente un pezzo della storia, è però soprattutto al cospetto delle profonde trasformazioni del Novecento che le istanze del pluralismo acquisteranno, come è noto, la loro piena visibilità teorica.
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Il primo elemento di novità con il quale, ad inizio secolo, occorre confrontarsi è l’insorgenza della prima sintomatologia della «crisi» dello Stato moderno. A creare scompiglio è la tendenza del maturo capitalismo industriale a favorire il ricomporsi della società in una moltitudine di corpi organizzati (associazioni, partiti, sindacati) che nel silenzio assordante del diritto ufficiale portano alla ribalta interessi giuridici, economici e politici «sezionali» in potenziale conflitto non soltanto tra loro, ma anche rispetto all’unità ideale dello Stato-persona. È il fenomeno del «sindacalismo». Un fenomeno che scandalizza i benpensanti nella misura in cui sembra evocare lo spettro di un nuovo «feudalesimo funzionale» [11]
, l’emersione di una «sovranità intermedia» [12]
in grado di «decomporre» [13]
, con la forza della propria {p. 97}effettività, la compattezza dell’ordinamento giuridico dello Stato. Accanto ad inevitabili moti di rigetto, tuttavia, quella che assume le sembianze di una vera e propria «révolte des faits contre le Code» [14]
diviene anche l’occasione per un profondo ripensamento dei paradigmi consolidati, che chiama in causa direttamente il ruolo e la funzione dello Stato, il rapporto tra diritto e società. Possono ricondursi a questa linea, ad esempio, le dottrine pluraliste di chi, come Hauriou e Gurvitch, pur battendo strade diverse – la teoria istituzionalista il primo, l’idea del «diritto sociale» il secondo –, convengono sulla necessità teorica di sciogliere l’equazione tra diritto e sovranità politica, per ricondurre il fenomeno giuridico nell’alveo di una dinamica sociale più ampia di cui lo Stato costituisce uno soltanto (e non necessariamente il principale) tra i players in campo [15]
.
C’è però un problema a questo punto. Un problema con cui ogni teoria pluralista deve presto o tardi fare i conti. Il problema di come «gestire» la pluralità. Posto che il diritto non è più pensabile come un attributo esclusivo dello Stato, ma deve essere guardato come un «multiverso» riconducibile in ultima istanza ad ogni forma di organizzazione sociale, ebbene, come far sì che la condivisione dello spazio giuridico tra una pluralità di ordinamenti di differente raggio e razionalità non sfoci in aperto confitto, in una guerra senza quartiere per il riconoscimento? Come volgere ad ordinem un fenomeno che ha improvvisamente perduto il suo tradizionale centro di gravitazione? {p. 98}
Una risposta autorevole a questi interrogativi sarebbe giunta in simile frangente da Santi Romano, in quella che indubbiamente è una delle più note ed influenti opere giuridiche del Novecento [16]
. E la soluzione del dilemma va rintracciata per Romano nel concetto di «rilevanza giuridica», concetto al quale dedica in buona sostanza tutta la seconda parte del suo opus magnum.
Romano è tra i primi a comprendere che la radice della cosiddetta «crisi» dello Stato moderno risiede tutta nella tendenza «di una serie grandissima di gruppi sociali a costituirsi ciascuno una cerchia giuridica indipendente» [17]
, ma è anche soggettivamente convinto che proprio le dinamiche che stanno mettendo a repentaglio la tenuta dell’ordinamento statale, ne rendano in realtà ancor più indispensabile il primato [18]
. Certo, quello della pluralità è un dato di fatto dal quale per Romano nessuna teoria giuridica che voglia mantenere un minimo di contatto con la realtà può ormai prescindere. Solo l’ideologia iconoclasta della Rivoluzione francese aveva potuto pensare di erigere lo Stato sulle macerie di una matematica demolizione di ogni assetto sociale di stampo corporativo/associativo, elevando così alle sue estreme conseguenze l’idea che «il diritto non sarebbe che una forza o una volontà, che si irradierebbe dallo Stato (…), e {p. 99}soltanto da esso» [19]
. Ma appunto, si è trattato di una strategia di rimozione della realtà che adesso, di fronte al ribollire delle forze sociali organizzate, non appare più sostenibile.
Nasceva qui, come è noto, una delle più celebrate teorie giuridiche del XX secolo. Ma qual è il punto che qui interessa? Il punto è che se la pluralità non può essere rimossa o esorcizzata, deve però per Romano essere governata. E questo, sul piano squisitamente teorico, si traduce nella messa a punto del concetto di rilevanza giuridica: «perché ci sia rilevanza giuridica, occorre che o l’esistenza o il contenuto o l’efficacia di un ordinamento sia condizionata rispetto ad un altro ordinamento, e ciò in base ad un titolo giuridico» [20]
. Rilevanza giuridica – sottolinea Romano – non va confusa con l’importanza di fatto che un ordinamento può avere per un altro, né con la connessione materiale che per ragioni di opportunità o convenienza politica può sussistere tra più ordinamenti. Rilevanza è relazione giuridica, sorretta su uno specifico titolo. La natura del titolo può variare (si può parlare, ad esempio, di un rapporto di subordinazione/inferiorità; di presupposizione; di dipendenza; di rilevanza unilaterale; di successione/compenetrazione; ecc.), ma il risultato non cambia: quello che attraverso il concetto di rilevanza Santi Romano può mettere in scena è un pluralismo «ordinato», costruito attorno ad un reticolo di relazioni giuridiche predefinite e dove ciò che conta, alla fine, è la determinazione dell’ordinamento a partire dal quale ricostruire la trama dei relativi rapporti di rilevanza.
Risolvere il problema del rapporto e del conflitto tra ordinamenti alla luce del principio di rilevanza significa, in altri termini, adottare un criterio di civilizzazione del pluralismo che dipende logicamente dalla scelta del «punto di vista» dal quale – per così dire – osservare il mondo. Scelta che per Santi Romano è giuridicamente obbligata: in quanto ordinamento originario, in quanto ordinamento sovrano, il legittimo titolare del potere «ultimo» di decidere della rilevanza altrui non può essere che lo Stato. Insomma, se in {p. 100}base al principio di pluralità nessun ordinamento può decidere dell’intrinseca giuridicità dell’altro, alla fine è sempre lo Stato, il diritto statale, la pietra di paragone rispetto alla quale stabilire se, e fino a che punto, ogni altro ordinamento possa ritenersi a qualunque titolo giuridicamente «rilevante».
Nel corso del Novecento non c’è però soltanto il pluralismo della crisi. A dar manforte ai partigiani del modello pluralista interviene, infatti, in seconda battuta la novità dirompente delle costituzioni democratiche del primo e del secondo dopoguerra. Il tema è ovviamente sterminato e non possiamo occuparcene se non per gli aspetti che qui, per l’appunto, rilevano. Procedendo di volo, possiamo dire che per il costituzionalismo novecentesco l’opzione pluralista sia la risultante di due scelte fondamentali che maturano storicamente di fronte al tramonto e alla torsione totalitaria dello Stato liberale.
La prima presa di posizione può ricondursi al superamento del paradigma individualistico di matrice giusnaturalistica. Rispetto al precedente delle carte dei diritti sei-settecentesche, infatti, le costituzioni democratiche del Novecento, lungi dall’essere scritte nell’iperuranio delle verità di ragione, rappresentano al contrario il tentativo più autentico di rispecchiamento giuridico della complessità sociale, di lettura e «invenzione» (nel senso etimologico del termine) dell’insieme dei valori su cui poggia una comunità politica [21]
. Destinatario dei diritti e dei doveri costituzionali non è più l’individuo astratto del giusnaturalismo moderno, bensì la «persona»: un soggetto storicamente situato, còlto tanto nella sua inviolabile individualità, quanto nella sua ontologica proiezione relazionale e sociale. Insomma, nel corso del Novecento la società reale entra nella costituzione, portandosi dietro tutto il suo carico di valori, ma anche di contraddizioni e conflittualità.
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Note
[10] Tre per Bobbio le principali matrici culturali del pensiero pluralistico ottocentesco: socialismo (utopistico e libertario), liberalismo e cristianesimo sociale. Percorsi molto diversi tra loro, ma in qualche misura solidali nel battere in breccia la dicotomia (e la segreta alleanza tra) Stato e individuo quale paradigma fondativo della modernità. Cfr. N. Bobbio, Teoria e ideologia nella dottrina di Santi Romano, in Id., Dalla Struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, prefazione di M.G. Losano, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 155.
[11] «È sorto e si è organizzato in Italia negli ultimi dieci anni un vero feudalesimo funzionale. Poiché quando i sindacati operai (…) richieggono ed impongono l’obbedienza a coloro che vi sono inscritti, anche se questa equivale alla ribellione aperta contro la disciplina gerarchica e la legge, (…) è evidente che ci troviamo davanti ad un’azione, se non identica negli scopi, certo nei mezzi molto analoga a quella degli antichi baroni. Come questi un tempo sminuzzarono la sovranità dei loro principi e se ne divisero le spoglie, così oggi deleghe operaie e le camere del lavoro fronteggiano Stato e Comuni, ne paralizzano l’azione e ne usurpano le attribuzioni» (G. Mosca, Feudalesimo funzionale (19 ottobre 1907), in Id., Il tramonto dello Stato liberale, Catania, Bonanno, 1971, p. 201).
[12] «Si ricostituì dappertutto una sovranità di classe intermedia fra lo Stato stesso dove espressamente e dove tacitamente riconosciuta. E questa sovranità intermedia impone ai suoi soggetti le condizioni e le modalità secondo le quali devono lavorare ed esercita sugli affiliati, ed alle volte anche sugli operai indipendenti, un potere munito di sanzioni penali più efficaci di quelle colle quali lo Stato cerca di tutelare la libertà del lavoro. (…) È quindi un pericolo nuovo e grave che, negli ultimi dieci o quindici anni, colla formazione dei Sindacati di pubblici impiegati si è affacciato davanti a tutti gli Stati moderni. I singoli organi acquistata la coscienza di un interesse separato e distinto da quello dell’intero organismo, e consci che la loro inazione basti a paralizzarlo o quanto meno a metterlo in gravi imbarazzi, sanno che possono valersi della loro organizzazione per imporre alla collettività quei patti che credono nel loro interesse migliori» (G. Mosca, Il pericolo dello Stato moderno (27 maggio 1909), in Id., Il tramonto dello Stato liberale, cit., pp. 213-214).
[13] «Chi legge con cura la storia degli ultimi Carolingi non può tralasciare di riconoscere, nei particolari, molti tratti di analogia nei modi con i quali allora si decomponeva e oggi si decompone lo Stato. I fatti precedono solitamente la teoria, le relazioni reali quelle di diritto. Apparentemente, il governo centrale è ancora sovrano oggi, come era Carlo il Calvo nel secolo IX; ma, nel fatto, ci sono paesi come l’Italia, ove esso si fa ubbidire anche meno del Carolingio» (cfr. V. Pareto, Il potere centrale, in Id., Scritti sociologici, Torino, UTET, 1966, pp. 1013-1016).
[14] Il riferimento è al fortunato libretto di G. Morin, Las révolte des faits contre le Code, Paris, Bernard Grasset, 1920.
[15] Cfr. M. Hauriou, La théorie de l’institution et de la fondation. Essai de vitalisme social, in AA. VV., La cité moderne et les transformations du droit («Cahiers de la Nouvelle Journée», 4), Paris, Bloud et Gay, 1925, pp. 2 ss.; trad. it. La teoria dell’istituzione e della fondazione. Saggio di vitalismo sociale, Macerata, Quodlibet, 2019 e G. Gurvitch, Le temps présent et l’idée du droit social, Paris, Vrin, 1931.
[16] Cfr. S. Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, Sansoni, 1946 (ed. or. Annali delle Università Toscane, 1917 e 1918) e ora la ristampa dell’edizione del ’46 a cura di M. Croce, Macerata, Quodlibet, 2018.
[17] Ibidem, p. 102.
[18] «Ma qualunque idea voglia accogliersi (…) un principio sembra a noi che risulti sempre più esigente e indispensabile: il principio, cioè, di un’organizzazione superiore che unisca, contemperi ed armonizzi le organizzazioni minori in cui la prima va specificandosi. E quest’organizzazione superiore potrà essere e sarà ancora per lungo tempo lo Stato moderno, che potrà conservare quasi intatta la figura che attualmente possiede. (…) Maggiori saranno i contrasti che dalla specificazione delle forze sociali e della loro cresciuta e organizzata potenza deriveranno, più indispensabile apparirà l’affermazione del principio, che il potere pubblico non potrà considerarsi che come indivisibile nella sua spettanza, per quanto più larga e più confacente possa rendersi la partecipazione delle varie classi sociali al suo servizio» (S. Romano, Lo stato moderno e la sua crisi (Pisa, 1909/10), in Id., Lo Stato moderno e la sua crisi, Milano, Giuffrè, 1969, pp. 24-25).
[19] Romano, L’ordinamento giuridico, cit., p. 98.
[20] Ibidem, p. 126.
[21] Per una forte sottolineatura di questo aspetto, cfr. P. Grossi, L’invenzione del diritto, Roma-Bari, Laterza, 2017; Id., Una Costituzione da vivere. Breviario di valori per italiani di ogni età, Bologna, Marietti, 2018 e Id., Costituzionalismi tra «moderno» e «post-moderno». Tre lezioni suor-orsoliane, Napoli, Editoriale scientifica, 2019.